Le ultime righe della Torà
Le ultime righe della Torà, raccontano la morte di Mosè e ne tessono le lodi: “non è ancora sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore aveva conosciuto faccia a faccia; per tutti i segni e i prodigi che il Signore gli aveva mandato a fare in terra d’Egitto, al Faraone, ai suoi servi e a tutta la sua terra; e per la forza dimostrata e le cose grandi e terribili che Mosè aveva operato agli occhi di tutto Israele ”(Deut. 34:10-12).
Strano epitaffio e strano epilogo di una grande storia. Intanto un problema: chi ha scritto queste parole? Perché se Mosè è, come tradizionalmente si ritiene, l’Autore che ha scritto tutta la Torà, come è possibile che si sia lodato da solo? Non contraddice questo un’altra descrizione della Torà dove si dice che “l’uomo Mosè era molto umile” (Numeri 12:3)?
Per chi commenta la Bibbia, una domanda non ha mai una sola risposta. La soluzione più logica è ammettere che Mosè abbia scritto tutta la Torà, tranne le ultime righe, che sono state invece scritte dal suo successore Giosuè. Qualcun altro invece spiega che Mosè quando scriveva era ispirato dall’Alto, praticamente doveva scrivere quello che gli veniva dettato, anche le sue lodi. Che poi sono lodi strane: perché Mosè è stato l’inviato divino che ha sconfitto il potere egiziano, che ha condotto il suo popolo alla libertà, che l’ha guidato per quaranta anni di peregrinazioni nel deserto, che ha ricevuto le tavole della legge, che ha trasmesso l’insegnamento divino, che è stato supplice della salvezza del suo popolo in difficoltà dopo il peccato, sfidante del potere politico più grande dei suoi tempi; ma che è stato caratterialmente impulsivo fino all’omicidio, generoso difensore di deboli e oppressi, in continuo dubbio sulla sua forza e sul successo della sua missione, mite pastore, schivo dal potere, con difficoltà di parola; in una apparente continua contraddizione. Di tutto questo percorso la Torà alla fine ricorda la sua qualifica di profeta, che significa parlare a nome di un Altro; il suo contatto speciale con Dio “faccia a faccia”, le sue imprese egiziane, condotte non autonomamente come un’impresa politica, ma come esibizione di miracoli; la potenza e il carisma dimostrati davanti alla sua gente.
C’è in questa scelta biblica un indirizzo preciso, la volontà di smontare ogni possibile culto della personalità. Nessuno è stato più grande di Mosè, nessun essere umano è stato più di lui a contatto ravvicinato con il sacro, eppure quello che ha fatto lo ha fatto in quanto strumento di una forza più grande di lui, che ha incarnato, usato e ostentato; ma l’uomo rimane uomo, anche nella sua grandezza. Su questo ruolo umano insistono le sottolineature del testo.
Se, come si è visto prima, è detto che “l’uomo Mosè era molto umile”, è anche detto che “l’uomo Mosè era molto grande in terra d’Egitto agli occhi dei servi del Faraone e agli occhi del popolo” (Esodo 11:3). Attenzione, non semplicemente “Mosè”, ma “l’uomo Mosè”. Attraverso questa umanità passa anche il gioco dell’identità personale; ce ne vuole perché Mosè, strappato alla famiglia in età neonatale e allevato alla corte egiziana, recuperi la sua identità originaria; esule dall’Egitto in terra di Midian, viene identificato come un “uomo egiziano” (Esodo 2:19), la stessa qualifica che la Torà usa per definire un ministro, capo dei coppieri (Genesi 39:1) e un aguzzino (Esodo 2:11). La trasformazione dell’uomo Mosè è in crescita; elemento che risalta a confronto con un’altra storia di trasformazione di uomo, questa volta in discesa, quella di Noè, che dapprima è uomo giusto (Genesi 6:9) e alla fine è “uomo della terra” (Genesi 9:20).
Mosè, per il particolare periodo storico in cui vive, si trova ad assumere diversi ruoli. E’ il condottiero, capo politico, che tratta con il Faraone, gli detta condizioni, lo sconfigge, poi esercita il potere per quaranta anni; è il profeta che comunica le volontà divine; è il sacerdote che istituisce i fondamenti della liturgia. Anche su questo il racconto biblico rivela debolezza e umanità. La regalità di Mosè si affievolisce nel tempo; entra in crisi alla fine dei suoi giorni, quando sembra non essere più all’altezza degli eventi; il popolo ha sete e chiede acqua; la prima volta che era successo gli era stato ordinato di percuotere la roccia, Mosè obbedì e dalla roccia scaturì l’acqua (Esodo 17); la seconda volta, alla fine del lungo cammino desertico, gli viene comandato di parlare alla roccia (Numeri 20:12); Mosè non coglie la differenza e percuote la roccia; l’acqua esce lo stesso, ma Mosè ha finito la sua carriera di leader; non ha capito che sono finiti i tempi del potere con il bastone e che ora è il tempo del potere con la parola. La parabola del suo sacerdozio finisce ancora prima e molto presto, una volta costruito e inaugurato solennemente il complesso del Tabernacolo, le funzioni sacerdotali vengono cedute al fratello maggiore Aharon e alla sua famiglia, con una ulteriore sottolineatura di differenza: la regalità di Mosè finisce con lui e non si trasmette ai suoi discendenti, mentre il sacerdozio, che origina dal fratello, è ereditario. Si noti, in questa catena di eventi e di simboli, lo sviluppo di un tema particolare, quello dell’acqua. Il racconto biblico lega l’acqua a Mosè dall’inizio alla fine. Il suo nome, in realtà egiziano (significa “figlio”) suona in lingua ebraica come “salvato dalle acque”; è sulle acque, che lui non tocca ma fa percuotere dal fratello, che avvengono i primi miracoli-piaghe d’Egitto; è sul mare che si apre che si consuma l’atto finale della liberazione dall’Egitto; è sulla mancanza d’acqua che scoppiano proteste e rivolte contro di lui, con le prove che lo mettono alla fine in difficoltà.
Ma nella simbologia ebraica, quest’acqua che tanta parte ha nella vita politica di Mosè rappresenta anche l’insegnamento, la parola divina. Ed è su questo piano che si gioca la grandezza di Mosè. Sacerdote per breve tempo, re a vita senza eredi, Mosè nella memoria collettiva ebraica diventa immortale per un altro motivo.
I personaggi principali delle storie bibliche vengono ricordati con un attributo dopo il loro nome: i patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, con la qualifica di “nostro padre”, le matriarche come “nostra madre”, Aharon come “il sacerdote”, Saul, David, Salomone, come “il re”, Samuele, Elia, Isaia, e gli altri come “il profeta”; al nome di Mosè, che è stato tutto questo (padre, almeno metaforicamente, re, profeta, sacerdote) si aggiunge invece la qualifica di rabbènu, “nostro Maestro”, ed è l’unico ad averla.
Cosa resta dunque per gli ebrei del condottiero, del liberatore, del legislatore? L’insegnamento! La parola di vita eterna che ha trasmesso all’umanità.