Durante il digiuno che si fa nel nono giorno del mese di Av si usa leggere in tutte le comunità ebraiche la Meghillà di Ekhà, ovvero le Lamentazioni del profeta Geremia. Si leggono anche delle kinòt (elegie) composte nel corso dei secoli. Nell’uso ashkenazita vene sono ben quarantacinque. Uno dei motivi per questo grande numero è storico. Nel 1096 i Crociati, viaggiando verso la Terra Santa, fecero enormi stragi delle comunità ashkenazite in Francia e in Germania. Tra gennaio e luglio 1096 circa 10.000 ebrei furono trucidati dai Crociati nel nord della Francia e in Germania, tra un quarto e un terzo della popolazione ebraica di allora in quelle regioni. Nonostante gli ordini del re Enrico IV che proibiva di molestare gli ebrei, il Conte Erich di Leisinger fece massacri di ebrei nelle città di Speyer, Worms e Magonza. Altre migliaia di ebrei furono trucidati nella valle del Reno.
In Italia si usava leggere anche il libro Èmek Habakhà, in italiano “Valle di Lacrime”. Così afferma Roberto Bonfil che curò la pubblicazione di una nuova edizione annotata nel 2020, È un’opera di Yosef Hakohen, nato ad Avignone in Provenza nel 1496 e che visse per molti anni a Genova dove morì nel 1577 o 1578. Yosef Hakohen nell’introduzione ad Èmek Habakhà scrive che ha composto il suo libro per raccogliere le cronache delle sofferenze del popolo d’Israele che sono disperse qua e là. E auspica che le nostre sofferenze avranno fine e “che il Misericordioso invii il re Mashìach che ci redima presto e nei nostri giorni”. Èmek Habakhà è scritta in ordine cronologico. Inizia dalla distruzione di Gerusalemme per mano di Tito, che avvenne il Nove di Av, e arriva fino alle guerre tra Venezia e Turchia nell’anno 1572, quando Shlomo Harofe, venne a Venezia inviato dal sultano turco Selim, annunciando che era stato fatta la pace con la Repubblica Veneziana.
R. Yosef Hakohen scrive che il motivo per cui ha deciso di scrivere questo libro sono state le espulsioni degli ebrei dalla Francia e questa amara espulsione dalla Spagna (p.125). Egli racconca come nel giorno di venerdi il dieci del mese di Av sedici grandi navi piene di passeggeri salparono dalla costa di Cartagena. Partirono in varie direzioni: Africa, Asia, Grecia e Turchia. I passeggeri furono soggetti a indescrivibili sofferenze causate loro dai marinai genovesi. Altri furono depredati e uccisi dagli arabi; alcuni affogarono nel mare o morirono di fame, o venduti in schiavitù a Genova. Molti rimasero in Spagna, incapaci di uscirne, o si convertirono (p. 123).
In Italia vi fu il poeta fiorentino Angiolo Orvieto (1869-1967) che compose una elegia per Tishà Be-Av (nel libro “Il Vento di Sion”, pp. 55-6) nella quale tra le varie strofe, scrisse:
… In questo dì si piange
Gerusalemme estinta
la nostra gente di catene avvinta…
Dopo la guerra l’Orvieto compose un’elegia intitolata “Israele Ramingo. L’ultima tragedia”. Nella terza strofa egli scrive:
Ho visto Israele e suoi figli.
Dicevan: “Sbalzàti dal letto,
serrati in vagoni lugubri.
Odor di bestiame stantio.
I padri, le madri, i fratelli
così trascinati al supplizio.
Nonostante l’importanza di ricordare le nostre sofferenze e persecuzioni, i nostri Maestri ci insegnarono di concludere sempre con un messaggio di speranza. E anche nel giorno del Nove di Av al termine delle Kinòt il messaggio finale è quello di speranza del profeta Yesha’yà (Isaia, 51:3): “…Poiché l’Eterno ha pietà di Sion, ha pietà di tutte le sue rovine, e renderà il suo deserto come l’Eden, e la sua steppa come il giardino dell’Eterno. Giubilo e gioia saranno in essa, ringraziamenti e inni di lode”.