Ugo Volli, semiologo e filosofo, ebreo triestino, è nato nel 1948 come lo Stato di Israele. La sua traiettoria politica è esemplare: da ragazzo sceglie la sinistra dopo gli orrori nazifascisti. A 20 anni occupa la Statale. A 40 lo si ritrova nell’establishment progressista, scrive su Repubblica, lavora con Umberto Eco, frequenta il salotto di Inge Feltrinelli. A 50 riscopre la pratica religiosa. E, grazie anche a una esperienza in Informazione Corretta di Angelo Pezzana, è oggi un commentatore politico di cose israeliane e sostenitore non ideologico di Netanyahu. Non sa se è un conservatore ma di certo non è più di sinistra. E non stupirà il fatto che da tempo le porte dei salotti bene per lui si sono chiuse, come pure quelle di certe case editrici e di certe testate.
“Sia la famiglia di mio padre che quella di mia madre vengono da quella che oggi è l’Ucraina. Gli antenati di mio padre abitavano in un posto che si chiama Bolkiy, a sud ovest di Leopoli, dove è ambientato un romanzo bellissimo di Daniel Mendelsohn intitolato ‘Gli scomparsi’, pubblicato in Italia da Einaudi. Invece la parte di mia madre viene da nord ovest. Il mio bisnonno si trasferì prima a Vienna poi a Fiume e infine a Trieste. Era un commerciante al dettaglio mentre su figlio studiò diritto a Vienna. Divenne avvocato. Come poi mio padre e due miei fratelli. Mio padre era alla seconda liceo nel ‘38 quando fu buttato fuori per le leggi razziali, andò a studiare in Svizzera, ottenendo fortunosamente un passaporto e si laureò in chimica. Poi appunto divenne anche avvocato. Si salvò così, come la famiglia di mia madre. Mia mamma nasce in Ucraina viene a Trieste con la famiglia e anche lei è buttata fuori di scuola nel ‘38 ma dato che il padre lavorava sulle navi del Lloyd Triestino riesce a scappare nell’allora Mandato britannico in Palestina. Evidentemente doveva esserci una storia prima della guerra, perché dopo si scrivono, si rivedono e si sposano e nasco io. Questo è una storia abbastanza tipica. Per me è stata sempre molto importante perché io nasco nel ‘48 cioè pochi anni dopo la fine della guerra e a Trieste c’era stata una devastazione terribile della comunità ebraica. Era la città della Risiera di San Sabba, il solo campo di sterminio su suolo italiano e questa è stata una cosa molto presente per me da fin da ragazzino. Tutte le mie scelte politiche andavano in questo senso. Io sono diventato di sinistra in quel momento. Mio padre era repubblicano e la sua famiglia guardava al Partito d’Azione, al Partito Repubblicano eccetera. In quel momento io divenni più di sinistra perché pensavo che, soprattutto da ebreo ma non solo, bisognasse opporsi alla destra estrema per quello che aveva fatto. Uno dei libri più importanti per me sono state le ‘Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea’ che avrò letto dieci volte. Ero molto coinvolto emotivamente in questa cosa”.
E sua madre?
“Mia madre era di famiglia piuttosto umile. Per un po’ in Israele fece la sarta e poi insegnò ebraico; era portata per le lingue. Era da un lato molto impegnata per Israele e dall’altro era una specie di protofemminista che si impegnò molto per il divorzio, per l’aborto, per i consultori. C’era un’associazione internazionale di donne di cui lei era la Presidente italiana. E sto parlando dei primi anni ‘60”.
Sua madre era sionista?
“Essere sionisti in quel momento lì era ovvio. Lei si era salvata riuscendo ad andare nella Palestina Mandataria anche se la Gran Bretagna aveva fortemente limitato l’immigrazione. Anche la sorella di mio padre all’inizio degli anni ‘50 emigrò in Israele. Io ci andai un po’ di volte da bambino. Lì c’erano i miei zii, i miei cugini ad Haifa e vivono ancora là. Non era concepibile essere ebrei e non sionisti. Conservo ancora i documenti di mia madre tra cui la carta di identità “palestinese”. Cioè del Mandato britannico in Palestina. In quel momento non emergeva il problema di quelli che oggi chiamiamo “palestinesi”. Vi fu invece l’assalto di cinque Stati arabi nel ’48-‘ 49, nel ‘57 e nel ’63. C’era la percezione fra tutti quelli che si erano salvati fortunosamente dal genocidio che lo stato di Israele fosse un’assicurazione sulla vita”.
C’è una figura importante di intellettuale ebrea nella sua famiglia.
“Mia zia Gemma, anzi prozia. Gemma era la sorella di mio nonno paterno di cui porto il nome. Erano in una condizione di difficoltà economica dopo la morte prematura del mio bisnonno però se la cavarono tutti. Mio nonno, personalità molto brillante, riuscì a laurearsi in giurisprudenza grazie a una borse di studio imperialregia, una sorella divenne giornalista mentre Gemma si laureò in lettere a Bologna. Cercò di andare a insegnare in un liceo, ma questo negli anni ‘30 non era più permesso dai fascisti. Non in quanto ebrea, ma in quanto donna non poteva lavorare in un liceo. Andò quindi a insegnare nella scuola media inferiore e ebbe un’esperienza molto importante a Idra, oggi in Slovenia, da cui venne fuori un libro molto interessante, anche quello pre-femminista, una raccolta di racconti che si chiama ‘Le escluse’. Fu pubblicato da Cappelli ma poi ritirato, e quella volta davvero per via delle leggi razziali. E’ stato ripubblicato una decina d’anni fa ed è un libro di grande sensibilità sociale e femminile. Racconta storie di lavoratrici, infermiere, donne delle pulizie eccetera che in qualche modo vivono una doppia oppressione come donne e come povere o straniere. Anche Gemma ebbe la fortuna di riuscire a fuggire in Svizzera nel 194. Quando tornò, trovò la sua casa di Trieste devastata dai vicini; allora si trasferì a Bologna e fece un grande lavoro di storica. Si occupò di ebraismo, del caso di Edgardo Mortara, di Simonino da Trento. E di storia locale di parecchie piccole comunità in Emilia e fu molto attiva nel dialogo ebraico-cristiano riuscendo a mobilitare anche il cardinal Augustin Bea. Il Comune di Bologna le ha dedicato un giardino pubblico”.
Lei ha ricevuto un’educazione religiosa?
“I miei erano laici. Erano quel tipo di ebrei italiani che continuavano ad essere ebrei, che ci credevano ma che non praticavano le regole religiose. Mio padre, quando fu mandato alle scuole ebraiche, si era portato un bel panino al prosciutto e fu molto meravigliato di scoprire che non lo avrebbe più potuto fare. Io però fui mandato alla scuola elementare ebraica e mi furono insegnate le cose fondamentali, feci la cerimonia del bar mitzvah, la confermazione religiosa, ma per un lungo periodo questa appartenenza rimase importante per me ma soprattutto sul piano politico più che su quello su quello religioso. Mi sono poi interessato davvero di cultura ebraica a partire dagli anni ’80”.
Siamo più o meno agli anni dell’università. Quindi lei è un giovane di sinistra che va a studiare a Milano.
“La mia famiglia è tutta di avvocati: mio nonno, mio padre, mio fratello. Anche mio figlio ha studiato giurisprudenza però adesso è funzionario della Comunità europea. Solo io non volevo fare quello anche perché molto influenzato dai professori del liceo. Volevo studiare filosofia; ero molto amico di Piero Dorfles, che adesso è conosciuto come uno che si occupa di libri ma in quel momento era soprattutto il nipote di Gillo. Piero ha due anni più di me e studiava a Milano. Io lo raggiunsi anche attratto dal fatto che la facoltà di Filosofia della Statale in quel momento aveva docenti del livello di Cesare Musatti, Mario Dal Prà, Enzo Paci, Remo Cantoni”.
Lei arriva alla Statale e poco dopo scoppia il Sessantotto.
“E io faccio la mia parte. Oggi giudico queste cose molto severamente, penso che fosse una retorica piuttosto sciocca. E noi giovani eravamo in qualche modo usati. Io ero al primo anno, molto giovane e ingenuo, mi interessava studiare ma fui coinvolto in questa corrente e ci rimasi facendo tutte le occupazioni, le manifestazioni. Ripeto: secondo me le cose che dicevamo erano stupide se non criminali ma il ‘68 all’inizio fu una specie di esplosione, di liberazione. E anche di gioia personale. Poi la cosa si incupisce”.
Qualche ricordo particolare?
“Mi ricordo un episodio tanto banale quanto significativo. C’era Luca Cafiero, allora assistente di Storia della filosofia e capo del servizio d’ordine. Io dovevo essere al secondo anno e il Movimento studentesco aveva come base gli uffici della rappresentanza studentesca nei sotterranei della Statale ai quali si accedeva con l’ascensore. Arrivo io con in mano un pacco di volantini e questo ascensore non arriva. Io devo scendere, ho fretta. E allora faccio una cosa assolutamente idiota da ragazzino imbecille e maleducato. Cioè incomincio a prendere a calci la porta dell’ascensore per sollecitare che arrivasse. Passa di lì Cafiero, che era un mio docente, e invece di dirmi: cosa fai stupdio?, mi fa: bravo, vedo che sei dei nostri. C’era una specie di retorica dell’insubordinazione, della violenza minuta, simbolica e non”.
Quando comincia a vedere le cose in un modo diverso?
“Io pian piano, ma ci misi degli anni, incominciai a capire che c’era un problema. Che le cose che dicevamo, ad esempio “Lo Stato borghese si abbatte non si cambia”, non era semplicemente degli slogan. Qualcuno presto avrebbe cercato di metterle in pratica. Il momento in cui per me questa cosa divenne chiarissima fu il 77, ma ero già a insegnare a Bologna al DAMS chiamato da Umberto Eco”.
Lei okkupa però si laurea.
“È una faccenda abbastanza buffa: allora c’erano queste assemblee interminabili, spesso con risse interne. Io facevo parte del Movimento studentesco poi c’erano quelli di Avanguardia operaia e quelli di Lotta Comunista. Ogni tanto emergevano, come dire, divergenze. Io stavo lì con i miei compagni a presidiare la presidenza della assemblea perché era importante che parlassero quelli giusti e non quegli altri. Il tutto durava ore con discorsi che sembravano già a me molto stupidi e noiosi. E allora io mi portavo dei libri, che mettevo nelle tascone dell’eskimo. E mentre quelli parlavano della rivoluzione che avanzava in tutto il mondo, io studiavo – che so… – Husserl e questa cosa era considerata una bizzarria. Che mi veniva perdonata perché per il resto era un ragazzo che faceva quello che andava fatto…”.
Contro le porte…
“I docenti erano di grande livello come ho detto e alla fine la cosa che mi ha attratto di più è stata la logica matematica. Mi sono laureato con Corrado Mangione e con Ludovico Geymonat. Io ero diviso fra la mia identità culturale e l’impegno politico ma alla fine mi sono laureato e sono diventato subito assistente volontario di Logica”.
Nel frattempo incontra Umberto Eco.
“In quel momento era semplicemente un giovane intellettuale che lavorava in casa editrice e questa conoscenza divenne un’amicizia importante. Lui è stato uno dei miei vice-padri. Frequentavo casa sua, ero molto amico della moglie e dei figli e già alla fine del mio periodo di studi in Statale aiutavo Eco ad Architettura – lui insegnava al Politecnico. Incominciai a occuparmi insieme a lui di semiotica dell’architettura e questo mi portò alla Bompiani, dove ebbi un’esperienza importante di lavoro e conobbi Nanni Filippini, Gianpaolo Dossena, Leo Paolazzi eccetera, una bellissima redazione. Eco mi portò anche all’incarico a Bologna. Mi laureo nel ‘72 nel ‘76 arrivo al DAMS. All’inizio la mia materia si chiamava Struttura della figurazione perché c’entrava sempre il visivo. Poi la cattedra passò a Lamberto Pignotti che effettivamente era un grande poeta visivo. E mi chiesero di insegnare Filosofia del linguaggio che era una cosa che mi piaceva molto”.
Come fu il suo legame con Eco?
“Era un rapporto molto personale. Io ero uno che leggeva le sue cose prima che lui le pubblicasse e ne discutevamo. Ci facevamo delle lunghe serate di chiacchiere; era proprio come una cosa di famiglia”.
E come si è trovato con gli studenti?
“Per me quelli del DAMS sono stati anni di iniziazione. Alle spalle avevo solo dei seminari in Statale, ero ancora timido, poco scafato dal punto di vista dell’insegnamento: mi rifugiavo spesso a scrivere delle cose alla lavagna. E poi, avendo io 27 anni con degli studenti magari di 24, si andava facilmente a bere insieme, ci si dava del tu. A un certo punto mi sono accorto che non era il caso quando hanno incominciato a darmi del lei a cedermi il passo alla porta ho capito che non potevo approfittare della mia posizione. Il DAMS in quella prima fase era molto interessante io avevo molti bei rapporti con gente come Tomás Maldonado e Omar Calabrese, in cui avevo anche un amico fraterno. È stato un periodo molto bello che è stato turbato poi da quella cosa del ’77”.
È la Bologna di Radio Alice
“Un’esperienza traumatica per molti di noi. C’era questo violento rifiuto di una Bologna che peraltro era accogliente e di sinistra. Ma ce l’avevano moltissimo con il sindaco, Renato Zangheri. Io con alcuni amici come Salvatore Veca e Marco Mondadori frequentavamo la figlia di Zangheri e di altra gente dell’élite culturale bolognese. Come Romano Montroni, il libraio della Feltrinelli. Era una Bologna molto positiva, molto accogliente, molto progressista. Allora il fatto che questa cosa fosse vista da qualcuno come ‘fascismo’ questo fu molto traumatico per noi. Bologna divenne a un certo punto l’epicentro della contestazione: ci fu un grande convegno contro la repressione con i soliti Deleuze e Guattari che vennero lì a spiegarci che bisognava combattere contro il fascismo del PC emiliano”.
In quegli anni si consumò anche una specie di rottura con Eco.
“Sì, cominciarono a esserci delle differenze teoriche e lui se la prese molto perché io non ero d’accordo, essendo di formazione un logico matematico, col suo modo di usare una nozione logico-filosofica che sono i mondi possibili. E quindi mi dedicò una ramanzina in una nota a piè di pagina di un suo libro importante che è ‘Lector in fabula’. Insomma ci fu un po’ di distacco. Nel frattempo mi staccai dalla Bompiani: Filippini, che era il mio riferimento in casa editrice, divenne responsabile della pagina culturale di Repubblica e mi chiamò con sé. Io divenni per una serie di combinazioni il suo vice e sostanzialmente quello che faceva la critica teatrale per il Nord ma anche il giornalismo culturale di Repubblica. Ero insomma passato dalle posizioni sessantottine al salotto di Inge Feltrinelli”.
Di cosa si occupava?
“Mi innamorai del teatro diciamo alternativo in particolare non tanto della delle avanguardie più formaliste quanto di quella tendenza che si chiama Terzo Teatro, di Jerzy Grotowski, di Eugenio Barba eccetera, del teatro diciamo non con le sneaker ma a piedi scalzi. E per qualche anno io fui molto dentro a questa esperienza feci il loro critico di riferimento scrissi per loro, li seguii nelle tournée. Fu un’esperienza molto interessante della pratica sociale di piccole <isole galleggianti> come le chiamava Barba. Luoghi in cui si cercava di praticare un modo diverso di stare assieme, di costruire, di creare, di avere rapporti”.
E i rapporti coi colleghi invece?
“A Bologna lavoravo su questa cosa della filosofia del linguaggio, cercando di capire come il linguaggio ci determina, cioè noi viviamo dentro i limiti del linguaggio, quindi non in senso della filosofia analitica cui rimandava in parte la mia formazione, ma in un senso piuttosto à la Hans Blumenberg insomma di un sistema metaforico in cui ci troviamo immersi. E incominciai a frequentare di meno il gruppo semiotico bolognese che mi sembrava poco, diciamo un pochino bloccato, anche perché nel gruppo semiotico bolognese era successa una cosa. Paolo Fabbri era andato a fare il direttore dell’Istituto Italiano di cultura a Parigi e aveva stretto un rapporto molto forte con la “scuola di Parigi” che faceva capo ad Algirdas Greimas. E la maggior parte dei giovani più brillanti – Isabella Pezzini, Maria Pia Pozzato, Francesco Marsciani e tanti altri che poi sarebbero diventati professori – andavano a Parigi e avevano scelto la metodologia parigina. Eco, poi aveva scoperto la sua vocazione letteraria, aveva avuto un immenso successo col Nome della rosa ed era diventato un po’ più difensivo perché era assalito dal suo stesso successo. Quindi il gruppo bolognese si è, come dire, dilatato e sconnesso”.
Sono anche gli anni del Maurizio Costanzo Show.
“Non sono mai stato uno che aspirasse a fare il personaggio televisivo. Un po’ sulla base dell’insegnamento di Eco e di Gianfranco Bettetini che non bisognasse fare una distinzione radicale fra cultura alta e cultura bassa e che quindi bisognasse sia studiare la televisione o i fumetti sia in qualche modo lavorarci, come faceva Oreste Del Buono, un altro dei miei colleghi alla Bompiani e a lungo direttore di Linus. Insomma mi è capitato, in una quella fase, di avere molti rapporti non solo con Costanzo, ma anche con parecchi altri di quel mondo, per esempio Vittorio Sgarbi, di cui ammiro molto la cultura e le idee sull’arte. A un certo punto stavamo persino progettando di fare un libro insieme”.
Cosa ricorda di Costanzo?
“Da Costanzo sono andato un po’ di volte anche perché avevo dei libri da promuovere (ride). Ebbi con lui un buon rapporto tanto che a un certo punto mi affidò l’incarico, come dire, di sorvegliare sua figlia che era venuta a studiare a Bologna e quindi mi aveva chiesto di cercare di aiutarla. In realtà non è successo niente di particolare, semplicemente le ho dato qualche volta dei consigli”.
Meglio il giornalismo o l’insegnamento?
“Quelli sono gli anni per me in cui incomincia una produzione di libri su temi come il silenzio, come il fascino, che sono oggetti di studio che non c’entrano niente con gli interventi televisivi. Scrivevo sull’Europeo, su Epoca, Eco mi propose addirittura di andare a lavorare a L’Espresso e poi la cosa non si fece. Ero un in equilibrio fra questi due mondi, quello dei media e quello degli studi. Ma la mia identità è più in questo secondo mondo”.
Il fatto di essere ebreo quando comincia a contare sulla sua riflessione politica?
“E’ un discorso che parte da lontano, dall’esperienza fortissima e traumatica degli ebrei di tutta Europa. Ci si è sentiti traditi e poi massacrati dalle forze istituzionali e di destra. Nel Ventennio per esempio in Italia più o meno gli ebrei si distribuiscono come tutta la popolazione. C’erano un po’ di fascisti, un po’ di antifascisti. Ci sono stati parecchi antifascisti e lo capiamo, per esempio, dal fatto che tra i famosi 13 docenti che non giurano fedeltà al regime, quattro erano ebrei. Però c’erano anche ebrei fascisti. Ma a un certo punto sia i fascisti che gli antifascisti vengono non solo emarginati, perseguitati, ma completamente rinnegati. E gli viene rifiutato quel ruolo di cittadini normali cui ambivano. Questa cosa fu molto traumatica. La conseguenza, forse non lucidissima che ne trassi io, fu che per riuscire a tutelarsi a difendersi bisognava in qualche modo appoggiare la sinistra. Per quanto riguarda la mia famiglia, prima della Shoà, guardava sostanzialmente ai partiti laici cioè Azionisti, Repubblicani, Radicali qualcuno anche più a destra cioè ai Liberali. Però presto la retorica secondo cui la Resistenza sarebbe stata tutta comunista fa presa e si afferma l’idea che per riuscire ad essere ebrei bisogna essere di sinistra; idea che viene confermata dal fatto che, nel ’48, c’è un atteggiamento positivo da parte dell’Unione Sovietica nei confronti della fondazione di Israele. Atteggiamento che viene regolarmente smentito e distrutta nei decenni successivi, nelle guerre successive, sia dall’Unione Sovietica che dal PCI. E entro certi limiti, anche il PSI, tutti appoggiano i tentativi di distruggere Israele, se non proprio direttamente gli ebrei, e questo è una cosa che per quanto riguarda me provocò dei traumi nel 67 e poi di nuovo nel 73. E divenne via via più chiara: come potevo io stare nel Movimento studentesco che gridava slogan pro Arafat, Fatah e anche peggio? E’ una storia che si ripete anche oggi quando Elly Schlein sostiene che si debba riconoscere lo Stato di Palestina. E c’è qualcuno, nella comunità ebraica, che tira fuori la questione che però non possiamo stare coi fascisti perché sono quelli che hanno fatto questo e quest’altro”.
A un certo punto lei è diventato anche osservante.
“Questa consapevolezza in me lavora in maniera intermittente. Diventa sempre più importante quanto più io mi rendo conto del fatto che per me l’essere ebreo non è un dato semplicemente biografico ma è qualche cosa che mi caratterizza in modo profondo. E qui devo tirar fuori un altro vicepadre: Haim Baharier, psicologo, commentatore, teologo che incontrai alla fine degli anni ’80. Seguii le sue lezioni e ne uscii con il senso di aver capito la radice dei miei interessi culturali attraverso il fatto che il Talmud e tutta la dinamica della cultura ebraica sono regolati da modi di pensare in cui mi riconoscevo profondamente. Sono cose cui ho dedicato in seguito molti libri”.
Facciamo un passo indietro: agli anni di piombo.
“Il terrorismo è stata una sveglia. Una seconda sveglia fu quel poco che ho conosciuto dell’est comunista. Fu traumatica una visita in Russia che feci con Dario Fo con cui avevo un rapporto abbastanza buono come critico teatrale. Dario Fo giustificava tutto e invece la situazione che vedevamo era chiaramente catastrofica; cioè era il fallimento e l’umiliazione con una gestione del potere anche a livello molecolare in cui la corruzione era palese”.
Quando comincia a scrivere di Israele?
“Il distacco da certa sinistra è diventato importante in rapporto ad Israele: ho cominciato a seguire con molta passione le cronache da quel Paese. Il punto di svolta è stato il mio rapporto con Informazione Corretta su cui scrivevo delle cose per Angelo Pezzana, una persona notevole anche se poi uno può essere o non essere d’accordo con lui su tante cose. Quindi a partire dal mio trasferimento all’Università di Torino, cioè dal 2000, questa esperienza diventa importante. Poi ci sono una serie di piccoli episodi, di piccole discriminazioni. Avendo vinto un concorso per ordinario in quegli anni, si supponeva che io dovessi diventarlo allo IULM dove in quel momento stavano cercando di raccogliere il meglio nelle scienze sociali e si pensavano anche di chiamare Renato Mannheimer che credo insegnasse a Genova. Poi qualcuno con imbarazzo ci disse che no, due ebrei no. E’ una cosa abbastanza bizzarra perché nessuno direbbe: eh no due parmigiani no oppure due no protestanti no. Progressivamente ho capito che c’era bisogno di alzarsi in piedi e difendere le posizioni di Israele”.
E cosa scopre?
“Che l’avversario con cui bisognava scontrarsi polemicamente sul piano del pensiero è la sinistra non solo quella estrema, extraparlamentare ma anche buona parte della sinistra istituzionale, universitaria. Certo, con varie differenze perché Fassino non era così ma altri sì. O uno diventa Moni Ovadia quindi tradisce magari imbrogliando un po’ l’ebraismo per la sinistra oppure uno resta attaccato ai valori dell’ebraismo e quindi non può essere di sinistra. Questa è la cosa che ho capito”.
Ed è un processo che nel mondo ebraico in questi ultimi anni e purtroppo dal 7 ottobre scorso molti stanno facendo.
“Ci sono alcuni che l’hanno capito altri che non hanno capito. Questo è un processo che è avvenuto anche in Israele che nasce come un esperimento socialista, non solo se si pensa ai kibbutz ma tutto il sistema si basava sul collettivismo e quasi su un regime monopartitico. C’era il Partito laburista, il sindacato e la confederazione dei kibbutz che erano praticamente la stessa entità. Intercambiabili dal punto di vista del personale. Questa esperienza fallisce sul piano economico e politicamente viene sorpassato per via del tutto pacifica attraverso le elezioni. La sinistra israeliana fece la scommessa degli accordi di Oslo. E fu un azzardo. Il secondo accordo di Oslo fu approvato alla Knesset con un voto di differenza e quel voto, si scoprì poi, era stato comprato. Il fallimento politico comportò una serie di traumi dall’omicidio di Rabin all’abbandono di Gaza di cui ancora oggi si vedono le conseguenze. E però se uno guarda i risultati elettorali e non ci si fa turbare dall’odio che ha suscitato Netanyahu (cosa molto personale e molto interessante da studiare) è chiarissimo che l’elettorato ebraico è al 70% di destra, in parte di destra anti Netanyahu, ma comunque di destra. Perché non è possibile essere di sinistra cioè essere internazionalisti e vicini alle istituzioni internazionali senza prendere atto che queste sono contro Israele”.
Lo si è visto di recente all’Aja.
“La cosa interessante è che é in seguito alla cosa dell’Aia c’è stata una votazione alla Knesset in cui hanno votato in un una mozione di condanna in 106 su 120: dei 14 che anche non l’hanno votata, dieci appartengono ai partiti arabi e si capisce. Gli altri quattro che hanno votato contro erano i laburisti cioè quel che resta della vecchia posizione e che ormai è di estrema sinistra. Poi hanno dovuto spiegare che in realtà la mossa dell’Aia non andava bene nemmeno a loro e che avevano votato per ragioni di politica interna”.
Quante volte è stato in Israele? Ci ha insegnato?
“C’è stato un periodo in cui per un accordo fra l’Università di Torino e l’Università di Haifa ho tenuto corsi per una summer school su temi di filosofia e semiotica del diritto, una cosa con la Facoltà di giurisprudenza. Ci sono andato quattro o cinque volte per un mese. In tutto sarò stato una ventina di volte in Israele. La prima volta avevo tre anni, dall’ultima ormai sono passati cinque anni perché c’è stato il Covid e la guerra. Ma lì ho parenti e amici con cui mi tengo in contatto: è un luogo che considero assolutamente parte della mia vita”.
Ha mai avuto occasione di sentirsi personalmente minacciato in quanto ebreo in Italia
“Minacciato no. Fra l’altro io non giro con simboli ebraici. Ho avuto, diciamo forti scontri, ma senza che questo diventasse un pericolo. A Torino però c’è stata la cosa più vicina a una minaccia. Era il 2006 e Israele era ospite della Fiera del libro e ci furono le solite contestazioni. Decidemmo che bisognava fare qualcosa, anche perché queste contestazioni avevano come sempre base in università. Feci una cosa un po’ esibizionista: mi misi una bandiera israeliana sulle spalle e andai nell’atrio dell’università a distribuire volantini in cui dicevo che non c’era nessuna ragione per essere contrari a Israele. La cosa fu sorvegliata dalla Digos per cui non accade niente di speciale. Ma il giorno dopo mi trovai un manifesto di denuncia appeso alla porta del mio ufficio. La Digos mi disse di guardarmi le spalle, di stare attento. Mi diede anche un numero di telefono per le emergenze. Però non è mai successo niente. In generale però ho vissuto una situazione di dissenso rispetto ad alcuni colleghi, anzi alla maggioranza, del mio dipartimento: filosofia era ancora influenzata da Vattimo. In quel momento mi trovai in una serie di situazioni isolato ma per essere per essere onesto non mi è mai successo niente. Torino è un luogo in cui c’è una presenza antiebraica come si è visto di recente ma é almeno negli anni in cui ci sono stato io fino al 2019 non ho avvertito uno speciale pericolo”.
Lei è praticante ma anni fa ha scritto un libro che si intitolava Per il politeismo.
“Quel libro io non l’ho rifiutato. Intanto quel “per” era un moto per luogo. Cioè non voleva dire di essere a favore ma che bisogna pensare passando per questo politeismo. Era un’immagine consapevolmente provocatoria. Il senso di quel titolo, che a me pareva ovvio, era l’idea che in democrazia è importante ci sia una pluralità di valori e di pensieri. E che non debba esistere un’etica di Stato, una teologia di Stato in cui si decide una volta per tutte quello che è buono e quello che è cattivo. Io ho trovato sempre pericolosissimi i buoni; tutto sommato è meglio avere a che fare con dei farabutti che con qualcuno che ce l’ha con te perché pensa di essere lui solo nel giusto e non capisce che tu hai le tue ragioni. Se lo guardo oggi quel libro è una tappa importante nel mio rifiuto della sinistra. Una tappa importante nel pensare che la società è fatta di parti e che ogni parte di parti che possono essere gruppi sociali, gruppi religiosi, depositari di identità nazionali. Tutte cose avversate dal pensiero dell’uniformità che è molto forte oggi. Caratterizza quelli che sostengono l’Unione europea e l’ONU e per i quali ci sarebbe una sola etica giusta, un solo sistema di valori giusto. E che ogni considerazione andrebbe sacrificata rispetto a questa idea. A me sembra molto molto pericolosa. Sembra sempre imperialista, sembra lo stato etico di Hegel. Quindi non mi pento di quel libro anche se oggi forse non avrei il coraggio di fare un titolo cosí provocatorio perché penserei di prendermi una serie di schiaffi”.
Lei è un conservatore?
“Io non so se definirmi oggi un conservatore. Ho letto con molto interesse Roger Scruton per esempio, conservatore nel senso anglosassone. Anche il libro di Yoram Hazony sul nazionalismo mi è molto piaciuto. Secondo me è importante recuperare oggi questa logica in una situazione in cui da un lato ci sono degli imperi che non dicono di essere imperi ma che lo sono e stanno cercando di consolidarsi e dall’altro in cui c’è una retorica dei diritti dei lavoratori che è una retorica conservatrice. Progressismo e conservatorismo si sono scambiati i temi se non i ruoli cosa che si vede anche nei risultati elettorali. Quelli che in questo momento vogliono conservare o ritornare indietro a uno stato di cose peraltro fallito sono le sinistre mentre il cambiamento, il tentativo di trovare nuovi equilibri siano invece prevalentemente appannaggio della destra. Una situazione che è difficile paragonare a quello che succedeva 50 anni fa. Credo che ci sia un grande problema di cultura politica cioè che ci sia poco pensiero, poca filosofia politica in questo momento. Vedo che si lascia spazio a personaggi e anche a stili di pensiero come la geopolitica che sono in realtà molto superficiali. Ci sarebbe bisogno di ripensare le ragioni e i fini della convivenza. E’ uno dei lavori che vorrei provare a fare ma data la mia formazione non è facile per me spostarmi su questo terreno”.
L’ho vista ritwittare cose di Salvini.
“Salvini in una certa fase mi è piaciuto e mi è sembrato demonizzato. C’è una c’è una macchina dell’informazione che cerca di triturare gli avversari senza riconoscerli. Faccio un esempio che non c’entra con Salvini: ho visto un’intervista che Hazony ha fatto a Viktor Orban. Beh, io avevo un’idea fattami sulla stampa di Orban come di un rozzo macellaio. No, un aspirante dittatore. Su certe cose che dice sono d’accordo, su altre non sono d’accordo ma è un politico serio, capace di argomentare e anche con una notevole cultura. La stessa impressione ce l’ho su Netanyahu che è diventato l’uomo nero come prima lo era stato Sharon. Netanyahu è un politico fine ed esperto che pensa molto e che certamente non è estremista ma cerca di mediare. E però viene dipinto in maniera assolutamente caricaturale della stampa. Credo che tutti quelli che oggi pensano e dicono che Meloni sia Mussolini al potere stanno facendo un errore stupido o una speculazione; in una politica che è così variabile bisogna giudicare le persone e i movimenti per quello che fanno”.
Cosa pensa dei media?
“Ho capito che non posso fidarmi dei giornali. Ho sempre pensato che sarebbe stato utile avere un giornalismo che praticava davvero i fatti separati dalle opinioni. Mi meraviglio molto del fatto che nella crisi del giornalismo che c’è oggi che è drammatica i giornalisti in generale non si pongano il problema di dare un servizio al lettore come era in origine il giornalismo. Rispetto a un elettorato vasto ma comunque di élite, perché non fornire quella merce rara che sono le informazioni controllate, esatte, sobrie? In questa maniera tu giornale ti metteresti al mio servizio e mi venderesti una merce preziosa come il panettiere riesce a vendermi del pane buono perché non c’è nessun altro che lo fa così. Ma oggi non c’è nessun giornale che prova a farlo mentre tutti cercano di spiegarmi come dovrei pensare. Cioè di convincermi che dovrei fare questo o quell’altro, non solo in tempi elettorali, ma sempre. La conseguenza è che quindi uno deve andare in giro a cercarsi le cose in rete, con tutti i rischi che questa cosa comporta”.