La Parashà Shelach si conclude con la mitzvà dello tzitzit, il comandamento di mettere le frange agli angoli degli abiti. Mentre la maggior parte dei fili dello tzitzit deve essere di colore bianco, ci deve essere almeno un filo di techelet, una tonalità particolare di blu. Come prescritto dalla Torà, la mitzvà dello tzitzit è obbligatoria solo se si indossa un abito a quattro angoli. I Chachamim, tuttavia, decretano che un tallit katan, un piccolo tallit, debba essere indossato per tutto il giorno al fine di adempiere a questa mitzvà ininterrottamente. L’istituzione successiva del tallit gadol, durante le tefillot del mattino e in altre occasioni, riflette ulteriormente il significato di questa mitzvà.
Il Talmud sostiene che la mitzvà dello tzitzit abbia un’importanza equivalente alla somma di tutte le altre mitzvot messe insieme. Qual è il significato della mitzvà dello tzitzit e perché i Chachamim attribuiscono così tanta importanza alla sua esecuzione? Quale possibile scopo potrebbe esserci nell’applicare le frange ai nostri abiti? C’è un significato filosofico latente nei fili bianchi e blu dello tzitzit? Perché questa mitzvà è riportata nel testo in questo punto, specificamente all’indomani del tragico peccato degli esploratori?
La discussione rabbinica su questa mitzvà inizia dal livello più elementare, dal significato stesso del termine ebraico tzitzit. Rashi offre due interpretazioni alternative, ciascuna delle quali supportata da prove testuali. Il termine tzitzit, afferma, si riferisce o alle frange stesse o al loro ruolo di simbolo visibile destinato a “essere visto” (dalla radice lehatzitz, vedere). Diversi commentatori, tra cui il Rashbam, considerano i due approcci di Rashi non come alternative, ma come interpretazioni complementari. Il termine tzitzit, sostengono, definisce contemporaneamente sia la struttura fisica della mitzvà sia il suo scopo ultimo.
Questo duplice significato del termine tzitzit, sostengono, si riflette nelle parole, apparentemente strane, usate nei versetto per questa mitzvà: “e faranno tzitzit agli angoli delle loro vesti”, e poi continua: “e sarà per voi come tzitzit e lo vedrete”. Perché la Torà ritiene necessario affermare che lo tzitzit servirà per gli ebrei come tzitzit?
La mitzvà dello tzitzit consiste in qualcosa di più del semplice fare e indossare frange su abiti a quattro angoli. Per adempiere correttamente a questa mitzvà, le frange devono “essere visibili”, ispirando chi le indossa a ricordare le mitzvot. Rimane però una domanda di fondo: In che modo vederli fa ricordare tutte le mitzvot che ci ha dato D-o?
Il Talmud inizia a rispondere a questa domanda paragonando le frange ad un “sigillo d’argilla” posto su uno schiavo come conferma permanente del suo status. Lo Sforno afferma: “Quando vedrete [lo tzitzit], che è come un sigillo posto da un padrone sui suoi servi, ricorderete che siete servi di un D-o i cui comandamenti avete accettato con giuramento e promessa. Grazie a questo, vi asterrete dal ‘vagare dietro i vostri cuori'”. Il Ba’al Hachinuch osserva analogamente: “Nessuno strumento è il più efficace per il ricordo del sigillo del padrone apposto sugli abiti quotidiani [dei suoi servi]… che sono davanti al cuore e agli occhi [del servo] per tutto il giorno”. Lo tzitzit quindi rappresenta uno strumento semplice e concreto, l’uniforme di un servitore del Signore. Perché viene scelto specificamente lo tzitzit a questo scopo? La scelta di queste frange è arbitraria, simile a un nastro legato al dito di un individuo per stimolare la memoria, oppure c’è qualche cosa di intrinseco che lo rende adatto allo scopo? I Chachamim suggeriscono una varietà di approcci.
Il commento più famoso, fornito da Rashi e basato su un’antica fonte midrashica, interpreta il simbolismo dello tzitzit in termini matematici. Il valore numerico della parola tzitzit è seicento. Aggiungendo gli otto fili e i cinque nodi presenti in ogni serie di frange, si arriva a un totale di seicentotredici, la somma delle mitzvot contenute nella Torà. In questo modo, sostiene il Midrash, lo tzitzit serve come promemoria di “tutte le mitzvot del Signore”. Il Ramban, invece, sostiene che il messaggio simbolico dello tzitzit è specificamente contenuto nel filo (o nei fili) di techelet. Questo filo, afferma il Ramban, allude al tachlit (scopo) di tutta la creazione. L’obiettivo della mitzvà dello tzitzit non è semplicemente quello di ricordare “tutte le mitzvot”, ma di ricordargli l’attributo divino di kol (tutto), la natura totalmente inclusiva di D-o. Il Ramban trova supporto al suo approccio in una nota osservazione talmudica: “Perché il techelet è diverso da tutti gli altri colori? Perché il techelet assomiglia al [colore del] mare, e il mare assomiglia al [colore del] cielo, e i cieli assomigliano al [colore del] trono di gloria di D-o”.
Altri Chachamim individuano insegnamenti pratici e morali riflessi nel filo blu dello tzitzit. Il Ba’al Akeda, ad esempio, sostiene che il techelet si trovi a metà dello spettro cromatico tra gli estremi del nero e del bianco. Il techelet, quindi, riflette l’auspicabilità di un percorso di vita equilibrato che rifugga gli estremi.
Un’ultima intuizione sulla mitzvà dello tzitzit può essere ricavata da un’enigmatica connessione linguistica tra questa mitzvà e il tragico evento con cui si apre la Parashà. Moshè inviò dodici esploratori “latur et Eretz Canaan”, ad esplorare la terra di Canaan. Alla fine della Parashà, la Torà riassume lo scopo dello tzitzit dichiarando: “Velo taturu achare levavchem veachare enechem asher atem zonim acharehem”, e non devierete (taturu, latur) secondo il vostro cuore e i vostri occhi, dietro i quali vi smarrite”. L’uso ripetuto nella Torà del verbo latur, sembra collegare i temi in apparenza profondamente diversi che si trovano ai due estremi, inizio e fine, della Parashà. Qual è il fulcro e quale il collegamento di questa associazione?
La risposta risiede nell’atteggiamento generale dell’ebraismo nei confronti dell’esplorazione del mondo fisico. Infatti, mentre la Torà qui ammonisce: “Non esplorerai secondo il tuo cuore e secondo i tuoi occhi, seguendo i quali ti allontani”. L’indagine, l’esplorazione del nostro ambiente fisico non solo è generalmente consentita dalla maggior parte delle autorità halachiche, ma addirittura incoraggiata. Il Rambam sostiene: Qual è il sentiero che conduce al timore e all’amore [di D-o]?
Nel momento in cui un individuo considera le Sue meravigliose e grandi creazioni e opere e percepisce in esse la Sua incomparabile e infinita saggezza, immediatamente Lo ama, Lo loda, Lo glorifica ed è colto da un irrefrenabile desiderio di conoscere il Suo grande nome. Tale esplorazione diventa rischiosa, tuttavia, quando dimentichiamo i presupposti fondamentali che dovrebbero guidare il nostro viaggio. Similmente agli esploratori, inviati da Moshè in una missione legittima per esplorare la terra di Canaan, anche noi perdiamo la rotta nelle nostre “esplorazioni” quando perdiamo di vista la presenza di D-o nelle nostre vite e quando perdiamo la fiducia in noi stessi. Se , D-o non voglia, fosse questo il caso, finiremo per sentirci sopraffatti, piccoli, per usare le parole stesse degli esploratori, come cavallette agli occhi del prossimo (che vedremo come giganti).
La mitzvà dello tzitzit è necessaria, quindi, non solo in senso intimo e personale, per ricordarci le mitzvot, per ricordarci di D-o e della Torà, per spronarci ad assumere comportamenti corretti e giusti. Questa mitzvà assume anche il senso di ricordarci i fondamentiali, di permetterci di non dimenticare i presupposti che devono fare da linee guida per la nostra vita, per darci la possibilità di non chiuderci totalmente al mondo esterno. Mentre attraversiamo il nostro ambiente fisico, nello scorrere della nostra vita quotidiana, lo tzitzit rappresenta non solo un potente