Élisabeth Lévy – Causer.fr
Mai prima d’ora la riprovazione nei confronti di Israele aveva raggiunto un tale parossismo. L’accusa di genocidio si sta banalizzando, ben oltre i circoli islamo-mélenchonisti. E l’interminabile guerra di Gaza divide i sostenitori di Israele. Sulla scia di Delphine Horvilleur, alcuni denunciano pubblicamente la prosecuzione della guerra e gli attacchi di Netanyahu contro lo Stato di diritto, suscitando rabbia e smarrimento nella comunità ebraica.
È un torrente, un’ondata, uno tsunami. Israele è diventato sinonimo di male. All’Eurovision, grandi anime difendono i bambini palestinesi insultando una giovane donna che ha avuto il cattivo gusto di sopravvivere al 7 ottobre, nascosta sotto i corpi dei suoi amici. Al Festival di Cannes, in mancanza di abiti osé vietati per decenza, la Palestina viene indossata come un vessillo – e non la Palestina dei due Stati, ma la Palestina “dal fiume al mare”. Nei campus europei e americani si ostenta compassione vomitando ininterrottamente odio verso lo Stato ebraico. Ogni giorno una corporazione si fa avanti per denunciare un presunto genocidio, ogni giorno si alzano voci per chiedere che Israele venga messo al bando delle nazioni, ogni giorno le terribili notizie da Gaza cancellano sempre di più i corpi martoriati del 7 ottobre. E ogni giorno viene brandita una dichiarazione spaventosa proveniente da uno dei “ministri malefici” del governo Netanyahu – per riprendere l’espressione di Alain Finkielkraut – per giustificare la liberazione della parola antisemita1. Smotrich è razzista, dunque Israele è razzista, dunque gli ebrei sono razzisti.
Curiosamente, la gaffe di Thierry Ardisson che ha detto “Gaza è Auschwitz” ha suscitato scandalo. Eppure ha esattamente lo stesso significato dell’accusa di genocidio: Israele = SS. Se Israele sta commettendo un genocidio, cioè qualcosa che somiglia alla Shoah, allora sì, Gaza assomiglia ad Auschwitz. E oggi questo termine infamante, che porta con sé la richiesta di sanzioni e di abbandono, è ormai di uso comune ben oltre i circoli islamo-mélenchonisti che lo hanno sdoganato. Trecento scrittori, tra cui gli immancabili Annie Ernaux e Nicolas Mathieu, chiedono in un testo collettivo sanzioni contro Israele2. Si dirà che sono le solite anime belle professioniste. Probabilmente. Ma non si può accusarli di ignorare le vittime ebree: “Così come era urgente qualificare i crimini commessi contro civili il 7 ottobre 2023 come crimini di guerra e contro l’umanità, oggi bisogna chiamare ‘genocidio’ quello che sta accadendo”, scrivono. Su TF1, il presidente della Repubblica glissa, ma non respinge il termine.
Mai Israele era stato così riprovato. E mai il mondo ebraico, lì come qui, era stato così lacerato: tra laici e religiosi, ebrei di sinistra ed ebrei di destra, gente comune e notabili (vedi il testo di Noémie Halioua alle pagine 48-49). In Francia, è Delphine Horvilleur ad aprire il fuoco e a cristallizzare le passioni con un atto d’accusa in cui parla di una “politica suprematista e razzista che tradisce violentemente la nostra Storia3”. Sembra che questa figura insospettabile abbia revocato un divieto, perché subito dopo molti amici dello Stato ebraico, ebrei e non, si sono espressi pubblicamente nello stesso senso, provocando a loro volta una raffica di repliche da parte di personalità molto diverse. Naturalmente, le critiche di Horvilleur e degli altri non possono in alcun modo essere confuse con le invettive dei mélenchonisti. Si possono contestare, ma non si può mettere in dubbio che i loro autori vogliano il bene di Israele. Nessuno ha il monopolio del sionismo e della sua definizione. Rifiutando che queste divergenze, per quanto dolorose, rendano impossibile il dialogo, abbiamo voluto dare spazio a tutte le sensibilità. È il momento di ricordare che sono stati gli ebrei a inventare la discussione talmudica. È proprio quando un disaccordo è aspro che bisogna sforzarsi di comprendere la posizione avversa.
Nel mondo ebraico e “filo-ebraico” francese, la discordia non si può ridurre a un’opposizione tra detrattori e ammiratori incondizionati di Bibi. Per tutti coloro che tengono all’esistenza di uno Stato ebraico e democratico, ogni mancanza di Israele, ogni incrinatura nell’immagine di “l’esercito più morale del mondo”, ogni immagine di una famiglia distrutta è uno strazio. La propaganda esiste, ma non spiega tutto. Inoltre, mentre Netanyahu gioca un gioco pericoloso con la Corte Suprema, ci sono ragioni per pensare che, nella “sola democrazia del Vicino Oriente”, lo Stato di diritto sia minacciato. Il disaccordo riguarda quindi meno la sostanza che l’opportunità. Mentre Israele viene abbandonato da ogni parte, anche dagli Stati Uniti, per non parlare dell’Europa, dove molti paesi stanno seriamente pensando di riconoscere la Palestina – mentre, come ha sottolineato Franck Tapiro, fondatore del gruppo militante DDF (Diaspora Defense Forces), la stessa Palestina detiene ancora degli ostaggi – bisognava davvero prendersi il rischio di confortare i propri nemici? Denis Olivennes e Philippe Val appartengono alla stessa famiglia ideologica, la sinistra liberale e repubblicana. Tuttavia, il primo è convinto che bisogna parlare delle colpe di Israele per il bene di Israele, mentre il secondo preferisce tacere per paura di alimentare il mulino antisemita.
Alla fine, riaffiora la vecchia domanda di Camus: tra tua madre e la Giustizia, tra tua madre e la verità, cosa scegli? Ognuno deve rispondere per sé. Alain Finkielkraut non ha alcun dubbio: “Non ho mai rinunciato e mai rinuncerò all’esigenza di verità per motivi di opportunità”, tuona nel corso di una discussione piuttosto accesa. Il filosofo intende continuare a combattere su due fronti: contro l’odio per Israele e per gli ebrei da un lato, contro la disastrosa politica di Israele dall’altro. Resta da sperare che non perda entrambe le battaglie.
Traduzione dal francese di R.M.
https://www.causeur.fr/le-dechirement-elisabeth-levy-sionisme-israel-gaza-310867
1. Alain Finkielkraut : « Une bonne conscience antisémite s’installe un peu partout dans le monde », Le Figaro, 26 maggio 2025.
2. « Nous ne pouvons plus nous contenter du mot “horreur”, il faut aujourd’hui nommer le “génocide” à Gaza », di 300 scrittori, AFP, 26 mai 2025.
3. « Gaza/Israël : Aimer (vraiment) son prochain, ne plus se taire », Delphine Horvilleur, Tenoua, 7 mai 2025.