Bernard Henri Lévy – La Repubblica 8/3/2024
Chi avrà sufficientemente a cuore la sorte degli israeliani e degli abitanti della Striscia di Gaza per costringere l’aggressore a cessare il suo mostruoso ricatto?
Un soldato americano, Aaron Bushnell, che si immola con il fuoco in segno di solidarietà con la Palestina. Un elettorato, quello statunitense, che contesta in modo sempre più virulento il sostegno di Biden a Israele. Il Brasile di Lula, il Sudafrica di Mandela che gridano al crimine contro l’umanità, all’apartheid, al genocidio. E ora l’immagine atroce del convoglio umanitario a Gaza City con le decine di morti, alcuni schiacciati dalla folla affamata, alcuni finiti sotto le ruote dei furgoni e alcuni uccisi dai soldati della scorta israeliana presi dal panico.
Quando è troppo è troppo, tuona allora la folla globalizzata. Adesso basta, dichiarano all’unisono le cancellerie, senza quasi eccezione. Ed è un coro di proteste, un tumulto, un clamore planetario, una levata di scudi: è un vento d’odio che soffia su Israele, ma anche, da San Diego a Zurigo passando per Parigi, sulle comunità ebraiche di tutto il mondo.
Poco importa, per tutte queste persone, che sia stata Tsahal stessa, nel dramma del convoglio umanitario, a condurre l’inchiesta che è giunta alla conclusione (cosa poco usuale per un esercito «genocida»!) che parte della responsabilità è proprio dei militari israeliani.
Poco importa che un quinto della popolazione di questo Paese «sotto apartheid» sia composto di arabi, musulmani e palestinesi, che (senza parlare delle minoranze cristiana, drusa o beduina) godono degli stessi diritti dei loro concittadini ebrei.
E tanto peggio per l’allucinante inversione dei ruoli che fa sì che gridino al genocidio gli stessi che invocano la nascita di una Palestina che andrebbe dal mare al Giordano, vale a dire, se le parole hanno un senso, che implicherebbe un’epurazione etnica tesa a liberare la regione da qualsiasi presenza ebraica.
A tanto siamo arrivati. Questi palestinesi immaginari non battono ciglio quando la Cina “genocida” i suoi uiguri, l’Iran i suoi curdi e Putin i ceceni o gli ucraini. Non trovano niente da ridire sul fatto che la Turchia neo-ottomana riprenda la sua guerra senza fine contro il popolo armeno. E non mi sovviene di mobilitazioni nelle università quando è uno Stato arabo, la Siria, che uccide non migliaia ma centinaia di migliaia di civili.
Qui c’è di mezzo Israele. Qui c’è di mezzo quel minuscolo Paese che una comunità internazionale ebbra del sangue ebreo versato per duemila anni ha finito per riconoscere ai sopravvissuti della Shoah.
Qui c’è di mezzo un piccolo Paese fragile e minacciato, che di fronte all’attacco terroristico più sadico di tutti i tempi risponde come qualunque democrazia avrebbe risposto al posto suo e come risposero infatti gli Stati Uniti invadendo l’Afghanistan dopo l’11 settembre o la Francia quando bombardò Mosul dopo il Bataclan.
E invece di sostenerlo nella sua legittima difesa lo si accusa di avvelenare i pozzi e affamare i civili; non è più un’opinione, è una demonizzazione; ed è il non-pensiero unico del 2.0 dell’umanità, è la concatenazione dei suoi discorsi e dei suoi riflessi, che danno per scontato che Israele sia «indifendibile».
Di fronte a questa messa in stato di accusa infinitamente triste, di fronte a questa ondata inaudita di odio politico e digitale, di fronte a queste folle smemorate per le quali il pogrom del 7 ottobre 2023 è diventato — tutto sembra indicare — un dettaglio della Storia, quale speranza si può avere?
Che Tsahal, beninteso, continui a fare tutto ciò che è in suo potere per limitare, di fronte a un nemico annidato in mezzo alla sua popolazione e che se ne serve come scudo umano, le morti tra i civili. E che il Paese, una volta finita la guerra, perseveri nella sua volontà, attestata da tutti i sondaggi, di voltare la funesta pagina di Netanyahu.
Ma nell’attesa, se non sei israeliano ma francese, non ci sono chissà quante soluzioni, ce ne sono due. Persistere, come fanno i Monsieur Homais nelle piazze infervorate di tutto il mondo, a scandire «cessate il fuoco!», avrebbe come effetto ineluttabile di regalare la vittoria a Hamas e di vedere la sua aura accrescersi, accrescersi ancora, anche al di là di Gaza, con tutte le conseguenze catastrofiche che si possono immaginare.
Oppure aspettarsi dalla comunità internazionale, e in ogni caso dai Paesi che patrocinano Hamas, che esigano da loro, gli aggressori, due cose semplicissime e che avrebbero come conseguenza immediata di mettere fine a questa guerra atroce e alle sofferenze che genera: liberare non una manciata ma la totalità degli ostaggi israeliani ancora in vita; e deporre le armi riconoscendo, in un modo o nell’altro, la propria sconfitta.
Chi avrà il coraggio di esigere questa cosa? Chi avrà sufficientemente a cuore la sorte degli israeliani e degli abitanti della striscia di Gaza per costringere l’aggressore a cessare il suo mostruoso ricatto, invece di esortare l’aggredito a piegare la testa? Basta, per questo, cambiare programma e pensare, invece di «la Palestina vincerà», «la Pace ora».