Emanuele Calò – Quell’eccesso di universalismo – Pagine Ebraiche
Nell’aprile di quest’anno, un appello (qui) di numerosi ebrei italiani, seguito da una grande quantità di firme di ebrei e non ebrei, asseriva di non essere d’accordo con un comunicato che l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane aveva diffuso per la giornata del 27 gennaio «in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene che cosa sia l’antisemitismo e non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei». Ne consegue che non essendo il sottoscritto d’accordo con (alcune) «politiche di Israele», sarei antisemita a mia insaputa. Naturalmente, mi infilo quasi per celia nell’argomento apagogico, tanto caro al compianto Giovanni Tarello.
Sennonché, nel comunicato dell’UCEI (ma questa è solo una parte) si asseriva che «La condanna generica, appelli al boicottaggio, di isolamento e la demonizzazione di Israele e di tutte le sue istituzioni è parte delle espressioni di antisemitismo, così come il ribaltamento e l’attribuzione a Israele di appellativi connessi alla Shoah: sterminio/nazisti/genocidio/occupazione/lager etc. Così anche l’uso-abuso di simboli in contesti totalmente diversi per esprimere forme di contestazioni politiche, sportive, condanne sociali e pretese che nulla hanno a che vedere con la Shoah (stella gialla, Anna Frank etc.). Sono tutte forme di offesa alla memoria della Shoah».
Non si diceva da nessuna parte che non si potessero criticare «le politiche di Israele» o che farlo fosse un atto di antisemitismo, ma al contempo è altrettanto vero che i firmatari non potevano che essere in buona fede.
Poiché i firmatari rivendicano il loro universalismo, nel farlo implicano che gli ebrei siano ontologicamente diversi da tutti gli altri popoli, perché non mi risulta, per dire, che gli eschimesi, gli uruguagi, i senegalesi o i russi rivendichino il loro universalismo. Perché lo si fa? Vi è troppa letteratura al riguardo, e quindi a essa rinvio. Vi è un inconscio desiderio di accettazione? Per un popolo che nella Diaspora non ha una sua terra, potrebbe essere una risposta, e così facendo non sarebbe giudicabile, e giammai in modo malevolo, perché non siamo passibili di lode o di rimbrotto per il nostro inconscio. Tuttavia, nell’appello si leggeva: «Riconoscendo l’unicità della Shoah», forse senza la consapevolezza che questo era un gesto anti universalista, incompatibile con le loro premesse.
Se l’UCEI desse dell’antisemita a chi critica le politiche di Israele, saremmo a dir poco perplessi ma, per chi scrive, il bellissimo comunicato dell’UCEI mette in guardia dalla demonizzazione dello Stato ebraico, dato che a nessuno può passare per la mente di stigmatizzare le critiche.
Qui arriviamo al cuore del problema, che riguarda l’antichissimo concetto di incomunicabilità, che nel nostro caso riguarda non i rapporti fra ebrei, ma il rapporto fra gli ebrei e l’altro. L’ebraismo italiano queste vicende le ha vissute nel ventesimo secolo, come si può evincere anche da un sommario sguardo alla letteratura esistente; lo scrivo perché non vi è ragione di pensare che le reciproche reazioni debbano essere per forza diverse. Direi agli intellettuali, ammesso che ne siano rimasti e che io ne faccia parte magari per via di robuste raccomandazioni: se vogliamo leggere bene i fenomeni, accantoniamo le emozioni e privilegiamo la terzietà. Certo, è una conclusione molto più sociologica che psicologica ma, in questo caso aiuterebbe a capire chi ha preso un abbaglio, se chi scrive o chi firma. Mi auguro di essere io l’abbagliato. In ogni caso, poiché questo è “il” problema, se volessimo evitare digressioni, ripetizioni o, più banalmente, perdite di tempo, a questo problema, e non ad altri, dovremmo dedicare i frequentissimi convegni, se non altro per privilegiare la conoscenza a danno dell’autoreferenzialità.
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