Giulio Disegni
Una vita per l’ebraismo, ma anche per gli uomini, per la sua gente, per le sue Comunità, potrebbe sintetizzarsi l’opera multiforme di Dario Disegni, maestro, studioso e rabbino vissuto a cavallo tra due secoli densi di storia e vicissitudini anche drammatiche. Di antica famiglia livornese, con un cognome simile a quello – Di Segni – comune a molti ebrei romani, provenienti dalla città laziale di Segni, probabilmente parte di quel nucleo che aveva lasciato Roma nei secoli precedenti, per recarsi in Toscana dove assunse il cognome Disegni, Dario Disegni nasce a Firenze il 26 luglio 1878 da Cesare Disegni e da Anna Della Pergola, anch’essa appartenente ad antica famiglia ebraica fiorentina.
Era questo un periodo particolarmente fortunato per la comunità ebraica fiorentina, suggellato nel 1882 dall’inaugurazione della nuova grande Sinagoga progettata da Marco Treves, anche se alla floridezza economica e ad un elevato livello culturale dei suoi componenti si accompagnava, come ovunque in quell’epoca postemancipatoria, l’inizio di una dilagante assimilazione ai modelli culturali e di vita della società esterna.
Il processo di integrazione a seguito dell’emancipazione era divenuto assai intenso per gli ebrei fiorentini già dai primi anni ’60 dell’Ottocento, con forti crisi di identità e diffi coltà per i Rabbini di raccogliere intorno a sé soprattutto le giovani generazioni.
L’ambiente in cui nasce e cresce Dario Disegni è un ambiente povero, ma molto legato all’osservanza delle tradizioni ebraiche avite: il padre Cesare ha un’attività di ciabattino, mentre la mamma morirà assai presto, lasciando in tenera età i due figli, Dario e Amelia.
Poco prima di quando Dario sta per diventare bar-mitzwà, nel 1889, era arrivato in Italia, chiamatovi per fare il direttore del Collegio Rabbinico, a quell’epoca a Firenze, rav Shemuel Zevi Margulies, nato in Galizia nel 1858, laureatosi in filosofia e lingue semitiche e divenuto Rabbino, dopo aver studiato con i più celebri talmudisti tedeschi.
Come efficacemente commentava il Rabbino di Roma David Prato, a quell’epoca «la voce dei Rabbini era fioca, non usciva dalle quattro pareti della Sinagoga, quasi sempre ovunque disertata, molto spesso asservita alla volontà dei consigli di amministrazione della Comunità, composta di assimilati e di assimilatori»: l’avvento del Rabbino Margulies rappresentò uno scossone benefico per Firenze, che divenne ben presto un vero e proprio centro di rinascita ebraica italiana, oltre che di diffusione del sionismo[1].
Intorno alla sua persona si raccoglievano figure come Dante Lattes e Alfonso Pacifici e si andava formando una generazione di futuri rabbini, quali Elia S. Artom, Umberto Cassuto, Gustavo Castelbolognesi e Angelo Sacerdoti, che lasceranno una traccia importante nell’ebraismo italiano. In un ambiente certo stimolante, quale era il glorioso
Collegio Rabbinico Italiano, fondato nel 1829 a Padova da Samuel David Luzzatto e trasferito a Firenze, cresce e si forma anche il giovane Dario Disegni che divenne uno dei discepoli più legati a rav Margulies e a lui tra i più cari, come emerge da alcune lettere dal Maestro all’allievo rinvenute nel ricco archivio personale di rav Disegni.
Abitudine, quella delle lettere, affettuose ma piene di raccomandazioni, che sarà frequente poi per lo stesso futuro rabbino Disegni nel rapporto con i suoi allievi, sino alla fine della sua lunga vita[2].
Da qui, da quella Firenze ebraica di fine ‘800, da quel nuovo vento propulsore che ispirava l’iniziativa educatrice di rav Margulies, prende il via una storia che attraverserà gran parte del secolo successivo e che sarà vissuta da Dario Disegni come imperativo morale e impegno costante, ovunque egli abbia avuto modo di operare, «per la diffusione della Torà e per l’avvicinamento alle fonti dell’Ebraismo dei fratelli più lontani», come sottolineerà uno dei suoi allievi, il rabbino Giuseppe Laras.
Una vita ricca di impegni, di attività, di iniziative, non scevra da difficoltà e incomprensioni, scandita da tappe e passaggi che oggi sembrerebbero quasi impossibili se rapportati ai tempi in cui avvenivano. Una vita che merita qui di esser descritta in breve, pur nella consapevolezza che si tratta di una ricostruzione del tutto sommaria e per nulla esaustiva, ma utile forse a restituire un’immagine di un rabbino e di un uomo che trascorse quasi settant’anni in mezzo ai problemi, «non di rado sgradevoli, delle Comunità ebraiche, assediate dall’assimilazione e svuotate nel loro stesso interno dall’auto-disfacimento, conobbe e visse le loro lotte, le loro miserie, i loro dolori, senza mai rimanere sommerso e annichilito: pur scoraggiato e deluso, riusciva sempre a mettere da parte la malinconia e quel senso di impotenza… riuscendo a trovare in se stesso rinnovate e più fresche energie di fronte ai bisogni e alle necessità emergenti».
Non è certo facile tracciare una biografia completa sugli avvenimenti che hanno caratterizzato la lunga vita del rabbino Disegni e la documentazione che in parte è esposta in mostra non è che uno spaccato di alcuni suoi momenti fondamentali.
Gli anni della formazione a Firenze lo hanno portato a completare gli studi universitari in filosofia e a prendere il titolo rabbinico, ma ancor prima di arrivare alla laurea rabbinica, nel 1903 Dario Disegni aveva già lasciato la città natìa per coprire il suo primo incarico di vice rabbino a Genova, dove rimase per tre anni, seguiti da altri tre anni in quella Torino che diventerà il luogo principale della sua vita, della sua attività, dei suoi affetti.
Un rapporto lungo, speciale e unico quello con Torino, che potremmo definire la sua città, ancorché il legame con Firenze non sia mai venuto meno: la parlata rimase sempre quella colorita fiorentina, molti dei suoi modi di dire, di frasi mezzo toscane mezzo giudaiche si sono tramandate nella famiglia nelle generazioni successive. Firenze venne poi scelta quale luogo della sepoltura, accanto al padre, alla madre, al nonno Angelo.
Ma torniamo al 1903, anno che coincide anche con la formazione della famiglia: il 29 marzo al Tempio di Cuneo Dario Disegni sposa Elvira Momigliano, nata a Murazzano, appartenente alla grande famiglia dei Momigliano di Mondovì, più giovane di lui di tre anni, molto legata, in assenza del padre morto quando lei era bambina, allo zio Amadio, figura di studioso talmudista e cabalista assai conosciuta anche al di fuori dei confini piemontesi. Amadio Momigliano diventerà un riferimento sicuro tanto per la giovane Elvira quanto per Dario, come si evince da un carteggio molto frequente tra i due sposi e lo zio.
Si incontrano così, nel matrimonio tra Elvira Momigliano e Dario Disegni, due mondi apparentemente distanti, forse solo geograficamente, ma in realtà due Comunità legate agli studi e al profondo rispetto delle antiche tradizioni ebraiche, la Firenze di rav Margulies e del Collegio rabbinico e la Mondovì dei Momigliano (Amadio appunto, ma anche Attilio, Felice, Riccardo, Eucardio, Arnaldo, per citarne solo alcuni) connotata da un’antica abitudine allo studio e alla riflessione e non a caso chiamata “la piccola Gerusalemme”[3].
Il frequentissimo carteggio tra Dario Disegni ed Elvira Momigliano, dapprima fidanzati, poi sposi e genitori, nel periodo in cui vissero separati da impegni di lavoro del primo e impegni familiari della seconda, reperito fortunosamente intatto, nonostante due guerre mondiali, trasferimenti in molte città e abitazioni e vicissitudini di un secolo, documenta con singolare efficacia un mondo di regole e di tradizioni, di confronti e di affetti profondi, che danno la misura di quella fermezza, solidità e rigore della famiglia che stava formandosi.
Gli anni che seguono tra Genova, Torino e poi Verona nel 1909 vedono la formazione della famiglia: nel 1904 nasce Anna, nel 1906 Donato, nel 1908 Egidio e nel 1909 Raffaella.
È il 26 aprile 1909 quando Dario Disegni riceve con queste parole il primo incarico ufficiale di Rabbino: «dal convegno avuto ieri colla S.V. e dalla breve allocuzione da Lei pronunciata al Sacro Tempio, la Direzione e la Commissione hanno riportato così felici impressioni che unanimemente venne deliberato di proporre alla Assemblea generale… la sua nomina a Rabbino della nostra Comunione». Tra gli impegni assunti vi erano quelli «di entrare in carica col titolo di Dottore in belle lettere e di ottenere quello di Rabbino maggiore entro il 30 giugno 1910».
La Comunità che l’aveva chiamato al suo primo incarico di Rabbino era quella di Verona, una comunità piccola ma vivace, dove Dario Disegni vi si recherà da solo mentre la moglie con i quattro piccoli figli rimarranno a Cuneo, fino a quando il nucleo familiare si ricostituirà a Verona per un lungo periodo, che ha termine nel 1924, anno in cui farà ritorno a Torino.
L’esperienza rabbinica in una comunità ai confini con l’impero austro-ungarico nel pieno della prima guerra mondiale, sarà oltremodo formativa per rav Disegni, che ne manterrà un ricordo positivo per tutta la vita.
Già durante gli anni veronesi gli orizzonti per rav Disegni si ampliano: finita la guerra, nel 1922, dopo aver rifiutato l’incarico propostogli per diventare gran rabbino di Bulgaria, accetta la cattedra rabbinica di Bucarest. Era questo un incarico che gli veniva in qualche modo dall’alto per un interesse diretto del Ministero degli Affari Esteri, ma durò solo pochi mesi e da Verona, ove era rientrato, nel 1924 si trasferì a Torino, chiamatovi quale vice del Rabbino Giacomo Bolaffio.
Altri tentativi di portarlo in una comunità estera non avevano avuto successo anche per le difficoltà intrinseche di trasferirvi la famiglia. Così le richieste di guidare le Comunità di Alessandria d’Egitto e Salonicco rimasero lettera morta. Rav Disegni accettò però l’invito a guidare la Comunità di Tripoli, dove si recò
nel novembre del 1930. Fu un incarico breve perché terminò già nei primi mesi nel 1931, ma intenso dal momento che, come opportunamente sottolineato, «l’esperienza tripolina fu forse l’occasione più significativa in cui ebbe modo di mostrare le sue doti di organizzatore e di pastore d’anime».[4]
Al ritorno da Tripoli Dario Disegni si stabilì a Torino, da dove non si sarebbe più mosso e dove si realizzarono tutti i progetti più significativi del suo lungo magistero. Per pochi anni fu vice rabbino e poi nel settembre 1935 ebbe l’incarico di Rabbino Capo.
Le sue attenzioni erano rivolte alla crescita e all’educazione ebraica di tutti i membri della Comunità, un compito che si prefisse sin dal primo momento e che perseguì con tenacia sino alla fine, sovente in mezzo ad avversità e complessità di ogni genere, legate ad un periodo storico non certo facile.
Il Tempio era innanzitutto il centro della vita comunitaria, il luogo di riunione degli ebrei per eccellenza. «Qui vi recherete nelle ore di introspezione, nei momenti di silenzio interiore in cui ognuno di voi trova la nostalgia dell’infinito e dell’eterno… qui verrete, devotamente, ad espandere affetti, gioie, dolori, effusioni di giubilo, a ritrovare calma e rassegnazione ai voleri della Divinità, durante le prove dolorose della vita» sono le parole pronunciate il 3 giugno 1935 all’inaugurazione del Tempio di Genova e danno la misura della profonda umanità di rav Disegni, celata dietro un aspetto apparentemente burbero e severo, «dall’aspetto ieratico», come sottolinea Gadi Luzzatto Voghera.
L’aspetto, di uomo alto e austero: forse una delle caratteristiche del rabbino Disegni che tutti ricordano e citano anche a distanza di anni e anch’io lo ricordo nella sua casa sempre vestito di nero e fuori, «con un cappello a larga tesa… una cravatta bianca e un pizzetto appena rilevabile»[5].
Il 1935, si diceva, è l’inizio del lungo rabbinato a Torino, che per un quarto di secolo lo vedrà impegnato a 360 gradi nella vita di quella che era diventata ad ogni effetto la sua Comunità.
I primi sono certamente anni difficili per l’ebraismo in generale e per gli ebrei torinesi in particolare: appena due anni prima Hitler era salito al potere in Germania e avvisaglie di un nascente e preoccupante antisemitismo iniziavano a farsi strada anche a Torino. Nel 1934, al valico di Ponte Tresa erano stati arrestati diversi giovani ebrei antifascisti torinesi, mentre la Comunità viveva un periodo di tensioni e contrasti, e sempre nello stesso anno era stata fondata la rivista “La nostra bandiera” che si opponeva alla rivista “Israel” di ispirazione sionista, diretta da Dante Lattes e Alfonso Pacifici.
Sarà l’inizio di un periodo che condurrà pochi anni dopo alla legislazione razziale e a tutte le drammatiche conseguenze che gli ebrei dovranno subire.
Ma sin dal discorso d’insediamento tenuto nel Tempio Israelitico di Torino il 28 settembre 1935, primo giorno di Rosh ha shanà del 5696, l’accento del rabbino Disegni è sul ritorno alla tradizione, alla spiritualità, perché «gli uomini nostri anzi quanto sono più eminenti, hanno donato tutto sé stessi, le loro opere migliori senza sigillo ebraico, dimenticando del tutto di essere una coscienza, una storia, d’avere una forma spirituale propria, per assumere la forma ambientale».
È questa in fondo la vera preoccupazione, che caratterizza sin dal suo nascere l’operato di rav Disegni a Torino, per far in modo, come dichiara, che «da parte nostra ogni sforzo sia diretto a riportare questi nostri fratelli al puro spirito giudaico, mediante un’educazione costante, serena e scientifica delle nostre idee, senza formule vuote, senza paure. Dobbiamo creare un’atmosfera spirituale che conquisti la moltitudine degli uomini più eletti in Israele, ricostruire i valori ebraici, ricondurre le famiglie nostre alle sorgenti delle virtù singolari per cui si segnalò la nostra tradizione».
L’anelito maggiore era quello di avvicinare tutti, di far sentire tutti gli appartenenti alla Comunità legati e consapevoli dell’eredità ricevuta: «io voglio persuadervi – concludeva nel discorso d’insediamento – che non basta esser nato ebreo, è necessario che lo si diventi, che si chiarisca al nostro spirito il nostro ebraismo e che lo si renda attivo…ed è in cerca del cuore lontano che io affannosamente dirigerò i miei passi, provocando contatti il più frequente possibile coi singoli, come pure un’estesa coltivazione spirituale delle famiglie, una per una».
Oltre che ai singoli e alle famiglie, che cercherà di conoscere “una per una”, il rabbino Disegni rivolge il suo interesse precipuo nel campo dell’educazione. La scuola ebraica, vicino ai cui locali viveva, e l’Orfanotrofio Educatorio israelitico di Via Orto Botanico (poi Via Lombroso) diventano riferimenti centrali della sua attività, ma è del 1941, in piena guerra, l’idea di fondare a Torino il Collegio Rabbinico, idea che prenderà corpo con la creazione della Scuola Rabbinica intitolata al suo Maestro S.H.Margulies, che diventerà un vero e proprio «vivaio di maestri e di rabbini» cui egli «dedicò gli ultimi anni della sua vita, con una tenacia e una dedizione che non furono smosse da ostacoli materiali o da difficoltà d’altra sorta».[6]
Quella Scuola diventerà una fucina di giovani impegnati nello studio della Torah e negli studi rabbinici, che rav Disegni ricercherà meticolosamente nelle comunità italiane e in molte comunità estere, dalla Grecia alla Libia all’Etiopia: di lì molti dei suoi allievi andranno a ricoprire cattedre rabbiniche italiane.
La seconda guerra mondiale fu una delle pagine più dolorose e terribili della lunga vita di Dario Disegni: lo strappo causato dalla morte della figlia primogenita Annetta e della nipote Sissel Vogelmann, deportate ad Auschwitz nel gennaio 1944 ed eliminate nelle camere a gas al loro arrivo, sarà una ferita indelebile, sopportata con una fede e un attivismo incrollabili.
Fino all’ultimo e ancora nel giugno 1945, dopo il ritorno dai campi di sterminio del genero Shulim, il rabbino Disegni aveva sperato in una loro salvezza: in una lettera drammatica alla Comunità di Firenze, dove la famiglia Vogelmann viveva, confidando in un ritorno della figlia e della nipote, invocava notizie.
Poi la certezza. In casa, della tragedia si cercava di non parlare e l’azione fu ciò che caratterizzò da quel momento in modo sempre più significativo l’operato del Rabbino. Con il dolore nel cuore, nel luglio 1945 celebrava il primo matrimonio dopo la guerra, sulle rovine del Tempio Israelitico di Torino distrutto dai bombardamenti aerei del 1942, quel «maestoso e splendido edifi cio che dalla pietà dei Vostri cari era stato eretto a gloria di Dio, ridotto ad un cumulo di macerie», come aveva scritto rav Disegni rivolgendosi agli ebrei torinesi in una lettera del 24 novembre 1942, per annunciare «un’immane sciagura piombata sulla nostra Comunità».
La guerra era stata vissuta sino all’ultimo a Torino, nella sua Comunità, lasciata solo nel novembre ’43 per ritirarsi nell’Astigiano, cercando rifugio dalle retate nazifasciste.
Dopo il ritorno a Torino, la ricostruzione delle istituzioni comunitarie, il lavoro quotidiano nella Comunità, tra i suoi allievi della Scuola Rabbinica, nelle molte istituzioni ebraiche locali e nazionali, presero il sopravvento. Come bene scrisse alla sua morte il suo successore, rav Sergio Sierra, egli «adeguò la sua vita alla norma secondo la quale ‘è importante lo studio che conduce all’azione pratica’ e non v’è dubbio che tale scelta sia stata favorita anche dal suo naturale temperamento, dalla sua personalità combattiva, dinamica, in continua ricerca di realizzazioni. La coscienza profonda che nasceva dalla sua vocazione di Maestro lo guidò nella sua azione di organizzatore, di suscitatore di sempre nuove imprese nel campo ebraico facendo di Lui un instancabile costruttore»[7].
E così, a partire dagli anni ’60, lasciata la cattedra rabbinica torinese dopo un quarto di secolo, il Rabbino Dario Disegni, che già aveva tradotto i formulari delle preghiere rituali del Sabato e dei giorni feriali e di tutte le festività, diede vita ad un’opera necessaria quanto straordinaria: la traduzione in quattro volumi del Tanach.
Nel 1960 uscì la traduzione del primo volume Torah e Haftaroth, seguita nel 1962 da quella dei Profeti Anteriori, nel 1964 dai Profeti Posteriori e infine, nel 1967, a pochi mesi dalla sua scomparsa, il volume degli Agiografi.
Fu un lavoro immane cui si dedicò senza risparmio, nonostante l’età avanzata e le raccomandazioni continue dei figli di non stancarsi. Organizzò quello che è stato giustamente definito un “cantiere”, contattò i collaboratori e i traduttori, tradusse lui stesso, tenne i contatti con la casa editrice Marietti, cercò i finanziamenti, contattò le Comunità italiane e le biblioteche per una diffusione capillare della Torah.
Il 7 gennaio 1967, in un freddo sabato mattina, mentre la sua Comunità era riunita per le preghiere dello Shabbat al Tempio piccolo, allora nell’edificio di via Sant’Anselmo 7, Dario Disegni si spense.
Anch’io ero lì quella mattina, mio padre quel giorno non c’era perché all’estero, ricordo la sensazione di vuoto profondo che provai sentendo che il Nonno era mancato: d’un tratto il mondo sembrò crollarmi addosso.
L’11 gennaio la terza pagina de La Stampa così, tra l’altro, commentava la sua figura: «Rimane di lui oltre ad una ragguardevole opera di studioso ed alla versione biblica, di rilevante importanza anche fuori del ristretto ambito specialistico, il ricordo rispettato di un vecchio saggio, fedele con rigore appassionato alla tradizione ebraica, ma di un comprensivo e caldo senso umano».
Ed è quel comprensivo e caldo senso umano che anch’io ricordo fin da piccolo. Ricordo fissato nella mente e in una fotografia, scattata mentre assistevo, seduto sulle sue gambe, ad una premiazione di Purim nel Teatro Valdese e che mi accompagnò quando, più avanti, il sabato pomeriggio il Nonno mi impartiva lezioni di Torà dietro alla sua scrivania in preparazione del mio bar mitzwà.
Sia il suo ricordo in benedizione.
[1] Per un quadro della vita ebraica fiorentina tra Otto e Novecento cfr. Massimo Longo Adorno, Gli ebrei fiorentini dall’emancipazione alla Shoà, Firenze, La Giuntina, 2003; Lionella Viterbo, Spigolando nell’archivio della comunità ebraica di Firenze, Firenze, La Giuntina, 1997.
[2] cfr. Giuseppe Laras, Ricordo di un Maestro: Rav Dario Disegni z.l., Estratto dalla “Rassegna Mensile di Israel”, 1977 in occasione della commemorazione tenuta a Torino il 16 gennaio 1977 (26 Tevet 5737) per i dieci anni dalla scomparsa: «amava più tenere i contatti mediante lettere, scritte con quella grafia personalissima, inconfondibile». Si veda anche Roberto Bonfil, Il nostro Maestro Dario Disegni, in “Rassegna Mensile di Israel”, vol. XXIII, n. 2-3, 1967.
[3] Notizie su Mondovì ebraica si possono leggere in Marco Momigliano, Autobiografia di un Rabbino italiano, Palermo, Sellerio, 1991 e nella nota di Alberto Cavaglion, mentre un quadro familiare dei Momigliano è tracciato da Arnaldo Momigliano, fi glio di un fratello di Elvira, nella Prefazione a Pagine ebraiche, Torino, Einaudi, 1987.
[4] Così Gadi Luzzatto Voghera, Dario Disegni: un rabbino “ottocentesco” nell’Italia fascista, in Cattolici, ebrei ed evangelici nella guerra, a cura di Bartolo Gariglio, Riccardo Marchis, Milano, Franco Angeli, 1999, che ricostruisce almeno parzialmente la vicenda biografica di rav Disegni sino alla fine della seconda guerra mondiale, nel tentativo di mettere in luce i rapporti del rabbino con la società esterna in un’epoca quale quella fascista di estrema difficoltà per gli ebrei e per chi doveva guidarli.
[5] L’annotazione è di Augusto Segre in Memorie di vita ebraica, Roma, Bonacci, 1979, interessante anche per il ritratto che fornisce del rabbino Disegni durante il periodo dell’occupazione tedesca e del suo nascondiglio nelle campagne dell’Astigiano.
[6] 6. Cfr. Giorgio Romano, Dario Disegni, in Miscellanea di studi in memoria di Dario Disegni, Firenze, Giuntina, 1969.
[7] 7. Così Sergio Sierra nella Presentazione alla Miscellanea di studi in memoria di Dario Disegni, 1969.