Rassegna mensile di Israel : LXXVI, 1/2, 2010
David Gianfranco Di Segni*
* Ringrazio sentitamente l’amico Angelo Piattelli, autore del contributo che segue in questo volume (Repertorio biografico dei Rabbini d’Italia dal 1861 al 2011). Durante la stesura del presente articolo sono stato in continuo contatto con Angelo, che mi ha fornito numerose indicazioni sui rabbini citati e, soprattutto, una versione preliminare della sezione sul rabbino Isacco Raffaele Tedeschi. I nostri articoli sono da considerarsi strettamente legati l’uno all’altro. Ringrazio anche Gisèle Lévy e David Jacobini del Centro Bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e, presso la Comunità Ebraica di Roma, Wally Debach del Centro Culturale e Giancarlo Spizzichino e Maria Teresa Caradonio dell’Archivio Storico, per il loro fondamentale aiuto nel reperimento di testi e documenti. Indirizzo e-mail per eventuali segnalazioni o integrazioni: gianfranco.disegni@gmail.com.
La figura più importante in una qualsiasi comunità ebraica italiana di oggi è molto probabilmente il rabbino. Questo forse è vero anche in altri paesi, ma in Italia lo si percepisce di più perché gli appartenenti alle comunità ebraiche non sono (né sono mai stati) molto numerosi. Nella maggior parte dei casi si parla di alcune centinaia di membri, se non decine, e solo in poche comunità si arriva alle migliaia. Mai, almeno in epoca moderna, la popolazione ebraica di una singola comunità italiana, anche la maggiore, ha superato i 15.000 membri.[1] Ciò significa che per condurre una comunità, in genere, è sufficiente un singolo rabbino, a volte coadiuvato da un vice-rabbino o da un officiante e soltanto nelle poche comunità più grandi esistono diversi rabbini, tutti comunque sottoposti alle direttive di un rabbino capo. Nelle città di altri paesi dove vivono (o vivevano) diverse decine o centinaia di migliaia di ebrei sarebbe impossibile per un singolo rabbino o corpo rabbinico avere un impatto diretto sull’intera comunità; in questi casi, la figura di riferimento è il rabbino della sinagoga cui si è affiliati.
Il fatto che il rabbino sia la persona più importante della comunità, piuttosto che lo sia un membro laico,[2] quale il presidente del consiglio della comunità o altri notabili, non deve trarre in inganno. Non significa infatti che i rapporti fra il rabbino e la comunità siano necessariamente buoni, anzi spesso i contrasti sono forti e problematici. I motivi della maggiore rilevanza del rabbino sono diversi: da una parte, spesso il rabbino rimane in carica per un notevole numero di anni, anche diverse decine, mentre la stessa cosa raramente si è verificata (almeno dal secondo dopoguerra a oggi) per i consiglieri o presidenti della comunità.[3] Ciò permette al rabbino di essere conosciuto dai membri della comunità e di conoscerli lui stesso, e così può assumere maggiore potere e influenza sia all’interno sia come rappresentante della comunità verso l’esterno. C’è però anche un’altra ragione, meno evidente. L’appartenenza a una comunità ebraica dipende strettamente dalle decisioni rabbiniche. I momenti salienti nella vita di un ebreo sono scanditi da eventi che sono legati al culto religioso. La nascita e, se si è maschi, la circoncisione; la maggiorità religiosa, rispettivamente a dodici e a tredici anni per le ragazze e i ragazzi; il matrimonio e, a volte, il divorzio; la nascita dei propri figli; la morte e la sepoltura in un cimitero ebraico; la conversione, se non si è figli di madre ebrea: tutti questi sono momenti che possono essere vissuti, se li si vuole vivere secondo le tradizioni ebraiche, solo in accordo con il rabbino della comunità. Di fatto, per chi voglia essere membro di una comunità, è difficile non dover, prima o poi, interagire con il rabbino (diverso è ovviamente il caso di chi ha deciso di vivere al di fuori della comunità).
La figura del rabbino è di tale rilevanza nella comunità ebraica attuale che è interessante verificare se e quanto questa figura si sia modificata nel corso del tempo, a partire dall’Ottocento, quando nacque l’Italia moderna. Certamente l’emancipazione, con il passaggio dai ghetti alle città, e l’unità d’Italia hanno avuto un effetto sulla formazione e la condizione dei rabbini. In questo articolo affronteremo il tema con diversi approcci: da un lato, descriveremo la formazione che i candidati alla carriera rabbinica ricevevano durante il corso degli ultimi due secoli, le vicissitudini dei collegi rabbinici, le maggiori polemiche che coinvolsero il rabbinato italiano e l’influenza che ebbero le nuove condizioni politiche; dall’altra esamineremo a mo’ di esempio alcune figure, provenienti da diverse parti d’Italia, durante il loro magistero rabbinico, come il rabbino Vittorio Castiglioni (1840-1911), rabbino capo di Roma dal 1903 al 1911, e il rabbino Isacco Raffaele Tedeschi (1826-1908), rabbino capo di Ancona dal 1873 al 1908.
La formazione dei rabbini nell’Ottocento
Prima di descrivere come si diventava rabbini, dobbiamo definire cosa è o fa un rabbino. La parola «rabbino» deriva dall’ebraico o meglio da rabbènu (nostro rav), e rav a sua volta vuol dire «molto». Il rav, quindi, è qualcuno che sa molto e per questo è maggiore rispetto agli altri. Un rabbino è, innanzitutto, qualcuno che ha svolto determinati studi di tipo tradizionale, impegnativi e prolungati, raggiungendo la padronanza dei testi biblici e rabbinici (questi ultimi includono il Talmud e i codici legali, con tutti i loro apparati di commento). Una volta acquisita una sufficiente competenza e dimostrata di averla di fronte ad altri rabbini (o anche a uno solo), il candidato riceve la semikhà.[4] A quel punto, il rabbino è in grado di dirimere questioni rituali o legali che gli vengano sottoposte e può certificare che determinati riti siano conformi alla Halakhà (legge ebraica), ad esempio la conversione all’ebraismo o il matrimonio. Quest’ultimo, a rigore, se svolto alla presenza di testimoni legittimi, con la procedura richiesta e con l’opportuna documentazione, sarebbe valido anche senza la partecipazione di un rabbino, ma l’uso generalizzato è che ce ne sia almeno uno durante la cerimonia, proprio per la complessa procedura che il rito richiede. Fra i compiti usuali del rabbino c’è anche quello dell’insegnamento, come pure l’ascoltare e risolvere i problemi della gente, incluse eventuali discussioni fra i membri della comunità, e l’assicurarsi che i servizi pubblici di tipo religioso (kashrut, funerali, ecc.) siano conformi alla regola. Il rabbino spesso presiede e partecipa in prima persona al culto sinagogale, ma anche in questo caso la sua presenza non è vincolante. Il fatto che oggi, nella percezione comune, il rabbino sia legato alla sinagoga è uno degli effetti della mutata condizione del rabbino negli ultimi due secoli.
Leggiamo, in un lungo articolo del 1868, come dovrebbe essere il rabbino secondo Flaminio Servi, rabbino lui stesso fra i più famosi e influenti dell’ 800, nato a Pitigliano nel 1841, rabbino maggiore nelle comunità di Monticelli e Mondovì e, dal 1872 fino alla sua morte nel 1904, rabbino maggiore a Casale Monferrato, dove trasferì il giornale «L’Educatore Israelita» di cui sarebbe diventato direttore mutandone il nome in «Il Vessillo Israelitico»:[5]
È presto detto esser Rabbino; non è giuoco no. S’ignora forse l’importanza di Ministero così sacro? Sono forse i Rabbini maestri soltanto di Elementi d’Ebraico o non più tosto coloro a cui la somma tutta delle cose religiose e morali di una Comunità viene affidata? Non tocca ai Rabbini sopraintendere a tutto che riguardi il culto, l’istruzione, la beneficenza, la pace nelle famiglie, la conservazione di spirito, di progresso e di morale? Non sono i Rabbini che debbono promuovere la vera carità, combatter l’indifferenza, prendere l’iniziativa delle opere più belle e più proficue? Non ispetta ai Rabbini conservar vivo il Giudaismo, farne conoscere ed apprezzare l’eterna morale, il bene che esso arrecò alla civiltà? […] Non son essi tenuti a diffondere l’istruzione, a incoraggiare la scienza, a far che l’unità del Giudaismo non si scinda? In una parola, non sono in lor mani raccolti tutti i più cari e insieme più gravi interessi degl’Israelitici consorzii?[6]
Questo brano è tratto da un lungo articolo, uscito in diverse puntate, che il rabbino F. Servi scrisse con intento polemico. Il suo bersaglio erano i collegi rabbinici e le modalità di rilascio dei titoli. Servi non è contro l’istituzione dei collegi rabbinici, ma crede che non siano sufficienti a formare un rabbino:
Che un Collegio Rabbinico sia utile, utilissimo, diremo anche indispensabile, specialmente in Italia, ove la fervida fantasia troppo distoglie da studii serii e fecondi, lo abbiam detto altrove […]. Ma ammettiamo pure che in questi anni, nel Collegio Rabbinico, si studii davvero, basterà lo studio? No; mille volte no. Lo studio […] potrà formare un uomo di lettere, un uomo scienziato, non un buon Rabbino. […] Non basta apprendere, ma eseguire si vuole, non basta istruire, osservare si deve. […] Un Collegio Rabbinico conferirà titoli a tutti coloro i quali avendo adempiuto ciò che il programma [di studio] prescrive […] ma si potrà dir per questo che quel titolo è giusto, che quel Rabbino sarà degno di questo nome, che le sue azioni, i suoi scritti, la sua operosità, tale il proclameranno al cospetto di tutti?[7]
Rav Flaminio Servi (Pitigliano, 1841 – Casale Monferrato, 1904).
Servi, che all’epoca aveva 27 anni, passa poi a discutere quali altri modi potrebbero essere possibili per «conoscere i meritevoli al Rabbinato» e ascriverli «tra i pastori d’Israello», escludendo le informazioni da altre persone, perché troppo soggettive, e propone poi la sua soluzione:
Se studii non bastano, né esami, né informazioni, né promesse, che dunque si vuole da un Ministro di Dio? L’abbiam detto di sopra per incidenza: azioni, non parole; opere, non promesse. […] se buoni Rabbini si vogliono, se alle Comunioni [ossia comunità] non si ama preporre uomini inetti a sopportare il grave e difficile incarico, rimane sciegliere quelli tra i più dotti e coscienziosi tra i Maestri in Israello che han dato saggio di saper pensare, di sapere scrivere e di sapere ben vivere, e senza prova di esami o di concorsi, gli uni e gli altri illusorii quasi sempre […]. Ai titoli, poiché dati non sempre giustamente, non si annetta quell’importanza che taluno vorrebbe dar loro.[8]
F. Servi esamina quindi i diversi titoli che ai suoi tempi si conferivano, premettendo le parole «se non andiamo errati», il che fa pensare come la materia fosse poco definita. In effetti, c’erano differenze fra una scuola e l’altra. I gradi, dice Servi, erano tre: quello inferiore era Chaver (collega, compagno), seguito da Chakham (saggio, dotto) e dal titolo superiore, Morenu (nostro signore, nostro maestro). In Toscana (ossia alla Scuola di Livorno) davano anche il titolo di Maskil (intelligente) a «quel candidato Rabbino il quale frequentando un’Accademia di studii sacri, o anche studiando privatamente con altro Rabbino distinguesi per progresso e per religioso contegno e dà speranze di felice riuscita». Con l’istituzione del Collegio Rabbinico di Padova si introducono titoli diversi e innovativi: quello di Maskil (che è differente dal titolo impiegato dal Novecento fino ai giorni nostri) attesta l’idoneità al rabbinato, a conclusione degli studi rabbinici e degli studi universitari obbligatori; a questo segue il titolo di Chakham (sostituito dal 1852 al 1872 dal titolo di Chakham ha-Morè), ottenuto dopo un anno di tirocinio rabbinico, da svolgersi in una comunità, sotto la guida di un Rabbino Maggiore. Il titolo di Morenu ha-Rav continua a essere usato per i rabbini-capo di comunità, oppure viene concesso ad honorem per rabbini che hanno dimostrato meriti particolari.[9] Il rabbino Servi aggiunge poi che molte comunità della Penisola non «hanno adottato, né si curano di adottare il titolo supremo di Moreno, contentissimi di avere a loro Pastori uomini egregi per dottrina e filantropia e zelo religioso che quel grado non abbiano»,[10] dimostrandolo in «statistiche» che pubblicherà nei numeri successivi dell’Educatore.
I titoli rabbinici venivano conferiti in più modi: o dopo il relativo corso di studi svolto in un collegio rabbinico, o dopo studi svolti privatamente e sottoponendosi poi a un esame, o «dietro certificato del Rabbino insegnante presentato al Rabbino promotore».[11] F. Servi non è contro un corso regolare di studi, piuttosto è contrario agli esami, che sono «polvere negli occhi», e propone quindi di tornare all’uso dei secoli precedenti, quando «i Rabbini, allora quasi tutti conoscitori profondi di teologia, sostenitori della fede […] non ambivano gradi né onori; studiavano e studiavano bene, operavano ed operavano meglio. E quando meno se lo aspettavano ecco venir loro conferito il Diploma non chiesto, non agognato».[12] F. Servi non accetta dunque di sottostare al decreto dell’Impero Asburgico, da cui dipendeva il Collegio Rabbinico di Padova, che nel 1820 aveva sancito che «nessuno poter in avvenire esser preposto a veruna Università [comunità] senza aver prima percorso i relativi studii nel Collegio Rabbinico Patavino». La proposta di F. Servi è:
Noi lascieremmo quindi come per lo passato facoltà ai Rabbini, per dottrina, per vero sentimento religioso e per coscienza illibata distinti, di conferir titoli a quelli che già dieder prova di saper agire, di saper pensare, di sapere scrivere, ma vorremmo che non si fidassero delle apparenze, che andassero circospetti, che esigessero dai candidati una severa moralità, una profonda convinzione di fede, che avessero prove convincenti che l’amore allo studio di chi debb’esser laureato non è passeggiero, che il suo zelo per la religione dei padri nostri non è fittizio, non illusorio, che ne studiassero attentamente i precedenti, le inclinazioni, le opere, gli scritti, il cuore, le parole, e vorremmo che questi titoli venissero dati a chi meno li cerca. […] Si appoggi, si sostenga il Collegio di Padova per molti titoli benemerito; si lasci facoltà ai giovani, che per qualsiasi motivo non possono percorrere in quello gli studii, di addottrinarsi con privati Rabbini, si conferiscano diplomi a chi n’è meritevole […], e soprattutto si abbia cura che i principii religiosi e morali del candidato sian tali da ispirare fiducia illimitata nello eseguimento dei suoi molti e gravissimi doveri, che nulla è sapienza discompagnata dalle buone azioni, come le buone azioni senza la sapienza ci possono dare un buon uomo, un buon Rabbino mai.[13]
Una nota della Direzione del giornale chiosa questo brano della proposta del rabbino Servi con queste parole: «Ci sembra che la nuova condizione di cose renda più che mai necessario un ordine e una regola, e che il sistema del nostro dotto amico, ottimo in sé, sarebbe ora di difficile esecuzione e di incerto successo». La «nuova condizione di cose» è l’avvenuta unità d’Italia. La nota successiva, forse di Servi stesso, afferma: «Va da sé che il Regolamento dovrebbe in molte parti emendarsi ora specialmente dopo le mutate condizioni politiche».[14] Ricordiamo che questo articolo fu scritto nel 1868, ossia due anni dopo il passaggio del Veneto, e quindi di Padova, al Regno d’Italia, in conseguenza della terza Guerra d’indipendenza. Sulle mutate condizioni politiche F. Servi due anni prima aveva scritto:
I politici avvenimenti, che si svolsero sotto i nostri occhi, attirarono fin qui naturalmente a sé tutte le aspirazioni d’ogni buon Italiano, la mente volta alla completa liberazione della patria nostra, non ci lasciava tempo di riflettere ai bisogni del culto, alle istituzioni più belle, più proficue che ne rimangono. Ed era giustissimo; l’Italia è nostra madre e a tanta madre nulla poteva negarsi. Ma le apprensioni di guerra cessarono, e noi […] dobbiamo ora più che mai pensar davvero a riorganizzare il culto sovra solide basi […]. Volgiamo intanto per breve tempo la nostra attenzione ad un argomento (fra tanti) grave, importante, forse il più importante e di cui niuno, siamo certi, vorrà disconoscere la somma utilità che a tutte le Comunioni Israelitiche può ridondare [… ossia il] Collegio Rabbinico.[15]
Il Collegio Rabbinico di Padova
Il Collegio Rabbinico di Padova, che il rabbino Servi reputava nel 1868 non più consono alle esigenze delle «mutate condizioni politiche», era nato quasi quarant’anni prima, con il nome di Istituto Convitto Rabbinico. Cambiò poi nome in Collegio Rabbinico Italiano, nome tuttora in vigore, ed è forse l’istituzione ebraica dell’Ottocento ad aver ricevuto maggiori attenzioni da parte degli studiosi.[16] Fu istituito, dopo una gestazione di quasi dieci anni, nel 1829 e rimase a Padova fino alla cessazione delle attività nel 1872, per poi passare a Roma nel 1887 e, in una sorta di peregrinazione di città in città, a Firenze nel 1899, e di nuovo a Roma nel 1933. Qui funzionò fino al 1951 – con la parentesi di riduzione dei corsi e poi chiusura forzata dovuta al periodo delle leggi razziali e della guerra – per trasferirsi dopo (almeno didatticamente) a Torino e tornare nuovamente a Roma nel 1955, dove da allora ha sede.[17] Questi galuyot (esili), come sono stati appropriatamente chiamati da Rav Riccardo Di Segni, dal 1999 Direttore del Collegio Rabbinico Italiano,[18] sono stati motivati dalla situazione politica generale, da quella comunitaria ma anche, e forse soprattutto, dall’opera e dalla vita dei singoli docenti e direttori.[19] Questo è un aspetto importante della questione, su cui torneremo.
Il Collegio di Padova non era l’unica istituzione di formazione rabbinica presente in Italia. L’altra grande scuola era il Collegio Rabbinico di Livorno, che abbiamo già citato sopra e su cui torneremo più avanti parlando dell’unificazione dei collegi rabbinici. Inoltre, il rabbino Lelio Cantoni (1801-1857), il primo diplomato al Collegio di Padova, divenuto Rabbino Maggiore delle Comunità ebraiche piemontesi, istituì a Torino un collegio rabbinico, che però ebbe vita breve e solo pochi allievi ricevettero la laurea rabbinica.[20] Altre scuole rabbiniche, in genere continuazione di scuole di studi ebraici inferiori, erano attive a Vercelli (il Collegio Foa) e ad Asti (l’Istituto Clava).[21]
La fondazione di un collegio rabbinico che abilitasse alla carriera rabbinica fu di esempio anche per altri paesi europei, che si rivolsero all’esperienza di Padova per istituire seminari rabbinici nelle loro città. Come scrisse un comitato presieduto dal rabbino Marco Mortara, dopo la chiusura della sede di Padova, «l’Italia fu il primo paese ove si costituì un Collegio per educare Rabbini dotti non solo nelle materie religiose, ma ben anco in quelle civili, sociali e scientifiche, capaci quindi di tenere alto e rispettato il rabbinato italiano».[22] La necessità di preparare una nuova classe dirigente di rabbini derivava dalle nuove condizioni giuridiche degli ebrei italiani negli Stati dove avevano ottenuto l’emancipazione. Se prima le comunità ebraiche potevano autonomamente decidere come e dove educare i giovani che avevano le capacità e la volontà di intraprendere la carriera rabbinica, dopo l’emancipazione ciò non fu più possibile. Come l’istruzione generale era sottoposta a controllo da parte del governo, così lo divenne l’educazione religiosa ebraica: «Gli studii religiosi se ai filosofici disposati [affiancati] non sono, non possono certamente arrecare tutto quel frutto che può e deve sperarsi dall’albero della scienza».[23]
Non c’è dubbio che grazie all’istituzione di un collegio rabbinico si cercava di arrivare a una modernizzazione e un’integrazione nazionale degli ebrei del Lombardo-Veneto. Nacque in Italia «una nuova figura di rabbino, certamente influenzata da una visione pastorale di matrice cattolica, ma informata alle esigenze di rinnovamento culturale espresse in Europa centrale».[24]
Fu con questo spirito che il 29 gennaio 1820 l’Imperatore d’Austria Francesco I decretò, con sovrana risoluzione, che nessun rabbino potesse assumere un incarico «negli Stati sottoposti al suo dominio, ove non avesse dato prove di ben conoscere le scienze filosofiche e le dottrine alla Religione Israelitica attinenti».[25] In conseguenza di tale decreto furono convocati i rappresentanti delle comunità israelitiche del Regno Lombardo-Veneto (Venezia, Verona, Padova, Rovigo e Mantova) perché individuassero una sede opportuna per la fondazione dell’istituto rabbinico. La scelta cadde su Padova, anche grazie al fatto che era sede di una celebre università. L’8 novembre 1825 l’Istituto Convitto fu ordinato con sovrana risoluzione. Dopo la necessaria ristrutturazione dell’edificio prescelto e il reperimento dei docenti, l’Istituto fu inaugurato solennemente nel novembre 1829. «Nonostante si trattasse di istituto pubblico, alla cui fondazione le Comunità erano obbligate per ordine sovrano, sulle stesse sarebbe gravato intieramente il sostegno della scuola».[26]
All’insegnamento nella nuova scuola furono chiamati due studiosi relativamente giovani, ma già affermatisi a livello europeo: Samuel David Luzzatto (Shadal) e Lelio Hillel Della Torre, «giovani ambedue, ambedue infiammati di quell’ardore letterario che solo può far grandi gli uomini di scienze, ambedue volti gli sguardi a quel fine per giugner al quale non risparmiarono né spese, né fatiche, né dolori eziandio».[27] A Shadal, che proveniva da Trieste, fu affidato l’insegnamento dell’esegesi biblica, della lingua ebraica e caldaica, della storia israelitica e della teologia dogmatica e morale. A Della Torre, che veniva da Cuneo, fu assegnato il compito di insegnare la scienza talmudica, la teologia rituale e pastorale, la sacra oratoria e l’omiletica.[28]
La crisi del Collegio Rabbinico di Padova e il suo trasferimento prima a Roma e poi a Firenze
Nella retrospettiva sul Collegio di Padova, sopra citata, il rabbino F. Servi così scriveva nel 1866:
Il Collegio ne’ primi suoi lustri era in tutto il suo splendore; Direzioni instancabili, benemerite si successero; distinti alunni accorsero sotto le insegne della scienza; le Comunioni fecero a gara per sostenerlo col senno e coll’opera; gli egregi Prof, lo illustrarono assidui coi frutti prodigiosi dei loro ingegni […]; il Giornalismo lo dichiarò progresso della morale e della religione; [… Ma] anche quello Stabilimento ebbe a passare col volgere degli anni crisi inaspettate e non prevedute; discordi i pareri delle Comunioni sul modo e sull’obbligo di continuarlo, diminuito assai il numero degli alunni, affievolito lo zelo di chi doveva e poteva sostenerlo, nonché tante e tante altre cagioni onde il tacere è bello – fecero per poco dubitare che quel sacrario della scienza da cui tanta luce s’era dipartita dovesse già decrepito abbandonarsi all’oblio, fecero dubitare, come taluno disse, che fosse già moribondo. Fin dal 1859 avevan già cessato naturalmente di contribuire le piccole Comunioni del Mantovano che furono unite al Regno d’Italia e il Governo stesso non davagli più quell’appoggio, né quell’importanza che per l’addietro gli dava.[29]
Alla fine della seconda Guerra d’indipendenza, nel 1859, la Lombardia, tranne Mantova, era passata al Piemonte. Ciò causò, come scrive la Del Bianco, «uno squarcio nella base israelitica che sosteneva il Collegio, poiché gli ebrei di Milano, Sabbioneta […] erano ormai sudditi dei Savoia e solo le comunità di Revere, Sermide e Mantova rimanevano unite a quelle venete sotto l’Austria»,[30] con la conseguente notevole riduzione del numero dei contribuenti. I problemi economici, unitamente al calo del numero degli allievi, portarono al periodo più critico della storia del Collegio di Padova. Un duro colpo, assestato alle sorti già precarie del Collegio, fu la morte di Shadal nel 1865:
È poco più di un anno e quell’istituto vedeva rapirsi da morte inesorabile il suo esimio Prof, di Sacra Esegesi – Samuel David Luzzatto, che vi insegnava fin dalla sua erezione, da ben 36 anni. […] Frattanto l’Italia ridestavasi e la campagna dell’anno corrente [1866], se avventurata o meno qui non giova riferire, faceva il Veneto riunito alla corona di S.M. Vittorio Emanuele II. Quel Collegio, con questa nuova condizione di cose, che riempie di gioia ogni cuore d’italiano, quel Collegio, come ognuno può intendere, entra in una fase tutta nuova.[31]
Quando anche Mantova e tutto il Veneto passarono all’Italia, la situazione del Collegio Rabbinico non migliorò. Se in teoria si manifestò la speranza che il Collegio divenisse un’istituzione rabbinica per tutta l’Italia, di fatto non si riuscì a convogliare sufficienti finanziamenti dalle comunità ebraiche sparse in tutto il paese e ad attirare nuovi studenti a Padova. Raffaello Prato, presidente del consiglio di amministrazione del Collegio, nella sua rievocazione della storia dell’Istituto così scriveva: «Sarebbe arduo rintracciare le ragioni del decadimento dell’Istituto patavino. Forse in massima parte si potrebbero rinvenire nelle vicende che dopo aver travagliato l’Italia, la condussero per fortunati eventi politici alla libertà, aprendo ai giovani israeliti nuovi orizzonti e nuove vie fino allora ad essi precluse».[32]
Vediamo quindi che le sorti del Collegio di Padova da un lato sono strettamente legate a problematiche interne: scarso supporto economico delle comunità e poca volontà a mantenere il Collegio per pochi studenti; la morte di Shadal, la cui mancanza solo in parte poté essere sopperita dalla nomina del suo allievo il rabbino Eude Lolli da Gorizia,[33] diplomatosi nello stesso Collegio; la morte, poco più tardi, nel 1871, anche di Lelio Della Torre. D’altro lato, problemi di carattere più generale influirono sul destino del Collegio di Padova: non solo le Comunità se ne disinteressavano, ma anche il Governo, evidentemente alle prese con questioni più urgenti e importanti, smise di considerare la formazione rabbinica delle comunità ebraiche italiane un argomento all’ordine del giorno.
Dopo l’esaurimento dell’esperienza del Collegio Rabbinico a Padova, nel 1886 fu deciso di trasferirlo a Roma. Il nuovo istituto, con il nuovo nome di Collegio Rabbinico Italiano, ottenne il riconoscimento ufficiale con decreto del re Umberto I nel 1891, in «surrogazione di altro consimile Istituto già esistente in Padova» e «nell’interesse degli Israeliti di tutta Italia».[34] Il trasferimento a Roma trovò l’entusiastico appoggio del presidente di questa comunità,
l’Illustre Comm. Samuele Alatri di f.m. [felice memoria], il quale reputando grande avvenimento per l’Israelitismo la installazione di una scuola Rabbinica nella Capitale d’Italia, con tanto vigore ei sostenne in tal senso la questione, fino al punto da impegnare questa Università israelitica a concorrere con largo contributo fisso, al mantenimento dello Istituto, ognora quando questo risiedesse in Roma.[35]
I risultati del decennio passato a Roma però furono deludenti, «nulli, o almeno meschini», a fronte degli ingenti investimenti. È vero che «l’Amministrazione faceva ogni possibile per allettare i giovani a popolare le classi», ma queste «rimanevano quasi deserte». Prato analizza il fallimento dell’esperienza romana in questi interessanti termini:
Il buon vegliardo [S. Alatri] non poteva mai pensare, che le patriottiche argomentazioni da esso addotte per far trionfare la causa che difendeva, in teoria degne di plauso e di favorevole accoglienza, in pratica poi avrebbero condotto a resultati eminentemente opposti all’alto concetto che le aveva inspirate. […] D’onde proveniva ciò? […] L’ambiente della capitale era contrario allo incremento del Collegio! Nella Capitale infatti più che in altri grandi centri abbondano i pubblici Uffici; le principali Case bancarie vi risiedono; gli stabilimenti industriali della Penisola vi tengono Rappresentanti, insomma nella Capitale più che altrove v’ha probabilità che ai giovani intelligenti si presentino circostanze favorevoli, e si schiudano vie proficue per formarsi con prestezza una posizione.
Da qui derivava il fatto spiacevole e sconfortante pei preposti alle sorti dell’Istituto, i quali constatavano come giovani che avrebbero avuto eccellenti requisiti per divenire buoni Rabbini, dopo avere per non piccol lasso di tempo frequentato i corsi, e aver goduto per mesi e mesi sovvenzioni a carico del bilancio del Collegio, non appena un concorso in qualche Dicastero si apriva, o qualche posto rimunerativo si presentava, erano solleciti a concorrervi e siccome, e ciò sia detto a loro lode, erano giovani che per aver dagli studi profani tratto profitto, emergevano fra i concorrenti, riuscivano vincitori, e troncavano così i sacri studi, come se questi per essi, avessero costituito peso gravoso ed insopportabile![36]
Si arrivò quindi alla decisione di trasferire nuovamente il Collegio e la scelta si posò su Firenze, «dove per opera del suo distinto e dotto pastore già fioriva una scuola di sacre dottrine, frequentata da giovani che intendevano avviarsi alla carriera Rabbinica». Raffaello Prato plaude al fatto che non ci furono questioni di «suscettibilità», che non ci dovrebbero essere «quando si tratta di pubblici interessi», né da parte della comunità di Roma né di quella di Firenze. La comunità di Firenze «si mostrò entusiasta di accettare la santa missione, e col massimo zelo si pose all’opera, forte del concorso dello Ecc.mo Sig. Rabbino Dott. Margulies, il quale di buon grado assunse la direzione della parte didattica dell’Istituto».[37]
Rav Dr. Samuel Zevì Margulies (Brzezany, 1858 – Firenze, 1922).
Rav Dr. Dario Disegni (Firenze, 1878 – Torino, 1967), ritratto di Dario Treves (1936), in A. Cavaglion, L. Levi Momigliano, I. Massabò Ricci (a cura di), Una storia del Novecento: il Rabbino Dario Disegni (1878-1967), Torino, Archivio Ebraico B. e A. Terracini 2008, p. 319.
Il resoconto di Prato è importante per due motivi: fornisce una spiegazione del perché ci fossero pochi studenti a Roma (anche se non è detto che quello indicato fosse l’unico motivo), e ci dice anche che un collegio rabbinico, per funzionare, ha bisogno di una personalità speciale, carismatica, di alto valore religioso, culturale e didattico, come in effetti era il rabbino Margulies. Non conta solo la disponibilità economica e la presenza di una struttura adeguata (che a quanto pare a Roma c’erano) ma anche chi è chiamato a guidare il collegio.
I risultati del trasferimento del Collegio a Firenze, inaugurato ufficialmente nel gennaio del 1899, furono subito evidenti. Dai quattro allievi del decennio romano che conseguirono il titolo di chaver, si passò all allievi nel primo anno di attività a Firenze e a 21 nell’anno successivo. Arrivarono studenti da tutta Italia e qualcuno anche dall’estero. Fra i rabbini più famosi che si sarebbero laureati a Firenze sotto la direzione di Margulies troviamo i nomi di Elia Samuele Artom, Umberto Cassuto, Gustavo Castelbolognesi, Dario Disegni, Angelo Sacerdoti, Ermanno Friedenthal; fra i maskilim, da segnalare in particolare l’avv. Alfonso Pacifici.[38]
Durante gli anni della prima guerra mondiale ci fu una sospensione dei corsi regolari del Collegio a Firenze. Molti allievi furono chiamati al servizio militare[39] e alcuni caddero durante i combattimenti.[40] Pochi anni dopo la fine della guerra, all’inizio del 1922, l’ebraismo italiano e in special modo il Collegio Rabbinico furono colpiti dalla grave perdita del rabbino Margulies. La direzione passò a uno degli allievi prediletti di Margulies, Umberto Cassuto (che per un paio d’anni ricoprì il ruolo anche di rabbino capo di Firenze), ma quando Cassuto, nel 1933, fu nominato docente di ebraico e lingue semitiche all’Università di Roma si pose il problema del destino del Collegio Rabbinico. Anche in questo caso si decise che la scuola avrebbe seguito il suo insegnante principale: il Collegio si trasferì quindi nuovamente a Roma, sotto la direzione del rabbino Angelo Sacerdoti, un altro allievo di Margulies che dal 1912 era diventato rabbino capo della comunità di Roma (vedi oltre sulla sua nomina). Nel primo anno di attività del Collegio a Roma si contavano dieci alunni al corso superiore e una trentina ai corsi inferiori. Dopo la morte del rabbino Sacerdoti nel 1935 fu chiamato alla cattedra di Roma e alla direzione del Collegio Rabbinico il rabbino David Prato, anch’egli laureatosi a Firenze (ma dopo la morte di Margulies).
Con l’emanazione delle leggi razziste del 1938, durante il regime fascista e il successivo periodo tragico della seconda Guerra Mondiale, il Collegio interruppe la maggior parte dei corsi regolari. Sia Prato sia Cassuto e altri docenti erano «saliti» nella terra d’Israele già dal 1938. Nel 1945, alla fine della guerra, Prato riassunse il ruolo di rabbino capo di Roma e la direzione del Collegio.
Dopo la morte del rabbino Prato, il Collegio fu trasferito, dal 1951 al 1955, a Torino, dove aveva sede già un’altra scuola rabbinica diretta dal rabbino capo di Torino Dario Disegni, intitolata al rabbino Margulies (successivamente, dopo la morte di Disegni, la scuola avrebbe assunto il nome, tuttora in vigore, di Scuola rabbinica Margulies-Disegni).
Nel 1955 l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane decise di riportare la sede a Roma. Per quanto la sede da allora non sia stata più cambiata, alla direzione si sono succeduti rabbini di diverse città: nell’ordine, Dante Lattes, Alfredo S. Toaff, rabbino capo di Livorno, Elio Toaff, rabbino capo di Roma, Giuseppe Laras, rabbino capo di Milano, e infine Riccardo Di Segni, attuale rabbino capo di Roma.
I Rabbini-fungo e i Rabbini stranieri
Lo stesso anno in cui il Collegio Rabbinico Italiano veniva trasferito a Firenze, il giornale triestino «Il Corriere Israelitico» pubblicava una lunga lettera aperta indirizzata «agli Ill.mi Signori Professori e Direttori dei Collegi Rabbinici di Livorno e Firenze» e intitolata L’eterna questione. La lettera, firmata semplicemente Il Corriere Israelitico, è quasi sicuramente penna del rabbino Dante Lattes,[41] che era membro della redazione del giornale e di lì a poco ne sarebbe diventato direttore, e «tratta dei titoli e dei concorsi rabbinici e in generale della condizione del rabbinato italiano». Ecco l’incipit: «Qualche Candido, simile a quello di Voltaire, è convinto che in Italia, rispetto ai Rabbini, si vive come nel miglior dei mondi possibili». L’oggetto dell’attacco frontale sferrato dal Corriere è la formazione dei rabbini:
La cronaca reca gl’inauditi successi di Rabbini creati dal nulla – ex nihilo – per compiacenza di colleghi, per pia generosità e umano interesse di missionari questuanti, per virtù di denaro […]. C’è insomma un dilagare di Rabbini- funghi, per i quali la teologia è un’incognita, l’italiano un dialetto ottentotto, la Bibbia un fossile anti-diluviano; c’è quasi una periodica generazione spontanea di Rabbini, un’inondazione costante di Rabbini-macellai e di Rabbini- baritoni.
Una conseguenza della formazione di tali rabbini è che essi:
nati come funghi dopo un po’ di pioggia, hanno, molto logicamente ma molto disgraziatamente, il diritto di creare Rabbini a loro immagine […]. Questi Rabbini devono crearsi un ambiente proprio, un campo in cui possano avere prestigio, un clima rabbinico capace di sostenerli […] lo struggle for life impone loro la creazione di rabbini che non sorpassino l’aurea mediocritas.
La proposta del Corriere è di fare ordine nei programmi dei collegi rabbinici, nelle modalità di esame e del rilascio dei titoli. Un’altra questione è la scelta dei rabbini da parte delle Comunità, scelta che è «affidata ad una rappresentanza esclusivamente laica, la quale, in questi poveri tempi d’apatia religiosa, non sappiamo quanto sia competente a giudicare dei meriti dei singoli concorrenti». Si suggerisce quindi che la decisione, legittima, del Consiglio laico della comunità sia poi sottoposta al vaglio di un’apposita commissione di Rabbini nominati dal Consiglio stesso. Nella conclusione, come nell’inizio, non si può non notare la penna caustica dell’autore: «Vogliate perdonarci, Ill.mi Signori, se per un momento vi distogliamo dai vostri studii, ma anche le presenti questioni fan parte del vostro ministero, e dei fini della vostra vita. Aspettiamo il pane della vostra scienza».[42]
Rav Dante Lattes (Pitigliano, 1876 – Dolo, 1965).
L’analogia fra rabbini e funghi, a quanto pare, era cara al giovane rabbino Lattes, che era intervenuto sul medesimo argomento anche sul Vessillo del 1897, in un articolo intitolato La predicazione sacra. La redazione del Vessillo, però, prendeva in parte le distanze da Dante Lattes con queste parole:
Nella prima metà di questo secolo e qualche lustro dopo rifulsero nella sacra oratoria i Rabbini Treves, Cantoni, Della Torre, Viterbi, Tedeschi, Levi, Maroni, Olper, Finzi, Mortara e altri pochi. Anche oggi non mancano predicatori di vaglia tra i Rabbini viventi. Il nostro giovane scrittore e amico che non si è mosso quasi mai da Livorno, certo non li ha sentiti, né può quindi darne un giudizio complessivo e preciso. Le sue osservazioni non mancano tuttavia d’opportunità.[43]
Le osservazioni di Lattes non erano infatti molto distanti da quelle analoghe fatte circa trent’anni prima dal direttore del Vessillo, il rabbino Flaminio Servi, peraltro anche lui originario di Pitigliano.[44]
Alla lettera aperta del Corriere risposero diversi rabbini, fra cui i professori del Collegio Rabbinico di Livorno, ossia i rabbini Elia Benamozegh, Samuele Colombo e Cesare Fiano, che dichiararono: «Non occorre dire che siamo pronti a porgere la nostra mano per cooperare a questo scopo col Collegio fiorentino, del quale ci stanno garanti i ben noti sentimenti religiosi e la dottrina del suo Direttore».[45] Ma «dai rettori e dai Professori del Collegio fiorentino» non arrivarono «né incoraggiamenti né obiezioni».Il motivo della mancata risposta da Firenze è da attribuire, a quanto pare, ad alcune critiche mosse dal Corriere alla conduzione di quel Collegio. In particolare fu criticato il fatto che il Collegio di Firenze avesse «cercato fuori d’Italia uno dei Professori, perché la povertà intellettuale e scientifica dei Rabbini nostri era così compassionevole da non meritare nemmeno uno sguardo». Il professore (che poi si rivelerà essere Ismar Elbogen, dal Seminario rabbinico di Breslavia) veniva a ricoprire la cattedra di Talmud rimasta vacante per la morte del rabbino Leone Racah.[46] Il Corriere riconosceva al Direttore del Collegio di Firenze, Rav Margulies, di aver «fatto molto bene al sentimento religioso dell’ebraismo fiorentino», ma non era d’accordo sul fatto che «nessuno dei rabbini italiani fosse capace d’insegnar Talmud al Collegio fiorentino […] e troppa poca stima [il Dr. Margulies] mostra di aver dei suoi Colleghi d’Italia, se ritiene inutile perfino un avviso di concorso».[47]
Rav Margulies replicò con una brevissima nota, pubblicata nel numero successivo del Corriere, cui seguì una lunga contro-replica editoriale nella quale si ribadiva la contrarietà alla chiamata diretta del professore tedesco[48] senza concorso: «L’Italia israelitica per gli stranieri era la terra dei morti; il Prof. Elbogen è il nuovo Ezechiele che li farà risuscitare. Se fosse così, ne ringrazieremmo il Dr. Margulies; ma continueremmo lo stesso a ripetere che si doveva aprire un concorso».[49]
La polemica andò avanti nei numeri successivi, anche se sempre a senso unico. Rav Margulies infatti non intervenne più, e il Corriere scrisse: «Il pastor fiorentino non vuol occuparsi delle cose d’Italia; alla sua gloria basta il Collegio Rabbinico che s’intedesca: il resto è zero e non vale nemmeno sprecarci un po’ di cortesia […] è chiaro che il Dr. Margulies è convinto che in Italia non esistono buoni Rabbini né esisteranno finché non ne creerà lui». La conclusione, ironica, è che «l’unica maniera per troncare la questione rabbinica d’Italia e diffondere lo studio del Talmud sia quella di chiamare i rabbini tedeschi: non si vedono gli effetti prodigiosi derivati all’Italia dalla venuta del Dr. Margulies?».[50]
Nel 1901 il Corriere pubblicò un altro editoriale, intitolato «Il fallimento del rabbinato italiano», dove si ripetevano gli stessi argomenti, quelli dei rabbini-fungo e dell’«esercito di dottori tedeschi» che scendono in Italia a occupare le cattedre rabbiniche resesi vacanti, come quella di Roma. «Noi scommettiamo che i Rabbini d’Italia, di fronte alla nuova offesa che Roma sta per recare alla loro dignità, staranno zitti […] ed i Collegi rabbinici dovrebbero, prima che sia compiuta la nuova offesa, protestare contro la mania dei Rabbini esotici da cui sono prese le grandi comunità, contro la minaccia d’un Rabbino straniero che parte dalla capitale d’Italia…».[51]Finalmente l’anno dopo, nel 1902, si indisse il concorso per il rabbino di Roma e questo fu sicuramente una vittoria per il Corriere, che però aggiungeva, tramite la probabile penna di Dante Lattes:
È certo che una volta i concorsi italiani avevano un’altra forma più onorevole e più dignitosa: non si misuravano i Rabbini a metri, come si fa oggi, anche nelle Comunità minori, non si facevan visitar dai medici, né si era così cosmopoliti nella ricerca: le Comunità italiane erano riservate per gl’italiani e sarebbe stata un’offesa questo desiderio degli stranieri. Una volta – prima del Dr. Margulies – non si pensava neppure ai Rabbini tedeschi[52] […]. Una volta non si misuravano i Rabbini perché si guardava dentro e non fuori, nella testa e nel cuore e non nelle gambe: ma oggi il Haham è un oggettino di lusso e si vuol che faccia figura. Le Comunità han degli ideali greci; l’estetica e la forza del Rabbino entrano nel concorso come il Talmud e l’arte oratoria. Ma forse fra i Rabbini italiani ce ne sarà qualcuno che rappresenterà l’incarnazione di tutti i desideri della Comunità romana. Altrimenti, dopo questa prova, si chiudano per fallimento i collegi e si scriva che l’Italia è diventata la succursale ed il mercato della Germania.[53]
Nel frattempo il Dr. Elbogen, professore al Collegio di Firenze, che aveva causato l’inizio della polemica, annunciava di voler lasciare la cattedra fiorentina per un posto in Germania.[54] In una lettera al Corriere del 1902, indirizzata direttamente al rabbino Dante Lattes, Elbogen scriveva: «Il Corriere Israelitico non ha ancora digerito la mia nomina a Firenze […] Orbene, il Corriere può essere tranquillo, io non gli darò più a lungo noia». Il Corriere rispose: «L’Italia continua ad essere la Beozia del mondo israelitico nonostante il Collegio fiorentino, nonostante il Dott. Margulies; da Firenze nessuna voce nuova di Rabbino – se si eccettua la sua Ecc. Signore, – è partita ad entusiasmar e ridestar l’Italia».[55] Elbogen controreplicava che Margulies aveva «posto fine allo stato scandaloso in cui il Collegio Rabbinico volgeva a Roma, di averlo riorganizzato dal fondo» e che
i tempi in cui i rabbini crescevano come i funghi sono terminati, è passata l’epoca in cui i rabbini si facevan con grande strombazzare e con bei diplomi, in cui a un ragazzo, il quale forse non ha mai veduto un Talmud si attestava ch’egli è baqì be-Shas uveposeqim [esperto del Talmud e dei codici] e il Collegio di Firenze non è in grado di istituire dei rabbini nel breve periodo di pochissimi anni.[56]
A difesa di Margulies si levarono altre voci, fra cui notevole quella del decano dei rabbini italiani, Isacco Refael Tedeschi, rabbino maggiore ad Ancona (vedi appresso una sezione a lui dedicata), che era stato uno dei massimi sostenitori della elezione di Margulies al ruolo di rabbino capo di Firenze. Così scriveva:
Quindi permetta, egregio amico [Dante Lattes], che francamente le diciamo, che le acri suaccennate censure, specialmente quelle rivolte all’indirizzo del carissimo nostro collega Rabb. Margulies, ci sembrano tutt’altro che fondate. Il Dr. Margulies, avanti il suo insediamento nella cattedra di R[abbino] Maggiore] di Firenze, si trattenne per qualche spazio di tempo presso di noi, ed ebbi l’opportunità di apprezzarne oltre che la rara dottrina, la integrità dei sentimenti, la modestia e la sincera ortodossia, per cui ci collegammo da quel periodo, col saldo vincolo di intima amicizia e di reciproca stima. No, il Dr. Margulies non è superbo, né sprezzante; egli ha solo il desiderio di rendersi utile ai suoi correligionari col diffondere la sacra dottrina e col porgere esempio di attiva virtù.57[57]
Rav Tedeschi confidava che dal Collegio di Firenze, in funzione da soli due anni, sarebbero usciti:
dotti e coscienziosi rabbini. Ed il medesimo accadrà, giova sperare, nel collegio rabbinico di Livorno, se gli attuali Professori, seguendo le orme del venerato loro maestro, di quel gran luminare che fu il tanto compianto nostro Benamozegh z.l. proseguiranno nell’insegnamento con coscienzioso zelo, e perseverante attività; e la scienza israelitica non tarderà a riacquistare nella nostra Italia il prisco splendore.[58]
La redazione del Corriere rispose alle osservazioni «del dottissimo e venerando Rabbino di Ancona» asserendo che «della modestia e del rispetto del Margulies verso i colleghi italiani noi non abbiamo avuto le prove. Il sistema di chiamare – senza concorso – Rabbini d’oltr’Alpe in Italia, non è niente affatto segno di riguardo verso il Rabbinato della Penisola» e che «in generale i Dottori venuti a Firenze han preso atteggiamenti di superuomini di fronte ai colleghi d’Italia». Nella stessa replica il Corriere parlava con molte lodi del Collegio di Livorno (dove Dante Lattes aveva studiato), in cui c’era «un indirizzo scientifico, filosofico, moderno senza aver preso nulla da Berlino» e che gli «alunni livornesi andavano all’Università di Pisa prima che il Margulies venisse in Italia». Andrà a finire, affermava la redazione del Corriere, che «il Rabbino di Firenze diverrà sul serio fra pochi anni, nelle storie dell’Italia contemporanea che sta a cavallo fra i secoli XIX e XX, il punto di partenza d’un’epoca ebraica che si chiamerà l’Epoca del Dott. Margulies, come ad Atene ci fu l’età di Pericle e a Roma quella di Leone X».[59]
E così avvenne. Dante Lattes aveva visto giusto, anche se la cosa non poteva fargli piacere. Il Collegio fiorentino iniziò, infatti, a sfornar rabbini per tutta la Penisola e non solo. Una mezza vittoria, comunque, Dante Lattes l’ottenne. Per rimpiazzare Elbogen il concorso fu bandito. In una cronaca da Firenze si legge che:
i concorrenti alla cattedra di Professore in questo Collegio Rabbinico son vari dall’estero e dall’Italia. Sappiamo però da fonte sicura che – nonostante i candidati italiani – un Dottore tedesco, filosofo e teologo, si dispone… a passar le Alpi. Esso era già pronto nella mente del Dott. Margulies come il Messia in quella del Signor Iddio. Il concorso è una di quelle burle delle quali una volta si dilettavano gli spiriti bizzarri fiorentini.[60]
Il prescelto fu H. P. Chajes.[61]
La polemica si riaccese alcuni anni dopo per la nomina del nuovo rabbino capo di Ancona, dopo la morte del rabbino I.R. Tedeschi. Fu infatti chiamato un altro ashkenazita, il Dott. H. Rosenberg, e di nuovo arrivarono gli strali del Corriere, che considerò tale nomina un ennesimo schiaffo alla dignità dei rabbini italiani:
Poiché di fronte ai due candidati italiani si troverà sempre un dottore tedesco che colle sue tesi di laurea stampate ed erudite e con qualche mese di domicilio sotto il bel cielo d’Italia, riuscirà a scavalcarli, non perché sappia l’italiano, non perché sia superiore ai rabbini italiani candidati o no a cui è venuto ebraicamente a togliere il pane, non perché voglia insegnare a noi qualche cosa che non possiamo imparare dai nostri maestri, ma perché è dottore e perché sa il tedesco, cioè una lingua che a certi italiani fa l’effetto dell’algebra agli analfabeti.[62]
Il convegno rabbinico italiano e l’unificazione dei collegi rabbinici
Un’altra questione che animò il rabbinato italiano a fine Ottocento e inizio Novecento fu la proposta di indire un convegno nazionale di tutti i rabbini per risolvere alcuni problemi che sembrava importante affrontare. Non era la prima volta. Era stato già tentato nel 1884, senza successo, su proposta del Rabbino Ghiron tramite le pagine del Vessillo.[63] La seconda volta, nel febbraio del 1905, l’iniziativa fu promossa dal rabbino di origine triestina Vittorio Castiglioni, da un paio d’anni nominato rabbino capo di Roma, ed era sostenuta principalmente dal Corriere (di cui il rabbino Dante Lattes era ormai direttore insieme al cognato Riccardo Curiel), forse grazie alla conoscenza diretta che la redazione del giornale triestino aveva con Castiglioni. Lo scopo era sia di far conoscere i Rabbini gli uni con gli altri e far cessare «quell’isolamento austero che oggi si lamenta» sia di arrivare a soluzioni condivise sui diversi problemi in discussione: «il nome del proponente, che di sì alta e meritata stima è circondato» faceva ben sperare.[64] Si volevano unificare gli usi delle diverse comunità, affinché fosse «tolto lo scandalo che quanto qui è lecito là sia proibito».[65] Fu aperto un referendum, in cui si chiedeva che ogni rabbino si esprimesse in relazione all’iniziativa e agli argomenti da trattare. Diversi rabbini intervennero.
A favore del convegno erano i rabbini D. Camerini di Parma («sono lieto che l’iniziativa sia stata presa dal Castiglioni, il cui nome è garanzia di serietà»), G. Bolaffio di Torino, Isaia Levi di Mantova; perplessità sull’utilità e opportunità del convegno furono espresse invece dai rabbini M. Coen Porto di Venezia, Cesare Foà di Soragna, Alberto Orvieto di Bologna, G. Jarè di Ferrara e A. Da Fano di Milano, che stimava ormai inutile parlarne, benché fosse in linea di principio favorevole, perché «alcuni dei primi Rabbini d’Italia lo avversano». Il rabbino Giuseppe Cammeo da Modena intervenne con una dettagliata risposta in cui elencava tutti gli argomenti che secondo lui andavano trattati, come «il modo di rialzare la fede tanto scossa», i mezzi per «estendere lo studio della Torà, incoraggiare la diffusione di buoni libri e di buoni giornali israelitici», per rafforzare la predicazione e l’istruzione femminile. Fra i riti, consigliava che si affrontasse il problema della cremazione (vedi oltre nella sezione dedicata a Castiglioni) e del seppellimento dei liberi pensatori, il problema dei figli nati da genitori ebrei ma non circoncisi, ossia «se sono da considerarsi israeliti o no», quello dell’illuminazione elettrica nelle sinagoghe; Cammeo suggeriva addirittura di discutere il problema dell’«abolizione o conservazione del Menhil del Sefer Torà, o se sia meglio usare tutti il Tic».[66]
Altri argomenti in discussione sarebbero dovuti essere la maggiorità religiosa dei maschi e delle femmine, i «cori di femmine nei sacri Oratori», il matrimonio fra «una israelita con un nato da genitori ebrei ma non circonciso», il sionismo, i titoli rabbinici e «la dignità dei rabbini riguardo a certi concorsi per cattedre rabbiniche con stipendi illusori». Concludeva auspicando che la sede fosse Ancona «per rispetto al venerato Maestro decano del Rabbinato italiano». Peccato che il venerato maestro, I.R. Tedeschi, aveva già manifestato le proprie perplessità riguardo al convegno dicendo «francamente che io lo giudico incompetente […]. Un Congresso sarebbe quindi inutile e potrebbe essere pericoloso».[67] Il referendum fu esteso alle «personalità laiche più notevoli del Giudaismo italiano» e anche in questo caso arrivarono numerose risposte.[68] L’Avv. Gino Racah, da Milano, scrisse fra l’altro che «per ciò che riguarda i riti nessuna innovazione dovrebbe essere fatta. I riti maggiori devono essere identici in tutto il mondo; quanto alle quisquiglie che vedo accennate in alcune risposte sull’ultimo fascicolo del Corriere non interessano affatto. Una questione di tich e di megnil a questi lumi di luna e coi bisogni urgenti e capitali non avrebbe altro risultato che di far perdere tempo».[69]
Dante Lattes, a commento dell’inchiesta da lui indetta per conto del Corriere, commentò che le risposte arrivate davano già un’idea dei possibili risultati dell’eventuale convegno, che in generale non era stato accolto da un entusiasmo eccessivo, quantunque fosse stato discusso con serenità. In un lungo e appassionato intervento Lattes auspicava che i rabbini allargassero il proprio campo di interessi:
Il mondo e la scienza corrono verso il futuro con voli altissimi, a cui il Rabbino italiano tien dietro solo con gli occhi, non colle sue ali: le dure necessità della vita lo inchiodano sulla terra, mentre fuori dell’Alpi il pensiero israelitico batte ancora le sue vie gloriose per tener dietro con onore a questo volo umano.[70]
Alla fine il convegno non si fece. Il disaccordo fra Castiglioni, il promotore dell’iniziativa, e Margulies portò al fallimento dell’iniziativa. Il Vessillo, che peraltro appoggiava Castiglioni, così commentò: «Ci vogliono gli argani per scuotere il Rabbinato italiano!» e «Si sono incontrate difficoltà per ottenere l’accordo desiderato tra i Rabbini italiani che non sanno tutti dimenticare i meschini astii personali e le stolide bramosie di preminenza, assurgendo a concetti più elevati».[71]
Un successivo argomento di discussione all’interno del rabbinato italiano fu la fusione da molti auspicata dei Collegi Rabbinici di Firenze e di Livorno. In questo caso c’è da rilevare che i due rispettivi direttori, Rav Shemuel Margulies e Rav Samuele Colombo, erano entrambi favorevoli. I contrasti furono a livello delle amministrazioni, ma ci fu anche un aspro scontro fra alcuni docenti dei due collegi, che finì per coinvolgere lo stesso Margulies, come documentato da uno scambio di lettere pubblicato sulla Settimana Israelitica e sul Vessillo del 1910.[72] Una postilla editoriale del Vessillo aggiungeva: «Abbiamo pubblicato ben volentieri e la lettera del Dr. Margulies e il Comunicato del Consiglio di Amministrazione di Livorno. Non facciamo commenti. Soltanto lanciamo, con tutto il nostro cuore, con tutto l’animo nostro e con tutte le nostre forze, un caldo appello alla pace…».[73]
Il direttore del Vessillo, il rabbino Ferruccio Servi (succeduto a suo padre, Rav Flaminio), interveniva con una successiva nota in cui auspicava che, visto che la fusione fra Livorno e Firenze era così difficile, si poteva trasferire nuovamente il Collegio a Roma sotto la direzione dell’efficiente ed energico rabbino Castiglioni:
E mi pareva che da Roma dovesse partire la parola di pace che facesse cessare per sempre le astiose polemiche – delle quali abbiamo avuto recenti e deplorati saggi – tra insegnanti dei due Collegi Rabbinici. O perché non dovrebbero i due Collegi – animati unicamente dal desiderio di contribuire al progresso degli studi nostri – fondersi in un Collegio solo che risiedesse nella Capitale del Regno, sotto la guida del più venerato fra i nostri Pastori?
Servi così continuava:
Al sogno ho accennato nei lunghi ed amichevoli discorsi che ho tenuto coll’Ecc. mo Castiglioni e mi è sembrato che dagli occhi suoi sfavillasse il desiderio intenso di dare ancora i tesori della sua indomabile energia a vantaggio degli studi nostri. Ma l’Ecc.mo Castiglioni volle poi – dopo pochi istanti di esitazione – farmi senz’altro comprendere le pratiche difficoltà che si oppongono alla effettuazione del sogno mio, soggiungendomi che non è il caso di insistervi.[74]
Si dovettero aspettare molti altri anni fino a che di fatto i collegi si unificassero, quando la direzione del Collegio Rabbinico Italiano fu affidata al rabbino Dante Lattes e poi al rabbino Alfredo S. Toaff, divenuto rabbino capo di Livorno dopo la morte del rabbino Samuele Colombo, e ancora dopo al rabbino Elio Toaff, tutti quanti allievi della prestigiosa scuola di Livorno.[75]
Proponiamo ora due approfonditi profili, anche se non esaustivi, su due rabbini italiani vissuti a cavallo dell’Ottocento e primo Novecento, i rabbini Tedeschi e Castiglioni, già citati sopra, rappresentativi della formazione culturale dei rabbini italiani dell’epoca.
Il rabbino Isacco R. Tedeschi, l’ultimo grande poseq italiano
Rav Yitzchaq Refael Tedeschi è generalmente considerato l’ultimo poseq (decisore legale) e autore dell’ultima raccolta di She’elot u-tshuvot (quesiti e responsi giuridici) pubblicata in Italia, nonché l’ultimo testimone della scuola anconetana, rappresentata in passato da rabbini di notevole fama internazionale, quali Rav Shimshon Morpurgo (Gradisca 1681 – Ancona 1740), autore di Shemesh tzedaqà (Venezia 1743),[76] Rav Refael Ye- sha‘ayà Azulai (figlio del Chidà; Gerusalemme, 1743 – Ancona, 1826),[77]e Rav Ya‘aqov Shimshon Shabbetai Senigaglia (ca. 1765 – 1840), autore di Shabbat shel mi (Livorno 1807), per citare solamente i più noti.[78] Rav Tedeschi si inserisce dunque, senza dubbi, nel filone di questa tradizione culturale sefardita ortodossa, caratterizzata da studi ebraici seri e approfonditi e nel contempo sempre aperta al confronto con il mondo circostante, sullo sfondo di una Comunità ormai al suo tramonto.[79] Tedeschi è anche da annoverare tra i più tenaci oppositori in Italia del movimento ebraico di riforma di origine tedesca, che prendeva piede nella Penisola, tra l’assimilazione sempre più diffusa e le crescenti aspirazioni nazionali.[80]
Biografia. Rav Yitzchaq Refael Tedeschi (Ashkenazi) nacque ad Ancona, il giorno 8 maggio 1826.[81] Fin da bambino venne educato nell’ambito del Talmud Torà locale, seguito da due figure di rilievo: dal suo predecessore, Rav David Avraham Vivanti (Ancona 1806 – 1876)[82] e da Rav Yehudà Shemuel ben Ya‘aqov Ashkenazi (Tiberiade 1780 – Livorno 1849).[83] II giovane Tedeschi si distinse presto per le sue doti di allievo brillante, soprattutto negli studi talmudici e di ritualistica. In quanto ebreo, non potendo frequentare le scuole pubbliche dello Stato Pontificio, si dedicò parallelamente, da autodidatta, anche agli studi generali, coltivando soprattutto la letteratura italiana, greca, latina e le lingue straniere, in particolar modo il francese, ma anche l’inglese. Dopo la morte del direttore del Talmud Torà anconetano, Rav Abramo Musatti, all’età di diciassette anni, venne chiamato a dirigerne le classi superiori e a soli ventun’anni fu nominato vice-rabbino di Ancona. Nel 1849 sposò Allegra Vivanti, la compagna che lo sosterrà nel suo magistero per 59 anni, da cui ebbe un’unica figlia (Fortunata), deceduta prematuramente nel 1882, lasciando quattro figli, poi allevati premurosamente dai nonni. Finalmente, nel 1856, gli fu conferito il titolo di chakham dal suo Maestro, Rav Vivanti, e da Rav Moshè Israel Hazan (Smirne 1808 – Sidone 1862).[84] L’anno successivo lasciò la sua città natale per assumere la carica di capo-culto (in realtà Rabbino) di Finale Emilia, dove rimarrà sino al 1860, per guidare, nei quattro anni successivi, la neo-Comunità ebraica di Bologna, ove darà un notevole contributo per rafforzare le istituzioni ebraiche cittadine, non ancora consolidate.
Dal gennaio del 1865 fu particolarmente attivo a Corfù dove rimase sino al 1873, anno in cui fece ritorno ad Ancona, dove per tre anni fu facente funzione di Rabbino Maggiore a causa della lunga malattia del Rav Vivanti. Nell’isola greca si dedicò allo studio, all’insegnamento, ma anche alla divulgazione dell’ebraismo: collaborò infatti con i maggiori giornali ebraici italiani e stranieri (persino con i giornali greci); ebbe l’occasione di incontrare diverse volte il re Giorgio e nel 1870 venne nominato membro onorario dell’Accademia delle Scienze di Atene. Nel 1876, dopo la morte del rabbino Vivanti, fu chiamato a succedergli.
Nel 1881 la «Commissione Rabbinica di Livorno» insieme al Rabbino Maggiore di Firenze gli conferirono il titolo di Morenu ha-Rav, titolo che gli verrà immediatamente confermato dai Rabbini di Eretz Israel in segno di stima e di apprezzamento. Rav Tedeschi si spense nella sua Ancona il 13 aprile 1908, commemorato, fra gli altri, dal rabbino Vittorio Castiglioni, con cui peraltro si trovava in disaccordo su diverse questioni.
Gli scritti. A testimonianza del suo assiduo impegno di studioso e insegnante, Rav Tedeschi lasciò numerosi scritti, molti dei quali rimasti inediti. Inoltre Tedeschi lavorò, con entusiasmo, per rintracciare testi ebraici medievali ignoti o poco conosciuti, che puntualmente usava segnalare ai maggiori studiosi dell’epoca, caldeggiandone poi la pubblicazione. Ricordiamo in particolar modo la collaborazione con Abraham Berliner e la società Mekitze Nirdamim di Berlino, con la società letteraria Dovev Siftè Yeshenim di Husiatyn (Ucraina), con gli editori Rom di Vilna per la pubblicazione dell’edizione classica del Talmud babilonese e non da ultimo le indicazioni e i suggerimenti forniti a Shelomo Buber di Leopoli per la pubblicazione dello Shibbolè ha-Leqet e il Sefer ha-Ora di Rashi e a Yitzchaq Hirschensohn di Gerusalemme per la pubblicazione dei commentari talmudici di Rabbenu Nissim e del Meiri.
Fra le numerose opere, sia in ebraico sia in italiano, in parte inedite, segnaliamo: 1) un volume di commenti e note esegetiche sul Pentateuco, in ebraico (Perushim we-he’arot ‘al ha-Torà), ancora inedito, basato sui commentari esegetici medievali classici e contemporanei, tra cui Reggio, Benamozegh, Munk, dove spesso polemizza con Shadal;[85] 2) un’operetta inedita, contenente 665 voci enciclopediche, in ordine alfabetico, a integrazione dell’opera di Isacco Lampronti Pachad Yitzchaq (in ebraico);[86] 3) epistolario ebraico, italiano e francese;[87] 4) una collezione di omelie in italiano;[88] 5) due volumetti contenenti regole sugli animali proibiti (Hilkhot Terefot) e su altre questioni rituali, anch’essi inediti;[89] 6) Wa-Ya‘an Yitzchaq,[90] una raccolta di She’elot u-tshuvot, la sua opera più nota, dove risponde ai quesiti halakhici, soventemente in modo preciso e succinto, basandosi spesso sulle decisioni del Chidà; 7) Toledot benè Israel u-matzavam ha-medinì we-ha-chomri be-nappot Italia (una storia della condizione giuridica degli ebrei italiani dal medioevo all’epoca dell’autore), stampato a Cracovia nel 1901 (raccolta degli articoli pubblicati nella rivista «Ha-Zefira»); 8) La Cabbalà o la Filosofia degli Israeliti (riproduzione di un lavoro inserito, or fa un deccennio a frammenti, nel Corriere Israelitico), Trieste, 1901; 9) Notificazione importante a tutte le comunità israelitiche (dichiarazione e avvertimento di non sposare i discendenti di Israel Conegliano, mamzer di Corfù), firmato insieme al Rav Alessandro Da Fano, [Livorno] 1901 (in ebraico e in italiano, 2 carte); 10) numerosissimi articoli pubblicati soprattutto nella stampa ebraica italiana.[91]
Il pensiero. Particolarmente interessanti sono le posizioni di Rav Tedeschi su alcuni quesiti rituali sollevati nell’Italia ebraica post-unitaria allo scopo di riformare il culto. Generalmente Rav Tedeschi, attenendosi tradizionalmente alle fonti talmudiche e rabbiniche, respinge, se pur sempre pacatamente e rispettosamente, le proposte suggerite dai colleghi più facilitanti. Ad esempio, nel caso di richiesta d’abolizione della tredicesima benedizione della ‘amidà (la birkat ha-minim), promossa dal Rabbino Giuseppe Lattes[92] o il tentativo di ridurre il numero del minian a 6 o a 7 (anziché dieci uomini)[93]. Così anche per il ripetuto desiderio di annullare il secondo giorno di Mo‘ed (Yom tov shenì shel galuyot), annunciato dalla Comunità ebraica torinese, respinto categoricamente da Rav Tedeschi.[94]
Rispondendo al Rabbino Giuseppe Sonino di Napoli sulla dibattuta questione sull’uso dell’organo in Sinagoga, il Rav Tedeschi assume posizioni ancora più nette; per il rabbino anconetano, non solo è vietato suonare l’organo da un non ebreo di Shabbat e nei giorni festivi (come accettato comunemente dall’ebraismo ortodosso), ma è vietato sempre e comunque, anche nei giorni feriali, in quanto considerato un uso non ebraico, ormai di consuetudine di altri culti.[95]
Rav Isacco Raffaele Tedeschi (Ancona, 1826 – Ancona, 1908).
Rav Vittorio Castiglioni (Trieste, 1840 – Roma, 1911).
Nel 1895, i membri della Comunità di Vercelli proposero di abolire la recitazione della ‘amidà sottovoce (mantenendo solo la ‘amidà recitata pubblicamente a voce alta), come del resto già in uso da tempo in alcune Comunità piemontesi. Inoltre, suggerirono di eliminare i piyutim (poesie liturgiche) dei giorni di festa. Il Rabbino Cingoli, Rav di Vercelli, dopo essersi opposto inizialmente, si trovò costretto a dover interpellare i rabbini livornesi e lo stesso Rav Tedeschi, su richiesta del consiglio comunitario, per trovare una soluzione ragionevole. Interessante, in questo caso, l’approccio di Rav Tedeschi nell’affrontare le questioni che gli vennero sottoposte: fin dal primo momento mostra di non avere alcuna posizione preconcetta, viceversa si sforza immediatamente di ricercare fonti rituali che gli permettano di accettare le richieste dei vercellesi («mi sono affrettato a trovare le fonti sulle quali appoggiarsi, allo scopo di permettere e accontentarsi del minimo»); in secondo luogo scrive al Rav Benamozegh di Livorno (arrivato indipendentemente a una soluzione di compromesso, diversa da quella indicata dal Tedeschi), anche per concordare le risposte. Infine, conclude il suo responso, sostenuto da fonti talmudiche e rabbiniche, stabilendo di poter permettere senz’altro di recitare la ‘amidà solo a voce alta e di omettere almeno i piyutim difficilmente comprensibili e non particolarmente amati dal pubblico.[96]
Tedeschi interviene anche sulla spinosa questione della cremazione dei defunti secondo l’Halakhà, argomento affrontato in passato dal Rav Moisè Tedeschi di Trieste e successivamente dal Rav Vittorio Castiglioni di Roma (e accettata da entrambi – vedi oltre). Sulla base della tradizione cabbalistica (soprattutto il Sefer ha-Zohar), tende a vietarla, all’unisono con i maggiori rabbini dell’epoca.[97]
Per la formazione rabbinica, Rav Tedeschi auspica l’istituzione di Collegi rabbinici, cui affidare la completa preparazione accademica e morale degli allievi e che – a suo avviso – non può essere assolutamente delegata a un singolo insegnante. Non a caso, nella sua lunga carriera rabbinica, Tedeschi darà la semikhà solo a un suo allievo (e controfirmerà appena altre due lauree rabbiniche).[98]
Vittorio Castiglioni, il triestino rabbino capo di Roma dal 1903 al 1911
Il primo rabbino capo di Roma del Novecento fu Vittorio Castiglioni, che guidò la più grande comunità ebraica d’Italia dalla fine del 1903 fino alla sua morte nel 1911.[99] Castiglioni è stato definito «un dotto rabbino italiano esponente di un’epoca di transizione»,[100] e in effetti, rispetto al suo successore sulla cattedra di Roma, il rabbino Angelo Sacerdoti,[101] egli appare quasi eclissato. Fu solo perché Castiglioni ricoprì il ruolo di rabbino di Roma per un terzo del tempo del rabbinato di Sacerdoti o ci sono altri fattori? Alla fine di questa sezione proporremo una risposta a questa domanda.
Vittorio (Yitzchaq Chaim) Castiglioni nacque a Trieste il 25 marzo 1840 da Moisè Davide Vita e Annetta Campos. Era di origine sefardita, come entrambi i cognomi dei genitori testimoniano, e infatti Castiglioni, nelle opere a stampa, dopo il suo nome aggiunge in genere le lettere ebraiche samekh-tet, forse a significare sefardì tahor (sefardita puro[102]). Il bisnonno paterno, Moisè, proveniva dalla Toscana e si era stabilito dapprima in Romagna (allora parte dello Stato Pontificio) e poi a Trieste, dove gli ebrei erano ormai liberi dall’obbligo di risiedere in un ghetto già dalla fine del XVIII secolo. Il nonno di Vittorio, Abramo, dopo un periodo iniziale di vita agiata, fu costretto a causa delle difficoltà economiche ad accettare l’incarico di bidello della scuola ebraica. Anche il padre di Castiglioni era a quanto pare di modeste condizioni (in una dedica in ebraico è chiamato shomer miqdash, che potrebbe significare custode della sinagoga o forse shammash[103]). Il nonno materno era stipendiato dalla comunità come chazan (cantore) del Tempio spagnolo. È evidente, quindi, che la famiglia in cui Castiglioni crebbe era strettamente legata alla comunità ebraica e alla tradizione.
Il giovane Vittorio frequentò la scuola elementare ebraica di Trieste e in seguito la scuola superiore, dove studiavano diversi allievi in vista di una carriera rabbinica. Contemporaneamente svolgeva al Ginnasio studi di materie non ebraiche, come latino e greco, lingue su cui Castiglioni avrebbe dimostrato di possedere notevole competenza e studiò anche, poi, all’Università di Vienna.[104] Il corso superiore di studi ebraici era tenuto dal rabbino capo di Trieste Sabato Graziadio Treves, dal talmudista Leone Brandenburg e dal rabbino Moisè Tedeschi, il vice-rabbino. Il corso di Talmud fu poi assunto dallo stesso Tedeschi, autore, fra varie altre opere, di note esplicative ad alcuni trattati talmudici.[105] È presumibile che fu Tedeschi, insieme a Brandenburg, a instillare nel giovane Vittorio la passione per gli studi talmudici, che più tardi darà i suoi frutti nella grande opera di Castiglioni, la traduzione integrale della Mishnà in italiano con ampio apparato di note. Moisè Tedeschi ebbe in generale un notevole impatto sulla personalità di Castiglioni e si deve a lui la controversa posizione di Castiglioni sul problema della cremazione dei cadaveri, su cui torneremo.[106]
Castiglioni poteva quindi considerarsi allievo di Shadal, almeno indirettamente. Proprio in onore di Shadal Castiglioni compose numerosi sonetti celebrativi. Alla morte del rabbino Treves, fu nominato rabbino capo di Trieste Marco (Mordekhai) Tedeschi. Castiglioni fu insignito del titolo di maskil dal rabbino Marco Tedeschi e di quello di chakham dal rabbino Sabato Raffaele Melli, successore di Tedeschi sulla cattedra di Trieste.[107] Castiglioni è quindi un esempio di rabbino laureatosi al di fuori del Collegio Rabbinico di Padova, quando ancora vi insegnavano Shadal e Lelio Della Torre. Se pur è ipotizzabile che l’organizzazione dei corsi alla scuola di Trieste fosse meno strutturata e regolare che a Padova, ciò però non impedì al giovane Castiglioni di acquisire una solida cultura ebraica e generale. Inoltre, come cittadino di Trieste, ebbe modo di conoscere bene il tedesco e di venire in contatto con il mondo ashkenazita molto più di quanto potessero fare altri rabbini italiani suoi contemporanei. Molte sue opere furono stampate dalla casa editrice Fischer di Cracovia, dove più facilmente si potevano comporre testi in ebraico.
Castiglioni sposò Enrichetta Bolaffio, che morì trentenne, e poi Giulia Sonino. Ebbe cinque figli, fra cui Augusto ed Enrichetta; furono questi che nel 1961, in occasione del cinquantenario della morte di Castiglioni, presero l’iniziativa di pubblicare una nuova edizione della traduzione della Mishnà eseguita dal loro padre. Un altro figlio, Arturo, fu medico e docente di storia della medicina all’Università di Padova, e scrisse diversi testi su questa materia.
La maggior parte della vita lavorativa di Castiglioni non fu dedicata a mansioni rabbiniche ma all’insegnamento presso l’Istituto Magistrale di Trieste, dove per ben 32 anni, dal 1870 al 1902, tenne corsi di matematica e pedagogia a centinaia di allieve. Gli fu anche affidata la direzione didattica dei giardini d’infanzia triestini. Scrive Yoseph Colombo:
Non si sbaglia certo se si afferma che Vittorio Castiglioni era educatore di vocazione e perciò appassionato ai problemi della pedagogia; questo dato anzi fa di lui una figura rabbinica tutta particolare, perché se in ogni rabbino è da vedere un educatore e un maestro […] non sempre i rabbini posseggono, in fatto di pedagogia, conoscenze adeguate che siano frutto di loro studi sui problemi dell’ educazione.[108]
L’attività prettamente rabbinica di Castiglioni iniziò a Trieste, dove per alcuni anni fu vice-rabbino della Comunità nel periodo in cui fu rabbino capo il ferrarese Sabato R. Melli. Durante la malattia di Melli, che sarebbe morto nel 1907 all’età di 82 anni, fu Castiglioni a sostituirlo.[109] Presumibilmente Castiglioni sarebbe potuto diventare rabbino capo di Trieste (e sarebbe stato il primo in 200 anni a essere triestino di nascita).[110] Ma anche Castiglioni non era più giovane, e avendo superato la sessantina, decise nel 1903 di concorrere al posto vacante di rabbino capo di Roma. Ecco come è descritta la sua nomina nel giornale triestino «Corriere Israelitico»:
Eureka! La capitale d’Italia ha finalmente trovato il suo Rabbino e l’ha trovato dotto ed italiano… Il Cav. Vittorio Castiglioni è una di quelle tempre vigorose, in cui l’energia degli studi e delle opere, la varia e fervida attività si potrebbero portare a esempio nelle scuole e da chiunque voglia formare dei caratteri. Roma ha trovato il Rabbino adatto alla sua importanza: lo spirito infaticabile ed energico, acuto e vivace del Castiglioni farà rifiorire – dopo tanto tempo d’interregno – le istituzioni israelitiche della capitale d’Italia. E Roma sarà lieta anche d’avere per rappresentante un uomo che reca come passaporto un ricco bagaglio di dottrina, d’esperienza, d’opere […]. Roma acquista un Rabbino infaticabile.[111]
Al concorso indetto dalla comunità di Roma nel 1903, ben tre anni dopo la morte del rabbino Ehrenreich, parteciparono ventuno concorrenti, di cui solo sei italiani (includendo Trieste, benché non fosse parte del Regno d’Italia). Gli altri provenivano per la maggior parte dalla Germania o dall’Austria (undici), due da Costantinopoli, uno da Sarajevo e uno da Gerusalemme (ma di origine tedesca).[112] La nomina di Castiglioni non fu affatto scontata. In una lunga lettera del consigliere Vittore Ravà al presidente della Comunità di Roma Angelo Sereni, datata 8.5.1903, si ricostruisce la storia del concorso. Ne risulta che, fra i concorrenti, i favoriti dalla commissione per la scelta del rabbino maggiore, in base ai titoli presentati, erano due, entrambi stranieri, Funk e Neumark. Tuttavia, quando furono convocati al colloquio, vennero scartati, l’uno per le opinioni manifestate e le condizioni imposte, l’altro perché erano sorti «dubbi rispettabili, per risposte da lui date a quesiti rituali». A quel punto il presidente decise di convocare Castiglioni per un colloquio di conoscenza, suscitando le proteste di Ravà, perché Castiglioni non rientrava nella rosa dei candidati presi in considerazione dalla commissione a causa dell’età «molto avanzata», il che «impensierisce assai anche parecchi consiglieri».[113] Quali fossero i motivi per cui gli altri due concorrenti furono scartati, che Ravà non specifica, è dettagliato in una corrispondenza del «Vessillo Israelitico». Il Funk fu scartato perché era un «giovane dottissimo, autore di varie ben pensate opere, poco più che ventenne, ma… tanto ortodosso, che fece strabiliare i romani avvezzi con certi Rabbini… Immaginatevi che non volle mangiare da alcuno, perché non sicuro di cibi veramente Cascer. Aveva torto?».[114]L’altro, Neumark, «che incontrava pei suoi modi concilianti le generali simpatie» era invece:
troppo liberale. Immaginatevi che richiesto se avrebbe rifiutato a chi non ha la Milà [circoncisione] di essere sposato religiosamente o venir chiamato a Sefer, rispose ch’egli non ci avrebbe badato! E così anche lui dovette ripartirsene […]. Ora c’è chi vorrebbe chiamare un terzo a farsi vedere. Ma questo non si presterà al gioco perché non è più giovane e perché sa che i Consiglieri più autorevoli gli sono contrarii.[115]
E invece il «non più giovane» Castiglioni si presentò e fu scelto.
Rabbino capo di Roma. Castiglioni fu nominato rabbino capo di Roma il 14 luglio 1903 e si insediò con solenne cerimonia ufficiale il 17 dicembre 1903. Nel discorso programmatico d’insediamento Castiglioni analizzava il rapporto fra ortodossia e riforma,
dimostrando come sia possibile concordare con oculatezza e con delicata ma energica volontà ed azione, una saggia e ragionevole ortodossia, con un moderato spirito di riforma, che tenendo conto dei nuovi tempi, sappia spirare in tutte le pratiche religiose e specialmente nel culto e nell’istruzione un soffio vivificatore…[116]
Forse la scelta di Castiglioni fu una soluzione di riserva e forse proprio per questo, per dissipare i dubbi sulle sue capacità lavorative nonostante l’età, egli si mise subito all’opera. In poco tempo rivoluzionò l’organizzazione della kashrut, in particolare riguardo alla vendita della carne kasher ma anche riguardo alle azzime e i dolci di Pesach e «persino ottenne che ai malati negli ospedali venisse provvisto il cibo conforme al rito della Pasqua, cosa a cui da molto non si pensava».[117] Ecco come la stampa ebraica dell’epoca descrisse il suo impegno:
Lo zelante nuovo Ecc. Rabb. Magg. Prof. Cav. Castiglioni riorganizzò il servizio della Scehità e Bedicà, che lasciava molto a desiderare, provvedendo a che quattro soli esercizi siano abilitati a spacciare carni chescerod sotto la sorveglianza assidua degli incaricati all’uopo. – Benissimo!
E:
Graditissimo riuscì a tutti il riordinamento della macellazione e della vendita delle carni conforme al rito, per cui tutti gli esercizi a ciò autorizzati sono ora chiusi nei giorni solenni, e spessissimo vengono controllati dallo stesso Rabbino Maggiore. Iddio benedica ogni opera di sì illuminato Pastore.[118]
Ancora due anni dopo si leggeva degli «sforzi dell’Ecc.mo Rabb. Magg. Castiglioni, che ha dovuto superare non poche difficoltà, ed energicamente lottare, prima di vedere riordinato uno dei rami più importanti del nostro culto».[119]
L’intensa attività del nuovo rabbino venne così descritta in una corrispondenza da Roma sul Vessillo, in cui ci si compiaceva «della ottima scelta»:
Niuno potrebbe descrivere Fattività impareggiabile di quest’uomo, che ogni mattina alle 6 è al suo posto al Tempio, sebbene debba percorrere circa due chilometri di strada; e tutto il giorno si adopera a vantaggio della Comunità assistendo spesso alle sedute della Presidenza, visitando ripetutamente e l’ospedale, e l’istituto degl’invalidi, e l’asilo infantile, e l’orfanotrofio: recandosi ad assistere alle circoncisioni, ai funerali; insomma egli è pronto dappertutto, anche al letto dei moribondi che desiderano di vederlo e di avere da lui i conforti religiosi. […] E che dire poi delle sue prediche? Bellissime, e tali da richiamare un enorme numero di devoti. Con sicurezza ed energia meravigliose egli predicò il primo giorno di Pasqua nella scuola del Tempio, il secondo giorno a scuola Catalana e il terzo nell’oratorio di via Modena, sempre tra l’attenzione dell’affollatissimo e scelto uditorio e particolarmente delle signore anche appartenenti alle famiglie più distinte che accorrono con vero entusiasmo ad ascoltarlo. Dio benedica questo zelante pastore! Se tutti imitassero il suo esempio la religione si troverebbe in condizioni assai più favorevoli nelle Comunioni. […] Particolare simpatia mostrano per l’Ecc.mo Rabbino i figli del popolo che al suo passaggio accorrono in frotte a baciargli la mano e a chiederne la benedizione.[120]
Ma se questa frenetica attività del rabbino Castiglioni era degna di ammirazione per alcuni, altri la vedevano diversamente. Un «dottissimo rabbino» (anonimo), forse ispirato a un «pessimismo eccessivo», nel numero successivo del «Vessillo Israelitico» scrisse una lunga lettera sulla condizione dei rabbini italiani, in cui fra l’altro affermava:
Si dovrebbe forse sentir dire che in Comunità della massima importanza il Rabbino Maggiore, simile a un pretuncolo di campagna, fa tutte le mattine alle 5, tre o quattro chilometri di strada per assistere alle ufficiature del Tempio, o che passa da un Tempio all’altro ripetendo la stessa predica, e cose simili? E poi parlano di dignità?[121]
Questa attività di Rav Castiglioni non fu affatto osteggiata dalla Comunità ebraica di Roma:
Mercé l’opera assidua, zelante, coscienziosa del nostro amato e venerato Pastore, la Comunità è sulla buona strada di benefiche migliorie. […] Ai sermoni del Prof. Castiglioni accorre la popolazione in massa; ricchi e poveri, donne e fanciulli cercano di essere solleciti a recarsi agli Oratorii per tema di non trovare più posto.[122]
Da poco arrivato a Roma, il 2 luglio 1904, Castiglioni ricevette il Re Vittorio Emanuele III in visita al nuovo Tempio appena edificato.123 Ivi, pp. 345-348. Pochi mesi dopo il rabbino restituì la visita al re, vedi «Corriere Israelitico» XLIII, p. 259. Ci fu almeno anche un altro incontro, il 21 febbraio 1908, in occasione della visita del rabbino Giuseppe Arovas, missionario della terra d’Israele, ivi, XLVII (1908), pp. 330-331.[123] Il Re fu accolto solennemente dal presidente, dagli altri maggiorenti della Comunità e dal corpo rabbinico al completo, nonché da una folla festante. Poche settimane dopo, il 28 luglio, ci fu l’inaugurazione ufficiale del nuovo Tempio, presenti le maggiori autorità dello Stato e del Comune. La consacrazione del nuovo Tempio, «con rito solenne, nella pompa del sacro cerimoniale», e la figura di Castiglioni così furono descritte da Crescenzo Del Monte:
Era celebrante il venerando Rabbino Maggiore Vittorio Castiglioni, da poco assunto all’alto ufficio dopo la morte di Mosè Levi Ehrenreich e il ritiro di Angelo Fornari. In quest’uomo fervido di fede e di carità, ricco di erudizione sacra e di profana coltura, degno d’aspetto e dalla parola calda e suadente, in questo figlio di Trieste irredenta, che gl’israeliti romani vollero a reggitore del sacro ministero nella Capitale d’Italia, la Comunità che aveva edificato il suo Tempio, avea trovato il suo capo spirituale. Il suo ascendente, la sua autorità, l’influenza degli insegnamenti suoi e delle opere, in un colla nobiltà del nuovo Tempio e il decoro del cerimoniale da lui particolarmente curato, aveano potentemente contribuito al risveglio dello spirito religioso ed alla riaffermazione della vita ebraica.[124]
Una delle preoccupazioni di Rav Castiglioni fu di mettere ordine nel culto e nell’organizzazione delle cerimonie nel nuovo Tempio, inclusi i matrimoni.[125] Si adoperò affinché gli studenti non dovessero più effettuare esami nelle festività ebraiche.[126] Prese l’iniziativa di indire un Convegno rabbinico italiano, che però non andò in porto (vedi sopra).[127]
La grande opera della sua vita: la traduzione commentata della Mishnà in italiano. Rav Castiglioni scrisse numerose opere sia in italiano che in ebraico, su argomenti pedagogici ed ebraici.[128] Anche in campo ebraico Castiglioni si occupò di educazione, con diverse opere sullo studio della lingua e della storia ebraica e sulla preghiera. Ma l’opera più importante di Castiglioni, «opera di grande erudizione e per la quale il nome del Castiglioni rimarrà congiunto a quello della nostra storia letteraria e religiosa»,[129] è indubbiamente la traduzione italiana con note illustrative della Mishnà, che è, accanto alla Torà e al resto della Bibbia, il testo fondante dell’ebraismo ed è alla base del Talmud. La seconda edizione della traduzione di Castiglioni, pubblicata postuma nel 1962-65 (senza il testo originale a fronte), è composta di tre volumi per un totale di più di mille pagine. Scrivono commossi i figli, nella presentazione alla seconda edizione: «Ci sembra di vederLo ancora nel Suo studio, seduto alla Sua scrivania, sacrificando tutte le Sue poche ore libere a questo imponente lavoro, che ci è pervenuto scritto con la Sua calligrafia piccola, uniforme, nitida e precisa».
Castiglioni si accinse a tradurre e commentare la Mishnà (che è divisa in sei ordini e 63 trattati) all’inizio degli anni ’90 del 1800, all’età di circa 50 anni. Fino allora c’era solo una traduzione in latino pubblicata ad Amsterdam nel 1698-1703, «considerata poco conforme all’originale e spesso arbitraria», una versione tedesca del 1760-62 e pubblicata nel 1833- 4, «pure difettosa», più un’altra traduzione tedesca a cura del Dr. Sammter e del rabbino Baneth di Krotoschin, in corso di stampa dal 1887, che Castiglioni consultò durante il suo lavoro e gli «fu di norma specialmente per ciò che si riferisce al commento».[130] Il primo ordine (Zera’im, «delle sementi»), contenente 11 trattati, fu completato da Castiglioni a Trieste il 26 settembre 1892, fra Rosh ha-shanà e Kippur, e subito dopo iniziò la pubblicazione a fascicoli dei singoli trattati. Il primo, Berakhot («delle benedizioni»), uscì nell’anno 1893 con dedica, in ebraico e in italiano, «alla benedetta memoria dei miei venerati Maestri Sabbato Grazadio Treves e Prof. Marco Tedeschi, illustri Pastori della Comunità israelitica di Trieste». Ogni fascicolo recava il testo originale ebraico e a fronte la traduzione con apparato di note sottostante. Per poter più facilmente stampare il testo ebraico, Castiglioni si rivolse a tipografie in Polonia, dapprima J. Fisher di Cracovia e poi A.H. Zupnik di Drohobycz. Solo alcuni anni dopo essersi stabilito a Roma si servì della Casa Editrice Italiana di Roma. Alla fine dell’ultimo trattato (Bikkurim) del primo ordine, e così per gli altri ordini, Castiglioni aggiunse la Preghiera che si usa recitare dopo lo studio di mishnaiot «in suffragio dell’anima dei trapassati durante Tanno di lutto e nell’anniversario della morte».[131]
Il secondo ordine, Mo ‘ed («della festa»), composto di 12 trattati, fu completato a Trieste nel dicembre 1898,[132] e dedicato alla memoria del suo maestro di Talmud Moisè Tedeschi, «rabbino preclaro che a fede illuminata, allo studio costante de’ sacri codici, dalla mia adolescenza alla sua morte, padre maestro compagno con intenso affetto mi guidò», da poco scomparso all’età di 76 anni. Il terzo ordine, Nashim («delle donne»), composto di 7 trattati, fu ultimato da Castiglioni a Trieste il 3 settembre 1900 e fu dedicato «alla benedetta memoria degli adorati miei genitori Moise Davide Vita Castiglioni e Anna Campos, anime candide che con la parola e con l’esempio mirarono costantemente ad avviarmi sul retto sentiero».[133] Il quarto ordine, Neziqin («dei danni»), con 10 trattati, fu ultimato a Trieste nell’agosto 1902, e fu dedicato alla memoria della prima moglie, Enrichetta Bolaffio, «dolce compagna de’ miei verdi anni, anima eletta». Il quinto ordine, Qodashim («delle cose sacre»), composto di 11 trattati, fu completato a Roma l’8 giugno 1904, pochi mesi dopo il suo insediamento come rabbino capo della Capitale. Fu dedicato da Castiglioni in onore della seconda moglie, Giulia (Yael) Sonnino,[134]«che con la squisita modestia delle rare sue virtù fu a me e agli orfani miei raggio di vivida luce nelle fitte tenebre della nostra sventura». Il sesto e ultimo ordine, Tahorot («delle cose pure»), che comprende 12 trattati ed è il più voluminoso di tutti, fu ultimato anch’esso a Roma, il 9 novembre 1905. Nella Prefazione a questo ordine Castiglioni scrive che il primo trattato, Kelim («degli oggetti»), è fra l’altro molto importante dal punto di vista della lingua, «perché in esso appare un numero di vocaboli nuovi, sia di derivazione biblica sia assunti da altre lingue, relativamente maggiore che nelle altre parti di questo vetusto nostro libro tradizionale». In effetti, per citare solo un esempio, nel cap. 2, alle mishnaiot 3-5, vengono riportati nelle note tre termini dal siriaco, quattro del greco e due dall’arabo, a dimostrazione delle competenze linguistiche di Castiglioni.[135] A conclusione della Prefazione a quest’ultimo ordine (che è anche a conclusione di tutta l’opera), Castiglioni scrive questo notevole passaggio:
È indubbio che con l’aiuto di Dio giorno verrà in cui, contrariamente a quanto ammisero gli stessi nostri Dottori rispetto ai sacrifizi, queste disposizioni [in materia di purità e impurità], almeno per ciò che si riferisce a parte delle impurità stabilite dalla Bibbia torneranno in vigore presso gli Ebrei, che le osserveranno di nuovo con maggior vigore, mentre non è improbabile che, per la loro utilità, l’uso se ne estenda anche agli altri popoli indipendentemente da viste religiose.[136]
Come si deduce dalle date sovra riportate, la conclusione dell’opera avvenne a Roma. Rav Castiglioni, appena arrivato nella Capitale, iniziò a tenere una serie di corsi, sia di Bibbia sia di Talmud e di Halakhà, indirizzati principalmente ai rabbini della comunità ma anche al pubblico esterno (pure non ebraico).[137] È ipotizzabile che nei corsi di Talmud si studiasse anche, o soprattutto, Mishnà e che il frutto di quello studio confluisse nel testo della traduzione o del commento. Nel 1907 terminò l’opera alla presenza del Presidente della Comunità di Roma e degli altri rabbini.[138]
La pubblicazione a dispense non fu molto celere, almeno non secondo le aspettative del pubblico.[139] La morte di Rav Castiglioni nel 1911 poteva far pensare che l’opera si interrompesse,[140] però uno dei suoi più affezionati discepoli, il prof. Emilio Schreiber, direttore delle scuole ebraiche di Trieste, continuò la pubblicazione e la distribuzione dei fascicoli, fino a che, nel 1938, le leggi razziste antiebraiche e la morte di Schreiber costrinsero la sospensione della pubblicazione. Fino allora erano usciti in tutto quattro ordini completi e il trattato Zevachim del quinto ordine.[141]
Dopo la Seconda Guerra Mondiale il manoscritto della traduzione fu trovato intatto e nel 1961, in occasione del cinquantenario dalla scomparsa di Castiglioni, i figli[142] presero l’iniziativa di pubblicare l’intera opera, grazie all’incoraggiamento del rabbino capo di Roma Elio Toaff. L’opera uscì in tre volumi (ognuno con due ordini) fra gli anni 1962 e 1965, per i tipi della Tipografia Sabbadini, senza però il testo ebraico a fronte, «perché oggi è assai facile procurarsi – per chi lo desideri – il testo ebraico della Mishnà».[143]
I trattati pubblicati da Schreiber riportano, oltre alle note di Castiglioni, anche alcune note di Emilio Schreiber stesso, indicate dalle lettere E.S. Alcune volte sono brevi aggiunte o chiarimenti, altre volte lunghe digressioni, come ad esempio nel trattato Eduyot (ordine Neziqin), cap. 1, mishnà 5, in cui alla nota 25 Castiglioni fa un breve riferimento a una lettera di I.S. Reggio a S.D. Luzzatto e a una sua propria opinione riportata in Katuv Yosher, edito a Cracovia nel 1902. A completamento, Schreiber riporta in dettaglio le diverse opinioni di Reggio, Shadal e altri, per poi riferire, traducendola in italiano dall’ebraico o sintetizzandola, l’opinione di Castiglioni. Il tutto occupa una pagina e mezza di commento. Notevole è questo passaggio di Castiglioni, come tradotto da Schreiber:
E per ciò che spetta alla maggior sapienza dei giudici di un Sinedrio, riconoscere al certo che noi siamo dei pigmei rispetto agli antichi sapienti […] ma anche i nani sulle spalle dei giganti possono giungere ad ogni modo, ad una portata visuale maggiore dei giganti stessi. […] Ed è consono ancora alle esigenze della nostra Religione, che non preclude o proibisce di seguire passo a passo il Progresso evolutivo dell’Umanità, in tutti i rami della scienza e del pensiero.[144]
Schreiber aggiunse un’appendice di oltre trenta pagine al trattato Avot (detto anche Pirqè Avot), con «uno schema storico dell’Epoca e cenni biografici intorno ai dottori nominati nel presente Trattato»,[145] oltre a quattro pagine di note all’introduzione di Castiglioni allo stesso trattato.
La «leggenda nera»: la polemica sulla cremazione. La morte abbastanza inattesa del rabbino Castiglioni, avvenuta all’inizio di agosto del 1911, fu seguita da un vespaio di polemiche. Castiglioni, infatti, aveva lasciato detto di voler essere cremato, andando così contro la tradizione ebraica millenaria di sepoltura in terra. Da allora circola una sorta di «leggenda nera», come se con questa sua volontà finale Castiglioni avesse rovinato una limpida carriera rabbinica e di studioso. In vero, non si trattò di una decisione improvvisa, quasi un offuscamento della ragione all’ultimo momento. Castiglioni da anni aveva sostenuto la liceità di questa pratica, ne aveva scritto e ne aveva parlato pubblicamente. Alla fine dell’articolo commemorativo pubblicato dopo la sua morte su «La Settimana Israelitica», il giornale di Firenze dove scrivevano, fra gli altri, anche gli allora giovani Umberto Cassuto e Elia S. Artom, così si legge:
La sua morte lascia un gran vuoto nella Comunità romana e ha fatto sorgere un gran fuoco [!] di dibattiti per ciò che riguarda la cremazione o l’incalcinazione desiderata dal Castiglioni per la sua salma. Noi ricordiamo che la volontà della cremazione non fu nel Castiglioni idea dell’ultima ora; ma sua convinzione e decisione, discussa ed espressa da anni in pubblico come in privato. Anche lo scrittore di queste righe lo udì più volte affermare non essere la cremazione discordante dai dettami della religione israelitica e previde in lui questa estrema volontà, che non è certo ora il momento di giudicare o di apprezzare qui. Alla memoria del Castiglioni va oggi il saluto commosso e riverente di quanti sentono perduta in lui una volontà d’opere egregie e un eccellente nome israelita.[146]
Castiglioni non fu il primo rabbino ad approvare la cremazione. La polemica era sorta già da circa tre decenni, in particolare fra i rabbini italiani, perché proprio in Italia tale pratica per trattare i cadaveri si stava diffondendo.[147] A favore si era espresso il rabbino Moisè Tedeschi, che come abbiamo visto era stato vice-rabbino di Trieste e insegnante di Talmud di Castiglioni. Tedeschi aveva messo per iscritto il suo pensiero in un articolo in ebraico nell’anno 1886 e poi da lui stesso tradotto in italiano.[148] Il testo di Tedeschi fu poi pubblicato da Castiglioni su «Il Vessillo Israelitico» nel 1907[149], con aggiunta di un’introduzione, di lunghe e dettagliate note esplicative e anche alcune critiche su punti specifici, oltre a una postilla con le disposizioni vigenti nella comunità ebraica di Roma per i casi di cremazione. In generale, Castiglioni accetta la posizione dell’«Ecc.mo Rabbino e [suo] illustre maestro Moisè Tedeschi di b. m., uomo di profondissima dottrina biblica e talmudica, com’è dimostrato dalle molte pregevolissime opere da lui pubblicate; di principi severamente ortodossi, ma accessibilissimo ad ogni idea di prudente e logico progresso». Tedeschi motivava la legittimità della cremazione partendo da testi biblici, utilizzando anche argomentazioni che oggi appaiono un po’ assurde, ad esempio quella secondo cui la cremazione (che iniziava dai piedi) avrebbe potuto evitare la sepoltura di persone solo apparentemente morte: «Rivolti raggi cocenti alle piante dei piedi (parte del corpo sensibilissima)» si sarebbe infatti potuto «riscuotere prontamente a vita chi apparentemente fosse morto» senza peraltro causare loro grave danno, perché «le ustioni ai piedi, a chi ne fosse rifatto vivo, le si possono facilmente risanare».[150] Il testo di Tedeschi proseguiva poi ribattendo punto per punto a un testo contro la cremazione scritto dal rabbino Elia Benamozegh, Ya’anè ba’esh.[151]
Sul Vessillo seguì un lungo intervento di Rav Samuele Colombo, rabbino capo di Livorno e allievo di Rav Elia Benamozegh, scritto in realtà prima della pubblicazione di quello di Castiglioni sul Vessillo e aggiornato con una considerazione finale, in cui scriveva di aver fiducia nel:
caro collega Ecc.mo Rabbino Maggiore di Roma Cav. Prof. Vittorio Castiglioni della cui stima ed amicizia altamente mi onoro e sono sicuro che Egli non spregerà il valore intrinseco delle prove da me addotte contro la cremazione [… che] non può né deve, secondo la nostra religione, essere minimamente raccomandata né può avere, da parte nostra, la benché minima, sia pure indiretta, cooperazione.[152]
La posizione di Castiglioni era in parte diversa da quella di Tedeschi. Mentre questi sosteneva che la cremazione fosse addirittura obbligatoria, per Castiglioni si trattava di un sistema lecito, e forse raccomandabile, ma certamente non obbligatorio.[153] Tedeschi aveva lasciato scritto che i suoi ottimi «amici, eccellenti signori Giuseppe Servadio e Vittorio cav. Castiglioni» si adoperassero affinché il suo corpo fosse calcinato dopo la morte.[154] A Roma la cremazione era ammessa dalla normativa comunale e per questo la salma di Castiglioni potè essere cremata, come aveva lasciato detto nelle sue volontà (le ceneri furono poi portate a Trieste).[155] Vediamo quindi che per Castiglioni non si trattò di una decisione improvvisa e che, soprattutto, egli lo fece in omaggio agli insegnamenti ricevuti dal suo maestro. Questa scelta, però, se pur comprensibile dal punto di vista psicologico dei rapporti maestro-allievo, lasciò stupiti i colleghi rabbini italiani (e forse anche la popolazione ebraica di Roma[156]). Se poteva passare una considerazione teorica, non era però accettabile che la decisione venisse messa in atto.
La solenne commemorazione funebre del rabbino Castiglioni al trigesimo dalla tumulazione delle ceneri, il 4 settembre 1911, fu tenuta al Tempio Maggiore di Roma da Rav Samuele Colombo, scelta non casuale. Era stato proprio questo rabbino a dissentire con Castiglioni, ma – come aveva scritto – ne era anche un sincero amico ed estimatore. Rav Colombo, in un lungo discorso funebre, di una trentina di pagine stampate, descrive la vita, le opere e la personalità dell’illustre rabbino scomparso, con parole sincere e commosse. Parlando nel Tempio al pubblico e alla famiglia di Castiglioni, dice che proprio a lui è toccato il «compito doloroso» del discorso funebre:
A me che tutt’altro mi ripromettevo, a me che sognavo di venire in questa Roma e in questa casa di Dio per gustare con voi l’ineffabile piacer d’udir, da questa Cattedra, predicare il vostro Pastore e di passar con lui le ore più belle in un conversare reso istruttivo dalla esperienza che egli avea della vita e reso così attraente da quella grazia speciale che egli sapeva mettere in ogni suo discorso; a me che nella ultima lettera direttami, egli avea espresso l’augurio e il desiderio di rivederci presto.[157]
Colombo descrive poi le tappe principali della vita di Castiglioni e le sue opere. Parla del rabbino appena defunto come di «un uomo che a 53 anni, quando gli altri, sentendosi invecchiare, riguardano e riordinano il passato […] si sente così vigoroso da mirare all’avvenire, con fede veramente giovanile, e da accingersi a un lavoro di lunga lena, quello della traduzione e illustrazione della Mishnà»; un uomo che
a 63 anni, l’età in cui, al dir di Dante, “ciascun dovrebbe / calar le vele e raccoglier le sarte” (Inf. XXVII, 80, 81), […] si sente invece tanto pieno di forze e di spirito che, vagheggiando nuovi ideali, fa ciò che si addice soltanto ai forti e sicuri di se stessi: aspira, col migliore dei resultati, a diventar capo spirituale di una grande Comunità religiosa e voi sapete di quale; della vostra!
Un uomo che vuole entrare «in un periodo di febbrile e intelligente attività colla quale ridona l’essere e la vita religiosa alla Comunità che a Lui volentieri si è data e che Lui ormai guarda siccome padre», una Comunità che è
in un momento in cui, più che ad ogni altra, occorre a lei una mano vigorosa e sapiente che ne regga le sorti e ponga ordine laddove manca e col consiglio e con l’azione la renda degna, sotto ogni rispetto, della grande città in cui ha sede. A tanta aspettativa risponde adeguato e superiore il Castiglioni.
Rav Colombo analizza poi il legame di Castiglioni con l’insegnamento «del suo grande concittadino Samuel David Luzzatto la cui fama empie giustamente di sé tutto il mondo dei dotti e degli studiosi, quando il nostro Vittorio, appena giovane studente, ne beve assetato la dottrina dalla bocca dei discepoli» e per cui «il nostro Castiglioni sente qualche cosa di più che una grande stima e un grande affetto; sente quel che si dice una profonda ammirazione e un amore veramente filiale!». Colombo ricorda anche in dettaglio la raccolta poetica Nizmè ha-Zahav scritta da Castiglioni, «un’opera in cui, meglio che in ogni altra, il nostro Dottore» ci presenta «il suo ritratto fedele e il suo infinito amore per la nostra Religione e per Dio che l’ha rivelata», ed elenca il contenuto dei 126 sonetti dedicati ai suoi maestri, familiari, amici, eventi, sinagoghe, ricorrenze, meraviglie della natura e a Dio stesso.[158]
Dopo ventidue pagine di elogi sinceri e affettuosi della figura di Rav Castiglioni, Rav Colombo si avvia alla conclusione, in cui non può non parlare di alcune azioni erronee del rabbino che sta commemorando:
Sì! Perché qualche volta potea darsi, e si è infatti dato, che egli s’ingannasse, s’ingannasse anche in qualche concetto dell’Ebraismo e in qualche interpretazione della sua Legge.
Non vi dispiaccia che, del nostro amatissimo Castiglioni, pur celebrandone la grandezza e la virtù, si parli anche di qualche errore in cui ebbe a cadere. […] Con mio grande e vivo dolore, che fa sentir cento volte più acerbo il dolore per la sua morte, si dà che il nostro Dottore, indotto dagli insegnamenti, in proposito, del maestro suo Marco [sic, in realtà si trattava di Moisè] Tedeschi, s’inganni fatalmente in una questione di vitale importanza, prendendo per verità ciò che tale non è, e, dettando le sue ultime volontà, lasci detto, in modo irrevocabile, che il corpo suo venga cremato!
Non sarà certo discaro a quello spirito rettissimo, ora ch’ei si trova nel mondo di verità che, quel che già ebbi a dichiarargli in vita, io gli ripeta qui, da questo sacro Luogo, dove si adora e dove egli stesso ha servito, con zelo e intelletto di amore, il Dio di verità: Nel proclamare ebraico il trattamento della cremazione e nel dare, nella storia tre volte millenaria del nostro popolo, il primo e unico esempio di un Rabbino che adotta questo metodo di trattare i morti, egli evidentemente s’inganna; egli, in quel momento e su quel punto, si allontana dal vero spirito dell’Ebraismo e della sua Legge e non se ne avvede!
Ma, anche ingannandosi, anche chiamando ebraico quello che ebraico non è mai stato, anche sostituendo una forza violenta alle forze della Natura, anche allora egli crede in buona fede di essere in pieno Ebraismo, di servire Iddio e di bene interpretare la sua Legge. Sia dunque resa giustizia alla purità delle sue intenzioni.
Rav Colombo propone anche «una considerazione ragionevole», ossia che le disposizioni di Rav Castiglioni, datando a oltre trenta anni prima, quando era «lontanissimo dall’essere a capo di una Comunità religiosa», possano non aver più corrisposto al suo pensiero dell’ultima ora. E chi potrà mai provare che Castiglioni
in uno di quei momenti solenni che hanno soltanto le grandi coscienze, in uno dei momenti estremi della sua vita, […] quando tutta la verità gli si rivelò direttamente, non siasi ricreduto e tale dichiarazione non abbia, nella lingua del cuore e della mente, espresso, in modo esplicito, al Giudice supremo?
Per questo Colombo ha fede che «Iddio Giusto e Onnisapiente, tenendo conto di tutto il bene che Vittorio Castiglioni ha compiuto in questo mondo, […] cancelli un errore che, per quanto grande, è stato commesso colle migliori intenzioni e accolga nelle sua braccia T anima buona di Lui». Colombo conclude citando un passo «notevolissimo» dal Pe’er ha-Adam, un’opera in cui Castiglioni affrontava la teoria dell’evoluzione di Darwin,[159] un passo «che riassume in sé tutta la vita, tutta l’idealità delle aspirazioni, tutta insomma la purezza dell’anima sua»:
E tu, al pari di me, credente figlio di credenti, puoi facilmente capire se v’è un fondamento al mio argomentare. Se poi ho errato scusami e lascia ch’io solo sia responsabile del mio errore. Iddio che conosce l’interno umano mi perdonerà, perché non per superbia né per vanagloria ho sempre aspirato alle cose più grandi e più difficili rispetto a me, ma per il profondo amore che ho sempre seguito verso la nostra santa e perfetta Religione!
Se le parole del rabbino Samuele Colombo sono dettate da sincera partecipazione umana alla figura del rabbino Castiglioni e alla conclusione della sua vita, chi più attaccò Castiglioni post mortem (se pur senza nominarlo) fu Rav Margulies, che pochi giorni dopo il funerale così scrisse al Direttore della «Settimana Israelitica»:
A proposito di un caso recentissimo che desterà certo un senso di doloroso stupore in tutto il mondo ebraico […]. Ormai tutti gli autorevoli Rabbini del mondo, anche i più liberali, sono d’accordo nel ritenere la cremazione per contraria ai nostri sacri Riti e alle nostre tradizioni religiose. In questo senso si sono ripetutamente pronunciati non solo i più dotti Rabbini tedeschi, ma anche la grande maggioranza dei Rabbini italiani (v. Il Vessillo Israelitico, XXIII, 11 seg.) e perfino il compianto liberalissimo Gran Rabbino di Francia, Zadok Kahn (ivi XLIII, 393 seg.). Il testé defunto Chief Rabbi della Gran Bretagna, dott. Adler di f. m. dichiarò la cremazione «una violazione delle leggi e dei costumi ebraici» (ivi). Io stesso, alcuni anni or sono, ebbi a dimostrare da un passo del Talmud Yemshalmì la religiosa inammissibilità della cremazione (Rivista Israelitica, II, 6, n.l) […]. Checché dunque altri ne abbia pensato e detto, è fuori d’ogni dubbio che l’uso pagano della cremazione è assolutamente inconciliabile coi principii e colle tradizioni dell’Ebraismo.[160]
Parole più chiare non potevano essere scritte. Secondo Margulies, non sono solo da condannare le considerazioni teoriche a favore della cremazione, ma anche la decisione di metterla in pratica andando contro il consenso della maggior parte dei rabbini d’Italia e del mondo. Sulla stessa linea di Margulies si espresse un suo allievo, il rabbino Friedenthal, che da Gorizia scrisse al «Vessillo Israelitico» una lunga lettera in cui, pur sottolineando la grandezza, l’energia, l’intelligenza, la capacità intellettuale e le doti morali del rabbino Castiglioni, non può non dire che «la sua ultima disposizione fu un grave sbaglio, ed è necessario rilevarlo pubblicamente, per preservare altri da simili errori».[161]
Per tornare alla domanda che abbiamo posto all’inizio di questa sezione, ossia come mai rispetto al suo successore, Rav Angelo Sacerdoti, il rabbino Castiglioni non abbia lasciato quasi traccia del suo rabbinato a Roma (e solo le sue opere scritte, in particolare la Mishnà in italiano, sono rimaste a sua memoria), è possibile forse dire che ciò fu dovuto anche a questa conclusione inaspettata della sua vita, che lasciò sgomenti i colleghi rabbini e la popolazione ebraica, almeno quella parte più attaccata alla tradizione.
La nomina del successore di Castiglioni. Lo stesso anno della morte di Castiglioni la Comunità di Roma, guidata dell’efficiente presidente Avv. Angelo Sereni, si mise alla ricerca di un nuovo rabbino, bandendo un concorso internazionale, analogo a quello bandito in precedenza. Come a quello, anche a questo si presentarono numerosi concorrenti, italiani e stranieri. In questo caso, la tema rabbinica prescelta fu tutta italiana: Augusto Hasdà (livornese, rabbino di Pisa), Dante Lattes (nato a Pitigliano ma proveniente da Trieste)[162] e Angelo Sacerdoti (nato a Firenze, rabbino di Reggio Emilia). In data 17 marzo 1912 (neanche un anno dalla morte di Castiglioni: «È anche questo un sintomo dei cambiamenti in atto nella vita della comunità»[163]) la commissione per la cattedra rabbinica riferì al Consiglio generale della comunità, che poi votò. Fu prescelto Sacerdoti, che ricevette 27 voti, a fronte di 2 per Dante Lattes e 2 schede bianche. Come da prassi, il voto del consiglio fu poi ratificato dalla comunità il 31 marzo. Da notare che all’atto dell’invio della documentazione per il concorso, il giovane Sacerdoti, neanche ventiseienne, non aveva ancora ricevuto la semikhà (diploma di Rabbino Maggiore), ma solo il titolo rabbinico intermedio di chaver, come Sacerdoti stesso scrive in una lettera al presidente della Comunità di Roma Angelo Sereni del 15.1.1912.[164] Nella stessa lettera Sacerdoti afferma di stare «preparando i rimanenti esami» per il conseguimento del titolo di Rabbino Maggiore che potrà terminare «nel giro di pochi mesi» e propone, «qualora la scelta dovesse cadere sulla [sua] persona», di «accettare la Reggenza temporanea della carica di Rabbino Maggiore per un periodo di prova, almeno finché [avesse] conseguito il titolo di Rabbino Maggiore» (sottolineatura nell’originale). Invece, gli esami per il titolo superiore si svolsero al Collegio Rabbinico Italiano a Firenze il mese dopo, in data 19-21 febbraio 1912: si può immaginare che la Comunità di Roma volesse arrivare a una decisione definitiva il prima possibile, senza periodi di prova e senza possibilità di ricorsi da parte di concorrenti esclusi. Per questo chiese di accelerare i tempi, e gli esami si tennero prima della convocazione dell’assemblea del Consiglio. Pochi giorni dopo l’esame, il 4.3.1912, Rav Margulies spedì a Sereni una lettera super-elogiativa del suo allievo Sacerdoti, raccomandandolo vivamente alla carica di rabbino capo di Roma.[165]
Quando fu nominato, Sacerdoti non era ancora sposato e il Consiglio (o più probabilmente Angelo Sereni stesso) mise come condizione alla sua nomina che si fidanzasse entro tre mesi dal suo arrivo a Roma. Rav Sacerdoti si insediò, con una grande cerimonia ufficiale, il 29 giugno 1912 (era un sabato!) e il 29 ottobre 1913 si sposò con Gina Zevi: il matrimonio fu celebrato dal suo maestro Margulies, Rabbino Maggiore di Firenze, città natale di Sacerdoti, nonché Direttore del Collegio Rabbinico.[166]
La nomina di Sacerdoti è certamente indicativa di un diverso atteggiamento da parte del consiglio della Comunità ebraica di Roma. Gli ultimi due rabbini scelti a guidare la comunità di Roma prima di lui erano entrambi di età elevata quando assunsero l’incarico, Ehrenreich 71 anni, Castiglioni 62. Sacerdoti era invece un giovane di 26 anni. Inoltre, era allievo di Margulies, il rabbino con cui Castiglioni si scontrò maggiormente negli ultimi anni della sua vita (e anche dopo). E probabilmente anche Dante Lattes scontò le polemiche passate con Margulies, di cui abbiamo parlato sopra. Margulies era infatti diventato il rabbino con maggiore influenza in Italia e presumibilmente non si volevano ulteriori conflitti. A favore di Castiglioni, però, si deve dire che la sua produzione di libri, articoli e scritti vari è incomparabilmente superiore a quella di Sacerdoti (e lo stesso dicasi per Dante Lattes, il rabbino più prolifico dal punto di vista letterario del Novecento). Castiglioni scrisse la maggior parte dei suoi lavori prima di diventare rabbino capo di Roma, poi ebbe poco tempo e forze a disposizione.[167] Sacerdoti, subito catapultato nell’incarico certamente impegnativo di condurre la numerosa comunità ebraica della capitale d’Italia, quasi non poté dedicarsi ad altro.
Rav Sacerdoti morì prematuramente all’età di 49 anni, nel 1935. Nonostante ciò, riuscì a essere rabbino capo di Roma per 23 anni, un tempo considerevole, che, unitamente alle sue doti e al particolare periodo in cui fu rabbino di Roma (la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo), fece sì che si sia potuto dire che l’arrivo di Sacerdoti fu «uno di quegli eventi che aiutano a distinguere un’epoca dall’altra, sia perché cadde in un momento di grandi trasformazioni, sia perché portò una ventata di efficienza e di iniziativa che rinforzò nettamente i timidi segnali di ripresa in atto dall’inizio del secolo nella vita della comunità» e che «Sacerdoti fu una vera colonna portante della comunità romana e dell’ebraismo italiano (suggeriva anche visivamente questa immagine per la sua mole considerevole)».[168] La lapide sulla sua tomba interpreta bene questo giudizio: «Nella pace del Signore riposa l’anima eletta di Angelo Sacerdoti, Rabbino capo degli Israeliti di Roma, Direttore del Collegio Rabbinico Italiano, per gli ebrei tutti d’Italia Maestro sapiente, guida sicura animatore incomparabile per i fratelli lontani nel vasto mondo…». La scuola media ebraica di Roma è intitolata alla sua memoria, unico rabbino cui è dedicata una qualche istituzione ebraica romana.
A Roma si racconta che se Sacerdoti fosse stato ancora vivo, grazie anche alla conoscenza personale con Mussolini,[169] forse le leggi razziste del 1938 non sarebbero state emanate, o almeno sarebbero state meno terribili. Ma come è noto, la storia non si fa con i se.
[1] S. Della Pergola, La popolazione ebraica in Italia nel contesto ebraico globale, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Gli ebrei in Italia, Torino, Einaudi 1997, Annali, 11, 2, pp. 895-936, e in questo volume: Id., La via italiana all’ebraismo: una prospettiva globale. Nella cifra indicata non si tiene conto di quegli ebrei che non sono formalmente iscritti alla comunità.
[2]Per «laico» qui e di seguito non si intende «non osservante» o «non credente», ma «non facente parte del corpo religioso».
[3]Nei casi in cui il presidente è, o è stato, molti decenni in carica, ha assunto in effetti una notevole influenza all’interno della comunità.
[4]Per semikhà si intende l’atto di imporre le mani in testa, che chi è già rabbino fa nei confronti del candidato, un modo simbolico per mostrare pubblicamente che il candidato è diventato rabbino. A volte semikhà si traduce con «ordinazione» o «investitura», anche se non c’è alcuna analogia con l’ordinazione sacerdotale dei preti cattolici. Oggi si traduce in genere con «laurea rabbinica».
[5]Su «Il Vessillo Israelitico» e sul suo direttore, e in generale sulla stampa ebraica dell’epoca, vedi i giudizi molto critici (forse eccessivamente) di A. Milano, Un secolo di stampa ebraica in Italia, «La Rassegna Mensile di Israel» volume di scritti in onore di Dante Lattes (1938), pp. 96-136; A. Segre, Memorie di vita ebraica, Casale Monferrato, Roma, Gerusalemme, 1918-1960, Roma, Bonacci 1979, pp. 99-103. Tali giudizi critici sono stati ridimensionati da Bruno Di Porto, Il giornalismo ebraico in Italia. Un primo sguardo d’insieme al «Vessillo Israelitico», «Materia Giudaica» VI, 1 (2001), pp. 104-109 (dove però la notizia secondo cui Flaminio Servi fu studente del Collegio Rabbinico Italiano di Padova non risponde alla documentazione nota), e Id., «Il Vessillo Israelitico». Un vessillo ai venti di un’epoca tra Otto e Novecento, «Materia Giudaica» VII, 2 (2002), pp. 349-383. Vedi anche anche B. Maida, Dal ghetto alla città, Torino, Zamorani 2001, pp. 290-291. Tutti sono comunque d’accordo sul grande valore che queste riviste hanno per gli studi storici, per conoscere e capire le persone, i fatti, le idee e i sentimenti dell’ebraismo dell’epoca. Nel seguito faremo ampio uso di citazioni dai giornali ebraici dei secoli scorsi.
[6]Rab. F. Servi, Sui titoli rabbinici, in «L’Educatore Israelita. Giornale Mensile per la Storia e lo Spirito del Giudaismo», compilato dai Professori Levi Giuseppe ed Esdra Pontremoli, Anno XVI, Vercelli 1868, pp. 54-55.
[7]Ivi, pp. 109-112. Una nota della Direzione del giornale scrive alla conclusione di questa puntata dell’articolo, in fondo alla p. 112: «È tanta la nobiltà de’ pensieri e l’eloquenza del nostro bravo collaboratore, che solo con grande esitazione ci induciamo a confessare che ci sembra troppo esigente. Aspettiamo con desiderio il seguito».
[8]Ivi, pp. 201-202.
[9]Ivi, pp. 202-203; Ivi, 1866, XIV, p 361; «Il Vessillo Israelitico» LVIII (1910), pp. 303-305 e 402; M. Del Bianco Cotrozzi, Il Collegio rabbinico di Padova, Un’istituzione religiosa dell’ebraismo sulla via dell’emancipazione, Firenze, Leo Olschki editore 1995, pp. 169-172; R. Di Segni, I programmi di studio della scuola rabbinica italiana (1829-1999), «La Rassegna Mensile di Israel» LXV (1999), pp. 15-40 e in part. pp. 24-25. Abbiamo qui usato la traslitterazione moderna; nell’articolo di Servi del 1868 i diversi titoli sono traslitterati così: Haver, Haham, Morenu, Maschil, Haham ammorè, Morenu arab. Vedi inoltre, con maggiore dettaglio, in questo volume A.M. Piattelli, Repertorio biografico dei Rabbini d’Italia dal 1861 al 2011.
[10]F. Servi, Sui titoli rabbinici, «L’Educatore Israelita» XVI (1868), p. 203. La dizione Moreno è quella comunemente attestata in giudeo-italiano, comune fino a oggi.
[11]Ibidem. Sulla formazione rabbinica svolta privatamente, vedi M. Momigliano, Autobiografia di un Rabbino italiano, Palermo, Sellerio 1986, in part. pp. 15-25 (originalmente pubblicato nel 1897) e Segre, Memorie di vita ebraica, cit., pp. 46-75.
[12]F. Servi, Sui titoli rabbinici, «L’Educatore Israelita» XVI (1868), p. 204.
[13]Ibidem.
[14]Ivi, pp. 204-205.
[15]Ivi, 1866, XIV, p. 277.
[16]A parte la fondamentale monografia di più di 400 pagine di Del Bianco Cotrozzi, Il Collegio, cit., fra i tanti altri studi segnaliamo: Ead., Il Collegio rabbinico di Padova: la sua istituzione ed il suo influsso sulla cultura ebraica, «La Rassegna Mensile di Israel» LVII, 3 (1991), pp. 359-380; G. Castelbolognesi, Il centenario del Collegio Rabbinico di Padova, «La Rassegna Mensile di Israel» V, 5-6 (1930), pp. 314-322; N. Pavoncello, Il Collegio Rabbinico Italiano, Roma, Tipografia Sabbadini 1961; Di Segni, I programmi di studio, cit.; Sh.R. Di Segni, Moshè David Cassuto e il Collegio rabbinico italiano secondo i dati delle relazioni del Collegio, in Umberto (Moshe David) Cassuto, R. Bonfil (a cura di), Italia-Studi e ricerche sulla storia, la cultura e la letteratura degli ebrei d’Italia, Jerusalem 2007 (in ebr.).
[17]Pavoncello, Il Collegio, cit.
[18]I due precedenti direttori sono stati Rav Elio Toaff negli anni 1963-1992 e Rav Giuseppe Laras negli anni 1992-1999.
[19]Che la scuola segua il proprio maestro è documentato già nel Talmud (Makkot 10a). L’espressione galuyot è usata da Di Segni in Moshè David Cassuto, cit.
[20]Sull’importante figura di Cantoni, vedi I. Luzzatto, Catalogo ragionato degli scritti sparsi di S.D. Luzzatto, Padova, Tip. F. Sacchetto 1881, pp. 380-393; G. Luzzatto Voghera, Il prezzo dell’uguaglianza, Milano, Franco Angeli 1997, pp. 147-155; Maida, Dal ghetto, cit., pp. 205-207. I due rabbini laureatisi con Cantoni erano Salomone Jona, che sarebbe diventato Rav di Modena e poi morì a Roma nel 1904, poco tempo dopo aver benedetto Vittorio Castiglioni, eletto alla cattedra rabbinica di Roma, e Rav Salomone Debenedetti (o De Benedetti), Rav di Napoli; vedi Piattelli, Repertorio, cit.
[21]Fondato nel 1829 (come il Collegio di Padova!), attivo fino al 1909, diretto dai rabbini Felice Tedeschi (fino al 1836), Giuseppe Raffael Levi e Isacco Cingoli. Vedi R. Bottini Treves, Nascita di un’istituzione culturale vercellese. Il Collegio Foa, «Bollettino Storico Vercellese» 42 (1994), pp. 99-144; M.L. Giribaldi Sardi, Scuola e vita nella comunità ebraica di Asti (1800-1930), Torino, Rosenberg & Sellier 1993.
[22]Cit. in Del Bianco, Il Collegio, cit., 1995, p. 331. Su M. Mortara, vedi Piattelli, Repertorio, cit. e il Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, in corso di pubblicazione, sub voce redatta da M. Cassuto Morselli.
[23]F. Servi, Sopra un Collegio rabbinico in Italia, Considerazioni e proposte, «L’Educatore Israelita» XIV (1866), pp. 278-279.
[24]M. Toscano, Risorgimento ed ebrei: alcune riflessioni sulla “nazionalizzazione parallela”, «La Rassegna Mensile di Israel» LXIV, 1 (1999), p. 69.
[25]Ibidem.
[26]Del Bianco, Il Collegio, cit., p. 118; per tutta la fase istitutiva, vedi pp. 109- 142. A p. 137 è riportato il testo della lapide collocata nell’Istituto: «Al magnanimo Imperatore e Re / Francesco I / de’ suoi sudditi tutti / giusto sapiente provvido padre / dell’Istituto rabbinico patavino / motore e auspice / i Lombardo-Veneti israeliti / riconoscenti / perché di tanto benefizio / perpetua duri memoria / questo marmo eressero / MDCCCXXIX».
[27]Servi, Sopra un Collegio, cit., pp. 279-280. Vedi Piattelli, Repertorio, cit. le voci su Shadal e Della Torre per una bibliografia essenziale.
[28]Ibidem. Vedi anche Del Bianco, Il Collegio, cit., pp. 143-172, 197-216 e, per una descrizione dei programmi e delle modalità d’esame, pp. 149-160. Per un’analisi comparativa dei programmi e dei requisiti di ammissione e conferimento dei titoli nei diversi collegi rabbinici nelle loro varie fasi, vedi Di Segni, I programmi di studio, cit.
[29]Servi, Sopra un Collegio, cit., pp. 358-359.
[30]Del Bianco, Il Collegio, cit., p. 298; un’approfondita e dettagliata ricostruzione dell’ultima fase del Collegio di Padova si trova alle p. 258-322. Vedi anche Luzzatto Voghera, Il prezzo dell’uguaglianza, cit., p. 140-155, in part. p. 149.
[31]Del Bianco, Il Collegio, cit., p. 298.
[32]R. Prato, Cenni storici sul Collegio rabbinico, p. 9; cit. anche in Pavoncello, Il collegio, cit., p. 6.
[33]Vedi Piattelli, Repertorio, cit. e Del Bianco, Il Collegio, cit., pp. 237-242.
[34]Dai documenti dell’epoca, ivi, p. 333.
[35]Tratto dalla lettera indirizzata dal presidente del Consiglio d’Amministrazione del Collegio Rabbinico Italiano, cav. Raffaello Prato, al presidente della Comunità di Roma, pubblicata anche ne «Il Vessillo Israelitico» L (1902), pp. 223-227. Sulla situazione del Collegio a Roma, vedere anche gli articoli pubblicati alcuni anni prima ne «Il Vessillo Israelitico» (XLV), pp. 155-157, dove in una corrispondenza del 12 maggio 1897 sull’argomento una nota editoriale scrive: «L’egregio D.r Cavaliere [Benedetto] Zevi – come valente sanitario, come dotto rabbino e come Direttore – saprà, speriamo, insieme a tanti benemeriti onde non difetta la Com. di Roma, infondere un po’ di vita in quel corpo anemico»; vedi anche ivi, pp. 173-174; 212-215; 275; 282-285; 367-368.
[36]Ivi, L (1902), pp. 223-227.
[37]Ibidem. Vedi anche Pavoncello, Il Collegio, cit., pp. 7-10.
[38]Per tutte queste importanti figure dell’ebraismo italiano del secolo scorso vedi Piattelli, Repertorio, cit.
[39]Anche alcuni rabbini furono richiamati, servendo come cappellani militari: vedi M. Toscano, Religione, patriottismo, sionismo: il rabbinato militare nell’Italia della Grande Guerra (1915-1918), «Zakhor» 8 (2005), pp. 77-133.
[40]Come Beniamino Grunwald z.l., mio prozio materno; cfr. Di Segni, Moshè David Cassuto, cit., p. 86 e 91. Ne «Il Corriere Israelitico» XLVIII (1909), pp. 112-113, è riportata questa notizia: «Il carissimo giovane Beniamino dell’ottimo prof. Vittorio Grunwald, compiuti onorevolmente gli studi liceali, si è inscritto al Collegio Rabbinico di Firenze. Gli auguriamo di divenire un dotto e zelante pastore in Israele». Il giovane tenente Beniamino morì in guerra il 18.8.1916 ed è ricordato nella lapide ai caduti nel ghetto di Venezia e al Cimitero ebraico del Lido.
[41]Dante Lattes (Pitigliano 1876 – Dolo, pr. di Venezia, 1965), sarebbe diventato una delle più importanti personalità ebraiche del ’900. Sulla sua multiforme e complessa figura vedi G. Luzzatto Voghera in Dizionario Biografico degli Italiani, s.v.; Id., La formazione culturale di Dante Lattes, in D. Bidussa, A. Luzzatto, G. Luzzatto Voghera, Oltre il Ghetto. Momenti e figure della cultura ebraica in Italia tra l’Unità e il fascismo, Brescia, Morcelliana 1992, pp. 17-95; Id., Dante Lattes: Ebraismo, nazione e modernità prima della Grande Guerra (1898-1914), «Bailamme» VIII, 90, pp. 113-138.
[42]«Il Corriere Israelitico» XXXVIII, 1 (1899), pp. 53-56 (le annate del Corriere non corrispondono agli anni civili, iniziando a maggio di ogni anno). Corsivi nell’originale. Da notare l’uso di termini derivati dal darwinismo. In un articolo dell’anno 1902, XL, pp. 82-84 viene detto esplicitamente: «Il darwinismo della selezione lo vogliamo col darwinismo della lotta aperta per la vita rabbinica…». Una decina d’anni dopo intervennero altri rabbini, come il rabbino A. Zammatto da Padova, che scrisse che riteneva «fermamente irrito e nullo» quel titolo che venisse «conferito da Rabbini esteri, molte volte assomiglianti ad avoltoi più che non a colombi viaggiatori, i quali hanno la spudoratezza di compensare in tal guisa quelli che servono loro di guida nel girare e battere alle porte altrui, per scopi non esenti dal loro interesse pecuniario personale». «Il Vessillo Israelitico» LVIII (1910), p. 402; vedi anche ivi, LII (1904), pp. 325-328.
[43]Ivi, 12 (XLV), pp. 386-388. Dante Lattes rievocò la campagna del «Corriere» sul confronto fra rabbini italiani e stranieri e sulla condizione del rabbinato italiano nel numero speciale del giornale «Israel», nato dalla fusione del «Corriere Israelitico» e dalla «Settimana Israelitica», dedicato al centenario del «Corriere» XLVII, 31 (17 maggio 1961), pp. 3-6, dove, pur definendo infruttuose quelle battaglie, nondimeno ne ribadisce l’attualità: «Par di sentire, nello stile dell’epoca, la voce del rabbino Bonfil da quella Milano stessa da cui risuonava sessanta anni fa la voce del rabbino Da Fano. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole».
[44]Vedi supra le citazioni dall’«Educatore Israelita». Che i due maggiori rabbini- giornalisti, rispettivamente dell’Ottocento e del Novecento, fossero entrambi nati a Pitigliano potrebbe non essere una semplice coincidenza.
[45]«Il Corriere Israelitico» XXXVIII, 1 (1899), pp. 77-78.
[46]Vedi Piattelli, Repertorio, cit.
[47]Ivi, pp- 75-77. Corsivi nell’originale.
[48]Per ebrei tedeschi qui si intende ashkenaziti, ossia gli ebrei dell’Europa centrale e orientale.
[49]Ivi, pp. 99-101.
[50]Ivi, pp. 132-134. Vedi anche ivi, pp. 152-153, dove Margulies è accusato di pitagorismo. Successivamente assistiamo invece a un affievolimento del dissidio: vedi ivi, XXXIX (1901), pp. 249-250, dove si augura «al Collegio fiorentino una vita prospera e lunga e tali resultati da rialzare la dignità del Rabbinato ed il sentimento religioso».
[51]Ivi, pp. 261-211. A Roma alla fine verrà scelto il rabbino triestino Castiglioni, italiano anche se formalmente straniero, ma prima di lui furono in effetti presi in considerazione rabbini tedeschi. Vedi oltre nel testo la sezione dedicata alla figura e alla nomina di Castiglioni.
[52]In realtà proprio a Roma c’era stato, prima di Castiglioni, il rabbino ashkenazita Mosè Ehrenreich, anche se già da giovane era arrivato a Padova (allora parte dell’Impero austro-ungarico) per studiare al Collegio Rabbinico sotto la guida di Shadal; vedi Piattelli, Repertorio, cit.
[53]Ivi, 1902, XL, pp. 32-33. Vedi oltre riguardo all’elezione del rabbino Angelo Sacerdoti alla nota 168.
[54]Alcuni anni dopo Elbogen, grande sapiente e storico della preghiera ebraica, diventerà uno dei leader dei riformati in Germania e poi, dopo il 1938, negli Stati Uniti: a riprova che non sempre la sapienza e l’erudizione vanno d’accordo con l’attaccamento alla Halakhà. Dante Lattes, forse inconsapevolmente (non sappiamo se avesse conosciuto personalmente Elbogen), aveva avuto ragione, dal punto di vista dell’ebraismo ortodosso, a prendere le distanze dal «dottore tedesco».
[55]Ivi, pp. 80-84.
[56]Ivi, pp. 102-103.
[57]Ivi, pp. 103-104.
[58]Ibidem.
[59]Ivi, pp. 106-108. Sugli studi a Livorno, i rabbini Alfredo Toaff e Roberto Menasci scrissero una lettera a Dante Lattes per chiedergli di pubblicare nel suo «accreditato periodico, un fatto che a te risulta in modo positivo per aver studiato durante molti anni, e con grandissimo profitto, alla stessa scuola di Livorno [… ossia] che fino almeno dal 1885, fin da quando cioè il grande nostro Elia Benamozegh di v. m. fu chiamato a profondere i suoi lumi a questa scuola, si cominciarono da noi ad apprezzare, nel loro giusto valore, gli studi scientifici che intorno all’Ebraismo sono in fiore in Germania, in Inghilterra e nella lontana America. Tu sai che questa è la pura verità alla quale vorrai, autorevole, far fede per il primo» (ivi, XLVI (1908), p. 364). La parola giusto, in corsivo nell’originale, potrebbe forse voler dire che tali studi scientifici sono sì importanti, ma da non sopravvalutare.
[60]Ivi, p. 114. Puntini di sospensione nell’originale. Vedi anche l’articolo del rabbino maggiore A. Da Fano, ivi, pp. 122-124 e p. 66.
[61]Ivi, XLI (1902), pp. 158-159. Chajes sarebbe poi diventato rabbino capo di Trieste e in seguito rabbino capo di Vienna. Vedi Piattelli, Repertorio, cit.
[62]Ivi, XLVIII (1909), pp. 61-64. Vedi anche i successivi interventi di U. Brettholz (vice-rabbino di Trieste) a difesa di Margulies e della scelta di Rosenberg (senza peraltro conoscerlo personalmente), in cui rimprovera a D. Lattes di introdurre una differenza artificiale fra i rabbini tedeschi e quegli italiani, e la replica di D. Lattes che mette in discussione la preparazione di Rosenberg, il quale non mostra molto di più di una «pompa improduttiva d’un’erudizione benedettina anzi tedesca», ivi, pp. 85-88. Vedi anche alle pp. 108-109; 125-128. Il diploma di laurea rabbinica di Rosenberg, firmato niente meno che dai famosi rabbini Dr. David Hoffmann, rettore del Seminario rabbinico di Berlino, e Prof. Dr. A. Berliner, autore di numerose pubblicazioni, fra cui una storia degli ebrei a Roma, fu pubblicato dal «Vessillo Israelitico» LVII (1909), pp. 481-482, che intervenne sulla polemica anche con altri articoli: LUI (1905), pp. 19-20, 72-74.
[63]Ivi, LII (1904), pp. 525-526. Contrari furono i rabbini Mortara, Benamozegh, Da Fano e altri.
[64]Ivi, pp. 525-527.
[65]Ivi, LIII (1905), pp. 150-151.
[66]Il me’il è il manto che avvolge il Sefer Torà, in uso presso le comunità europee; il tiq è una custodia rigida in uso presso le comunità sefardite orientali e nord-africane.
[67]«Il Corriere Israelitico» XLIII (1905), pp. 281-286.
[68]Ivi, pp. 314-319.
[69]Ivi, pp. 341-344.
[70]Ivi, XLIV (1905), pp. 7-9; vedi anche XLVII (1908), pp. 97-98; 129-132; 200-202.
[71]«Il Vessillo Israelitico» LUI (1905), p. 150-151 e 212-213.
[72]«La Settimana Israelitica», anno I, 26.2.1910, 5.3.1910, 25.3.1910, 8.4.1910 e 29.4.1910; «Il Vessillo Israelitico», LVIII (1910), pp. 177-181.
[73]Ibidem. Notare l’allusione alle parole dello Shema’ Israel. Parole simili venivano scritte sul Corriere che auspicava di «vedere i due Collegi rabbinici d’Italia muovere, anche per diverse vie, ma fraternamente, verso l’unica meta ch’essi devon proporsi: la conoscenza e la difesa del pensiero giudaico. Per compiere questa strada, essi dovrebbero stendersi amichevolmente le braccia», «Il Corriere Israelitico» XLVI (1908), p. 364.
[74]Ivi, pp. 319-321.
[75]Sul Collegio di Livorno, vedi A.S. Toaff, Il Collegio Rabbinico di Livorno, «La Rassegna Mensile di Israel» II serie, XII, 7-8 (1938), volume speciale in onore di Dante Lattes, pp. 184-195, ripubblicato anche in Annuario di Studi Ebraici, Roma, Collegio Rabbinico Italiano, Poligrafica Sabbadini 1980. Sulle polemiche riguardo alla fusione dei due Collegi rabbinici, vedi E. Toaff, La rinascita spirituale degli ebrei italiani nei primi decenni del secolo, «La Rassegna Mensile di Israel» XLVII, 7-12 (1981), pp. 63-73.
[76]M. Benayahu, Rabbi Shimshon Morpurgo, «Sinai» 84 (1979), pp. 134-165.
[77]M. Benayahu, Rabbi Chaim Yosef David Azulay – Chidà, Jerusalem 1959, voi. 2, pp. 476-484.
[78]M. Wilensky, ‘Al Rabbane Ancona, in Id., Mechkarim ba-lashon u-va-sifrut, Jerusalem 1978, pp. 262-281; Per una visione d’insieme della produzione letteraria ebraica del rabbinato italiano nel XIX sec. vedi: D. Malkiel, Yetzirà we-sugyà be-sifrut ha-Halakhà be-Italia, ba-’et ha-chadashà, «Pe’amim» (2001), 86-87, pp. 258-296. <http://www.ybz.org.il/7Category ID=287&ArticleID=2239>.
[79]Sulle sorti della Comunità di Ancona dell’epoca di Rav Tedeschi vedi E. Sori, Una “comunità crepuscolare Ancona tra Otto e Novecento, in S. Anseimi e V. Bonazzoli (a cura di), La presenza ebraica nelle Marche. Secoli XIII-XX, Ancona, «Proposte e Ricerche» Quaderni monografici, 14 (1993), pp. 189-278.
[80]G. Luzzatto Voghera, Cenni storici per una ricostruzione del dibattito sulla riforma religiosa nell’Italia ebraica, «La Rassegna Mensile di Israel» LX (1993), pp. 47-94; Id., Aspetti della cultura ebraica in Italia nel secolo XIX, in Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, cit., pp. 1211-1241.
[81]Isacco Raffaele Tedeschi, «Il Corriere Israelitico» XLVI (1908), pp. 404-405; XLVII, pp. 21-23; U. Coen, Isach Raffael Tedeschi, «Il Vessillo Israelitico» (1908), pp. 197-202; L. Ravenna, «Archives Israélites» 69 (1908) pp. 195 e sgg.; H. Rosenberg, Prefazione e cenni biografici, in Saggio degli scritti degli eccellentissimi Rabbini David Avraham Vivanti di v.m. ed Isacco Raffaele Tedeschi di v.m., Casale Monferrato, 1929, pp. XXVI-XLI. Su Tedeschi è in preparazione una voce per il Dizionario Biografico degli Italiani a cura di A.M. Piattelli.
[82] II Vivanti era stato a sua volta allievo del figlio del Chidà R. Refael Yesha‘ayà Azulay e del Rav Ya‘aqov Shimshon Shabbetai Senigaglia. Cfr. Rosenberg, Prefazione e cenni biografici, cit., pp. VII-XXIX.
[83]Su Rav Yehudà Shemuel Ashkenazi, shaliach (emissario) della Comunità di Tiberiade in Europa occidentale, autore del Yissà Berakhà (Livorno 1822), un commento alle Halakhot di Rabbenu Yerucham, del Geza’ Yishai (Livorno 1842), dizionario di termini ritualistici e del Bet Mo’èd (Livorno 1843), Siddur di rito sefardita, con regole, usanze e tefillot cabbalistiche, si veda A. Yaari, Sheluchè Eretz Israel, Jerusalem 1951, p. 644.
[84]Vedi Piattelli, Repertorio, cit.
[85]Rosenberg, Prefazione, cit., pp. XXXVII-XXXVili (non siamo riusciti a rintracciare il manoscritto descritto dal Rosenberg).
[86]Gerusalemme, Museo di Arte Ebraica U. Nahon, ms. n. 106: manoscritto autografo cartaceo, contenente 67 carte, proveniente dalla collezione H. Rosenberg (donato dalla nipote Anna Rosenberg a Raoul Elia e da questi al Museo nel 1976); Jerusalem, Institute for Hebrew Microfilmed Manuscripts, film n. 45121.
[87]Los Angeles, University of California Library, BX 779 2/2.3; BX 779 13.2-3; Jerusalem, Institute for Hebrew Microfilmed Manuscripts, film n. 32346, 32469, 32470.
[88]Los Angeles, University of California Library, BX 779 9.16 (16 carte); Jerusalem, Institute for Hebrew Microfilmed Manuscripts, film n. 32407.
[89]Los Angeles, University of California Library, BX 779 1.4 (43 carte), BX 779 1.4.; Jerusalem, Institute for Hebrew Microfilmed Manuscripts, film no. 32341.
[90]Gerusalemme, Museo di Arte Ebraica U. Nahon, ms. n. 96: manoscritto autografo cartaceo, contente 45 carte e altre 26 pagine, anch’esso proveniente dalla collezione H. Rosenberg (donato dalla nipote Anna Rosenberg a Raoul Elia e da questi al Museo); Jerusalem, Institute for Hebrew Microfilmed Manuscripts, film n. 45111. Questo manoscritto venne sicuramente usato per la stampa dal Rosenberg, che ne spuntò le Teshuvot con una matita azzurra. Il testo è stato stampato postumo, con il titolo Qetzat mi-kitvè… David Avraham Chaizzi… Izhak Refael Ashkenazi a cura di H. Rosenberg, Tamów 1932, pp. 81-175. Un’altra copia dell’indice è conservata a Los Angeles, University of California Library, BX 779 13.5; Jerusalem, Institute for Hebrew Microfilmed Manuscripts, film n. 32472.
[91]Vedi l’elenco in: Rosenberg, Prefazione, cit., p. XXXVII, note 1-6.
[92]Vedi Piattelli, Repertorio, cit., e Osservazioni sulla proposta, «Il Corriere Israelitico» X (1871-1872), pp. 219-222, 303-304; Saggio degli Scritti, cit., pp. XXX-XXXI.
[93]Sul Minian, «Il Vessillo Israelitico» XXXII (1884), pp. 50-51; XXXIV (1886), pp. 288-290, 384-387; 1906, LIV, pp. 718-720; Saggio degli Scritti, cit., pp. 165-171.
[94]Sul plebiscito a Torino per annullare il secondo giorno festivo che si festeggia solo nella Diaspora, vedi «Il Vessillo Israelitico», XLVII (1899), pp. 409-410; XLVIII (1900), pp. 3-4; Saggio degli Scritti, cit., pp. XXXIII-XXXIV. In proposito si veda anche: G. Levi, I plebisciti sul rituale religioso, «L’Educatore Israelita» XIII (1874), pp. 3-10; M. Benayahu, Yom Tov Shenì shel Galuyot, Jerusalem, Yad ha-Rav Nissim (1987); in ebr.
[95]Wa-Ya’an Yitzchaq p. 167; M. Benayahu, Da’at Chakhmè Italia ’al ha-negina ba-’uggav ba-Tefilla, «Asufot» 1 (1987) pp. 265-318 e in part. 309-310.
[96]Wa-Ya’an Yitzchaq p. 83; In generale, sulle proposte di riforma del culto vedi D.G. Di Segni, Innovazioni nel culto religioso a Roma nella seconda metà dell’800, «Zakhor» 8 (2005), pp. 43-75 e la bibliografia ivi citata; M.E. Artom, ‘Al tenu‘at ha- Riforma be-Italia – Ha-pulmus bi-dvar tzimtzum tequfot ha-evel bi-shnat 1865, U. Nahon (a cura di), Scritti in memoria di Sally Mayer (1875-1953), Jerusalem, Fondazione S. Mayer 1956, pp. 110-114.
[97]«Il Mosè», 1880, pp. 357 e sgg.; «Il Vessillo Israelitico», 1900, XLIII, pp. 154- 157; Wa-Ya‘an Yitzchaq pp. 126-127; D. Malkiel, La cremazione dei defunti. Tecnologia e cultura: saggio storico-fenomenologico, «Italia», 10, 1993, pp. 37-70 (in ebr.); Sull’esumazione dei cadaveri vedi: Saggio degli Scritti, cit., pp. 175-177.
[98]Si vedano le parole di elogio dedicate al Collegio Rabbinico di Padova e ai suoi insegnanti e così al nuovo Collegio Rabbinico Italiano di Firenze e al suo direttore Rav Sh.Tz. Margulies: Tedeschi, Toledot benè Israel, cit., pp. 23-24.
[99]Prima di lui fu rabbino capo di Roma, dagli anni 1890 al 1899, Mosè Ehrenreich. Fra la morte di Ehrenreich e la nomina di Castiglioni fu nominato facente funzione rabbino capo Angelo Fornari. Vedi Piattelli, Repertorio, cit.
[100] P. S. Colbi, Vittorio Castiglioni, un dotto rabbino italiano esponente di un’epoca di transizione, «La Rassegna Mensile di Israel» XLIII (1977), pp. 478-488. Vedi anche la voce su Castiglioni di A. Tagliacozzo nel Dizionario Biografico degli Italiani. In entrambe queste referenze, tuttavia, sono presenti alcune inesattezze che segnaleremo più avanti. Di seguito trattiamo soprattutto la formazione e l’attività rabbinica di Castiglioni, rimandando alla bibliografia citata per le altre sue opere e attività come pedagogo e saggista.
[101]Firenze 1886 – Roma 1935 (vedi oltre e in Piattelli, Repertorio, cit.).
[102]L’interpretazione di samekh-tet come iniziali di sefardì tahor non è l’unica possibile, anche se è la più diffusa. Isacco Reggio, ad esempio, afferma che stanno per sofà tov (la sua fine in bene), come segno di buon auspicio. Pure il maestro di Castiglioni, il rabbino Moisè Tedeschi (vedi nota 105), e l’allievo prediletto, Emilio Schreiber, entrambi dai cognomi chiaramente ashkenaziti, facevano seguire il proprio nome dalle lettere samekh-tet.
[103]Inserviente della sinagoga, come indicato nella dedica a un ordine della Mi- shnà, vedi oltre alla nota 133.
[104]«Il Corriere Israelitico» XLII (1903-1904), p. 67.
[105]Moisè Tedeschi scrisse anche un commento biblico, libri di morale, un testo di grammatica ebraica e un libro sui sinonimi. Nel commento in ebraico Ho’il Moshè ai «Primi Profeti, commentati ad uso delle scuole israelitiche» (Gorizia 1870), Moisè Tedeschi, «Istruttore del Talmud-Torà di Trieste» elenca i suoi maestri, fra cui Shemuel Chaim Zelman e Shabbetai Elchanan Treves, i suoi amici, fra cui Moshè Ehrenreich e Shabbetai Refael Melli, e i suoi allievi, fra cui, appunto, Yitzchaq Castiglioni e suo fratello il medico Shemuel Castiglioni. Castiglioni scrive in Yad Yosef, vol. II, p. 3: «… il maestro de’ miei maestri, l’immortale Samuel David Luzzatto, il quale quando mi vedeva a Trieste, o quand’io lo visitava a Padova, soleva, scherzando, chiamarsi mio bisavolo, perché l’illustre Zelman, allievo suo prediletto, ebbe a discepolo il preclaro Rabbino Moisè Tedeschi che io mi onoro di avere tuttora a maestro».
[106]A Moisè Tedeschi saranno dedicati ben quattro sonetti scritti da Castiglioni nella raccolta Nizmè ha-Zahav.
[107]Vedi Piattelli, Repertorio, cit. per i rabbini Marco Tedeschi e Sabato Melli.
[108]Y. Colombo, Il pensiero pedagogico di Vittorio Castiglioni, in Scritti in memoria di Enzo Sereni, Gerusalemme 1970, pp. 197-215. Yoseph era il figlio di Samuele, rabbino capo di Livorno dopo Rav Benamozegh, che avrebbe pronunciato la commemorazione funebre di Castiglioni al Tempio di Roma nel 1911 al trigesimo, nonostante le notevoli divergenze dottrinarie riguardo alla cremazione (vedi oltre). Per le numerose opere pedagogiche scritte da Castiglioni, vedi anche l’elenco ne «Il Corriere Israelitico» XLII (1903), p. 67-68.
[109]Vedi ne «Il Corriere Israelitico» XLVII (1907), pp. 132-137, i necrologi del rabbino Melli e l’elegia pronunciata da Castiglioni.
[110]Colbi, Vittorio Castiglioni, cit., p. 478.
[111]«Il Corriere Israelitico» XLII (1903), pp. 66-68.
[112]Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma (ASCER), Busta 137, Nomina Castiglioni.
[113]Ivi. L’ing. Vittore Ravà era un consigliere di tutto rispetto, Capo Divisione al Ministero della Pubblica Istruzione.
[114]«Il Vessillo Israelitico» LI (1903), pp. 178-179, in una corrispondenza firmata R.P.A. I puntini di sospensione sono nell’originale.
[115]Ibidem. Vedi anche «Il Corriere Israelitico» XLI (1902), pp. 32-33; 65-66; 181.
[116]«Il Vessillo Israelitico» LII (1904), pp. 14-19. Alla fine del discorso «molti gli si affollarono intorno per baciarlo e per ricevere la benedizione; ma egli volle prima essere benedetto dall’illustre Rabb. Magg. Prof. Salomone Jona». Vedi anche ne «Il Corriere Israelitico» XLII (1903), pp. 212-213.
[117]«Il Vessillo Israelitico» LII (1904), pp. 179-182.
[118]Ivi, rispettivamente a p. 29 e p. 73. La shechità e la bediqà sono, rispettivamente, la macellazione e il controllo sanitario dell’animale.
[119]Ivi, LIV (1906), p. 306. Questo brano è firmato C.E., e si tratta presumibilmente del Rabb. Cesare Eliseo, nonno dell’omonimo Maskil, primo chazan del Tempio Maggiore di Roma nella seconda metà del Novecento e poi Rabbino di Napoli. Vedi in Piattelli, Repertorio, cit. per entrambi.
[120]Ivi, EH (1904), pp. 179-182. Per un esempio di predica, vedi quella sulla festa di Shavuot in ivi, LIV (1906), pp. 387-392.
[121]Ivi, LII (1904), pp. 325-328.
[122] Ivi, p. 73.
[123] Ivi, pp. 345-348. Pochi mesi dopo il rabbino restituì la visita al re, vedi «Corriere Israelitico» XLIII, p. 259. Ci fu almeno anche un altro incontro, il 21 febbraio 1908, in occasione della visita del rabbino Giuseppe Arovas, missionario della terra d’Israele, ivi, XLVII (1908), pp. 330-331.
[124]In G. Blustein, Storia degli Ebrei in Roma, appendice di C. Del Monte, Roma, Ed. Maglione e Strini 1921, p. 289.
[125]«Il Vessillo Israelitico» LII (1904), pp. 467 e 617; ivi, LUI (1905), pp. 542-543; vedi la cronaca del viaggio del rabbino Ferruccio Servi (figlio di Flaminio e suo successore alla direzione del «Vessillo») in ivi, LIV (1906), pp. 231-232. In ivi, pp. 629-630, si leggono le seguenti parole a conclusione di un lungo brano sull’attività di Rav Castiglioni: «Se fossero numerosi tali zelanti pastori, quanto se ne avvantaggerebbe la invitta nostra fede»; ivi, LVIII (1910), pp. 223-227; «Corriere Israelitico», XLV (1905), p. 181 che scrive: «Chi rammenta il disordine e quella specie di anarchia che regnavano nei nostri oratori due anni or sono…». Riguardo all’ordine nelle preghiere e alle celebrazioni di matrimoni e funerali, vedi anche in ASCER, Busta 137, Corrispondenza Castiglioni, numerose lettere di Rav Castiglioni indirizzate ai consiglieri e agli addetti al culto.
[126]«Il Vessillo Israelitico» LIX (1911), pp. 239-241; 362-364.
[127]Fra i vari problemi, c’era anche quello dei matrimoni durante il periodo luttuoso dell’Omer, fra Pesach e Shavuot, su cui ci fu un’accesa discussione: ivi, pp. 195- 197; 225-233 (che include la posizione di Rav Castiglioni).
[128]«Il Corriere Israelitico» XLII (1903), pp. 67-68, dove è presentata una lista non esaustiva con una dozzina di opere pedagogiche, altrettante in ebraico e molte altre in italiano di argomento ebraico.
[129]Ibidem.
[130]V. Castiglioni, Prefazione a Mishnaiot, traduzione italiana e note illustrative, II edizione, Tipografia Sabbadini 1962, pp. 9 e 10.
[131]È riportata anche nella seconda edizione, cit., vol. 1, pp. 219-220. Alla fine di Horayot, del Seder Neziqin, è presente anche la preghiera per il ricordo di un uomo o di una donna e il Qaddish, con traduzione, e una frase in ebraico in cui si spiega che la parola Mishnà è composta dalle stesse lettere di Neshamà (anima).
[132]Si intende, qui e dopo, la data in cui Castiglioni completò il manoscritto, non la pubblicazione, che come vedremo proseguì per diverse decine d’anni.
[133]La dedica prosegue con: «Eterno ricordo di amore del figlio riverente che commosso ne bacia le ceneri». L’ebraico però parla di ’afar (polvere). In ebraico il padre è definito shomer miqdash (custode del Tempio, forse nel senso di shammash).
[134]A volte il cognome è scritto con una sola n: Sonino.
[135]Mishnaiot, II ed., cit., voi. 3, p. 21.
[136]Ibidem.
[137]Su «Il Corriere Israelitico», in una corrispondenza scritta il 20 gennaio 1908 dal rabbino Davide Panzieri, si legge: «Il Prof Guidi alle lezioni di Talmud. Venerdì sera 18 corr. mentre il Prof. Castiglioni teneva il solito limmud di Ghemarà alla presenza dei Rabbini ebbe una gradita sorpresa. Il Prof. Ignazio Guidi, celebre orientalista, insegnante all’Università degli Studi di Roma l’Ebraico e l’Abissino, chiedeva di assistere alle lezioni di Talmud; figurarsi con che gioia fu accolta tale domanda che ritornava ad onore di tutti! Infatti egli si interessò assai alla discussione, domandando spesso dilucidazioni al Rabbino Maggiore, che in modo chiarissimo esponeva le varie questioni della Ghemarà. Soddisfattissimo, chiese di poter ancora intervenire [più] volte alle lezioni». Vedi anche «Il Vessillo israelitico» LVII (1909), p. 140.
[138]«Il Vessillo Israelitico» LV (1907), p. 238.
[139]Ivi, LUI (1905), a p. 135 si riporta nel Bullettino bibliografico la pubblicazione del trattato Nedarim («dei voti») e si aggiunge: «Già varie volte abbiamo potuto elogiare questa pubblicazione, che prosegue però un po’ troppo lentamente, pur dimostrando la dottrina e la coltura – esplicantesi in un’attività multiforme ed attraente – dell’Ecc. mo Rabbino Maggiore di Roma». E ivi, LVII (1909), p. 235: «Notiamo con piacere che la pubblicazione delle Mishnaiot, se non come sarebbe desiderabile, non procede più così lentamente come nel passato».
[140]F. Servi, «Il Vessillo Israelitico» LIX (1911), p. 369.
[141]Per quanto la seguente lista non sia esaustiva, non avendo potuto rintracciare tutte le dispense ricevute dalla Biblioteca del Collegio Rabbinico Italiano nelle sue diverse sedi (Firenze, Roma), ora collocata presso il Centro Bibliografico dell’Ucei, essa è comunque indicativa della frequenza con cui i diversi trattati venivano pubblicati. Ogni fascicolo riporta nella facciata di copertina di destra, in italiano, la dicitura «Mishnaiot, testo ebraico punteggiato con traduzione italiana, proemio e note illustrative di Vittorio Castiglioni Triestino», seguita dal nome dell’ordine e del trattato, con data e luogo di composizione del manoscritto e della stampa. Sopra al testo italiano della copertina figura un analogo testo in ebraico. Sulla facciata sinistra della copertina è riportata analoga dicitura in latino (Mishnaiot, exemplum hebraicum ecc.). Per i trattati usciti postumi, è indicato (eccetto che in Qiddushin) anche il nome di E. Schreiber. In Polonia furono stampati i seguenti trattati (traslitteriamo con i criteri attuali, non quelli usati da Castiglioni): nel 1893 Berakhot, nel 1894 Pe’à, nel 1896 Kila’im e Terumot, nel 1897 Ma‘aserot e Ma ‘aser shenì, nel 1898 Bikkurim, nel 1900 Eruvin, nel 1901 Pesachim, nel 1904 Ketubot e Nedarim; a Roma uscirono nel 1906 Betzà, nel 1907 Ta’anit, nel 1909 Chagigà e Nazir, nel 1910 Sotà, nel 1912 (postumo) Qiddushin, nel 1913 (postumi e con cura di E. Schreiber) Bavà Qamà (due dispense), nel 1914 Bava Metzi‘à (due dispense), nel 1919 Bavà Batrà (prima dispensa), con avvertenza di Schreiber in cui spiega il ritardo causato dallo scoppio della Guerra Mondiale, nel 1920 Bavà Batrà (seconda dispensa), nel 1925 Eduyot (due dispense riunite), con un’avvertenza sulle motivazioni del ritardo che si spera di colmare «sempreché non sia per mancarci il tacito consentimento degli Egregi Abbonati»; a Trieste uscirono, per i tipi della tipografia del Lloyd Triestino, nel 1925 Avodà Zarà, nel 1928 Horayot, e infine nel 1933, per i tipi delle Officine Grafiche della Editoriale Libraria, fu pubblicato Zevachim, con un’avvertenza datata 17 giugno 1935 (quindi due anni dopo la stampa) in cui si dice che «dopo lungo periodo di interruzione, fatalmente provocata da ripetuti casi di grave malattia e da vari impedimenti di forza maggiore, riprendiamo ecc.». Questo trattato fu l’ultimo pubblicato da Schreiber, che sarebbe morto poco tempo dopo. Le dispense erano spedite agli abbonati, in alcuni casi in omaggio, come quella inviata «all’Illustre Signore Senatore Prof. Vittorio Polacco ytz”u, omaggio rispettoso dell’Editore». Da notare che l’ordine di pubblicazione non corrisponde sempre all’ordine dei trattati della Mishnà.
[142]In particolare sono da ricordare il figlio Augusto, che fu il maggiore propulsore dell’opera «alla quale si dedicò con la più grande abnegazione» e che morì durante la pubblicazione, la figlia Enrichetta Gentilli, scomparsa tragicamente in un incidente a New York il 9 marzo 1963, e Maria Coen ved. Castiglioni, mancata a pubblicazione finita.
[143]Dall’Avvertenza di Rav Elio Toaff.
[144]Mishnaiot, cit., II ed., voi. 2, ordine IV, pp. 210-211.
[145]Ibidem, pp. 323-364.
[146]Firmato A. d. R. (presumibilmente Aldo da Roma, pseudonimo per il fiorentino Aldo Sorani) in «La Settimana Israelitica» II, 31 (4 agosto 1911), p. 2-3.
[147]A fronte di trenta stabilimenti di cremazione presenti in Italia nel 1905, solo tre ve ne erano, p. es., in Francia.
[148]L’articolo in ebraico di Tedeschi fu pubblicato con il titolo Gutachten über Leichenverbrennung, in «Monatsschrift für die Literatur und Wissenschaft des Juden- tums», Voi. 2, 1890, pp. 149-153. Nota che in tedesco il nome dell’autore è indicato come Moses Israel Tedeschi, Rabbiner in Triest, ma in ebraico, alla fine dell’articolo, come Moshè Yitzchaq Ashkenazì s”t.
[149] «Il Vessillo Israelitico» LV (1907), pp. 379-383, 435-446.
[150]La preoccupazione di essere seppelliti anzi tempo era a quell’epoca reale. Nella prima metà dell’800 aveva causato l’emanazione di appositi decreti da parte delle autorità civili che imponevano l’attesa di tre giorni prima di seppellire un morto (tempo poi ridotto a 24 ore). Dato che la norma ebraica impone invece la sepoltura entro la giornata, tale decreto suscitò ampie discussioni che coinvolsero molti rabbini e anche Moses Mendelsohn. La paura di essere sepolti ancora vivi fu anche alla base dell’uso di attaccare dei campanellini alla bara con una cordicella appesa all’interno, così che il morto apparente, risvegliatosi, potesse facilmente segnalarlo ai presenti. Castiglioni stesso prende le distanze da questa considerazione di Tedeschi in una nota (ibidem, pp. 442-443, nota 1).
[151]Ripubblicato dal figlio in seconda edizione, Livorno 1906. Su questo testo, vedi D. Grosser, Rav Benamozegh, ritratto di un talmìd chakhàm, in «Segulat Israel» 5 (5760), in part. pp. 94-95.
[152]«Il Vessillo Israelitico», ivi, pp. 491-495; 552-559; 603-609; 661-667; LVI (1908), pp. 11-17; 223-228 (il brano citato è a pag. 225).
[153]Ivi, LV (1907), nota 1 a p. 438.
[154]Così nel testo in italiano. Nel testo ebraico di Tedeschi si parla semplicemente di «amici», senza indicazione di nomi, e Tedeschi afferma che vorrebbe essere d’esempio per diffondere la pratica della cremazione, anche se sa bene che a Trieste non è ancora possibile. Fu quindi calcinato (e non cremato, come afferma Coibi nell’art. cit.), come del resto fu anche il nonno materno di Castiglioni, «Isacco Campos, primo celebrante del tempio spagnuolo, uomo religiosissimo e molto dotto nelle sacre carte»; vedi «Vessillo Israelitico» LV (1907), nota 1 a p. 437. Castiglioni specifica che il «Rabbino Moisè Tedeschi di b.m. morì il 27 Sivan 5658 (17 giugno 1898) e la sua ultima volontà fu scrupolosamente eseguita», ivi, nota 1 a p. 445.
[155]C’erano stati altri casi di cremazione di ebrei a Roma, notevole quello del presidente della Comunità Settimio Esdra, nel 1894. Castiglioni scrive anche che sotto il rabbinato di Mosè Ehrenreich, «uno dei più illustri discepoli della scuola dell’immortale Shadal», la consulta rabbinica di Roma aveva affermato che nulla si opponeva «dal punto di vista della religione israelitica alla cremazione dei cadaveri», ivi, p. 381.
[156]Alberto Abramo Piattelli (Roma, 18.8.1868 – Roma, 8.2.1956), nonno dell’omonimo Rav Piattelli, raccontava in famiglia che il giorno in cui Castiglioni fu cremato ci fu a Roma un gran temporale (e si era nei primi giorni di agosto!), un fatto che impressionò fortemente la comunità ebraica romana.
[157]ASCER, Busta 137, Commemorazione Castiglioni.
[158]Ibidem.
[159]Su questo testo, vedi in D.G. Di Segni, La teoria dell’evoluzione e l’ebraismo, «La Rassegna Mensile di Israel» LXXIV (2008), pp. 66-104, in part. pp. 72-77. Pe’er ha-Adam fu pubblicato in ebraico a Trieste e Cracovia nel 1892; la traduzione del passo qui riportato è di Rav Colombo.
[160]«La Settimana Israelitica» II, 32 (11 agosto 1911), p. 1. Corsivi nell’originale.
[161] 161 «Il Vessillo Israelitico» LIX (1911), pp. 440-442. Una nota redazionale prende le distanze dalla lettera del rabbino Friedenthal, asserendo che «desideriamo si prescinda – per amore del cielo – dalle polemiche con i defunti […] tanto più quando si tratta di un defunto che rispondeva al nome venerato di Vittorio Castiglioni». Ermanno Friedenthal sarebbe poi diventato rabbino capo di Milano dal 1945 fino alla sua morte, nel 1970, vedi Piattelli, Repertorio, cit. Per la discussione odierna sull’argomento, vedi A. Somekh, Le halakhòt della sepoltura e del lutto, in «Segulat Israel» 6 (5763), in part. pp. 16-18; Responsa Mar’è Habazaq, IV, p. 174, Jerusalem 2001 (in ebr.).
[162]Vedi sopra, nota 41.
[163]Caviglia, L’identità salvata. Gli ebrei di Roma tra fede e nazione. 1870-1938, Roma-Bari, Laterza 1996, p. 127. La procedura per la ricerca di un nuovo rabbino capo fu così celere che una lettera del rabbino Alfredo S. Toaff indirizzata all’Avv. Sereni, datata Livorno 11 settembre 1911, così iniziava: «Egregio Avvocato, mi sembrava irriverente verso la memoria del venerato Rabbino Castiglioni parlare della sua successione prima che fosse trascorso almeno un mese dalla morte lacrimata di Lui» (ASCER, Busta 36, Pratiche elezione Rabbino Sacerdoti).
[164]Angelo Sacerdoti era in realtà un quasi-sconosciuto. In una lettera datata 3 ottobre 1911, inviata all’Avv. Sereni, G. Borghi di Modena riferisce di aver avuto richiesta di notizie su un «certo Rabbino Sacerdoti» che «avrebbe dovuto risiedere a Modena» mentre, risponde Borghi, è invece «capo-culto a Reggio». ASCER, Busta 36, cit., Domanda Sacerdoti; Corrispondenza privata A. Sacerdoti.
[165]Ivi.
[166]Gina Zevi era mia prozia paterna. Le memorie familiari raccontano che Rav Sacerdoti, a sentire la condizione postagli dalla comunità, si mettesse le mani nei capelli. Il facilitatore del matrimonio, probabilmente il rabbino Uzzielli, presentò Gina ad Angelo in un «casuale» incontro durante una passeggiata a Villa Borghese. Zio di Gina era il medico e rabbino Benedetto Zevi (1842-1899), nonno dell’Arch. Bruno Zevi: come spesso succede, le famiglie di rabbini si imparentano con altri rabbini.
[167]Colbi, Vittorio Castiglioni, cit., p. 484.
[168]Caviglia, L’identità salvata, cit., p. 127. Sul ruolo di Sacerdoti come Rabbino militare, vedi Toscano, Religione, patriottismo, sionismo, cit. Per il Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, sto preparando una voce sul rabbino Sacerdoti.
[169]Caviglia, L’identità salvata, cit. p. 127.