Stasera ci riuniremo tutti intorno al festoso tavolo del Seder, per commemorare e celebrare la storia della liberazione del nostro popolo dalla schiavitù egiziana. Leggeremo l’Haggadah, la nostra guida per tutta la sera, con la quale raccontiamo la nostra storia che descriviamo anche con l’aiuto di vari cibi simbolici che abbelliscono la tavola del Seder.
Eppure, quest’anno la gioia della festa si mescola al dolore, alla tristezza e all’ansia. Ci sono così tante sedie vuote in così tanti Seder: quelle degli ostaggi ancora prigionieri, quelle militari di leva, quelle dei riservisti tornati in prima linea, quelle di coloro che rimangono in ospedale per le ferite riportate in battaglia o negli attentati, o quelle degli sfollati dal nord e dal sud che ancora non possono tornare alle proprie case e infine quelle di tutti coloro che hanno perso la vita a partire dal 7 ottobre.
Il peso è diventato ancora più pesante due sabati fa, quando i missili e i droni iraniani sono piovuti su Israele, incutendo paura nei cuori degli israeliani in tutto il Paese. Quest’ultima escalation nella campagna iraniana volta a distruggere la nazione ebraica, minaccia la nostra stessa esistenza e instilla un’angoscia ancora maggiore nelle menti, già sovraccariche, di tutti noi.
Come dovremmo concentrarci sui messaggi della festa?
Libertà, appartenenza popolare e redenzione di fronte agli eventi estremamente tragici e terrificanti degli ultimi sei mesi?
Forse la risposta sta nella dualità della narrativa del Seder e dei suoi simboli.
La Mishna (Pesachim 10:4) presenta l’inquadratura attraverso la quale ci viene comandato di leggere il racconto dell’Esodo: Matchil bignut, umisayem beshevach – inizia con la vergogna e termina con lode. Per raccontare la storia della nostra liberazione dalla schiavitù in Egitto dobbiamo iniziare la nostra rivisitazione raccontando la schiavitù stessa.
Poi possiamo proseguire verso la redenzione.
Questa inquadratura, che fa spazio sia alla schiavitù sia alla redenzione, si manifesta anche negli oggetti simbolici sulla tavola del Seder.
La Matza che mangiamo viene presentata due volte nel Maghid: prima nell’HaLachma Anya, vedendo nella Matza il pane dell’afflizione mangiato mentre i nostri antenati erano ridotti in schiavitù in Egitto, e poi di nuovo alla chiusura della sezione Maghid, dove la Matza celebra la redenzione, ricordandoci la frettolosa partenza dall’Egitto, che non lasciò agli ebrei il tempo di far lievitare gli impasti del pane.
Lo stesso vale per il Maror, le erbe amare.
La Mishna (Pesachim 10:5), citata nell’Haggadah, attribuisce al Maror l’amarezza della schiavitù (Shemot 1:14), tuttavia Rav Chaim ibn Attar, nel suo magistrale commento, (Or Hachayim Shemot 12:8), insegna che il Maror deve essere mangiato con il Korban Pesach per accentuarne il gusto. Persino il Maror ha dunque un duplice scopo, e si collega a entrambe le dimensioni di Pesach: la schiavitù e la redenzione.
Questo vale anche per le quattro coppe di vino.
Da un lato, sono tradizionalmente associati alle quattro espressioni di redenzione dall’Egitto (Esodo 6:6-7; Yerushalmi Pesachim 10:1; “via farò uscire, vi salverò, vi redimerò, vi prenderò”). D’altra parte, lo Shulchan Arukh (Orach Chayim 472:11) nota una preferenza per il vino rosso poiché ricorda il sangue dei bambini ebrei versati dal Faraone mentre li faceva gettare nel Nilo.
Anche il Charoset, secondo il Talmud (Pesachim 116a), racchiude in sé un duplice significato: riporta alla nostra memoria sia i profumati meleti in cui le donne ebree facevano nascere segretamente i loro figli, sia la malta che gli schiavi avrebbero preparato e utilizzato durante il loro lavoro massacrante. Ognuno di questi simboli ha due strati di significato, uno di Ghenut/Avdut (denigrazione e schiavitù) e uno di Shevach/Gheula (lode e redenzione).
Tuttavia, a differenza del racconto della storia, che segue una chiara traiettoria cronologica, ai simboli sul nostro tavolo Seder oggi è negato il lusso di iniziare con la tristezza e di viaggiare verso la gioia.
Al contrario, la Matza, il Maror, il vino e il Charoset quest’anno sono costretti a tenere insieme l’intera storia, a guardare contemporaneamente la tragedia e il sollievo, il dolore e la guarigione, la sofferenza e la speranza.
Questa mescolanza ci parla così chiaramente quest’anno.
Celebreremo il nostro popolo, il nostro Stato e il nostro futuro luminoso, senza perdere di vista tutto ciò che resta rotto, le sedie vuote, i sacrifici insopportabili e le prove continue che il nostro popolo deve affrontare. Porteremo con noi tutto questo dolore a quest’anno Pesach, mentre ricorderemo la l’uscita dall’Egitto e sogneremo la nostra redenzione finale.
Può sembrare pesante questo fardello, ma queste sensazioni non sono in opposizione tra loro, sono complementari: la storia del nostro popolo, nel corso della storia e in questo momento, racchiude in sé entrambi questi poli.
Siamo sia un popolo redento sia un popolo in uno continuo stato di sfida, con il profeta Eliyahu e l’angelo della distruzione che bussano simultaneamente alla nostra porta nella notte del Seder. Perché questa è la danza ebraica verso l’eternità.
La nostra sfida per questo Pesach è non perdere di vista nessuno dei due aspetti, facendo spazio al dolore e alla speranza, pregando che non passi molto tempo prima di cantare una nuova canzone sulla nostra salvezza e sulla redenzione delle nostre anime, a tutti auguro un Pesach kasher wesamech!!