La Iggeret ha-Qodesh (Lettera sulla santità, sec. XIII)
Pubblicato in «Annali di storia dell’esegesi» 17/2 (2000), pp. 463-485.
In questo studio mi propongo di esaminare un documento particolarmente significativo che documenta, probabilmente in maniera abbastanza unica per la ricchezza dell’elaborazione concettuale, come il rapporto sessuale fra uomo e donna sia stato inserito all’interno di un sistema simbolico di natura cabbalistica, assumendo un valore altamente positivo e valenze teurgiche che lo inseriscono nel cuore stesso del processo delle emanazioni divine. L’esame di questa opera in particolare, sollecita un tentativo di risposta da dare en passant ad alcune questioni più generali: quale posto occupa la sessualità nella rappresentazione – o meglio nelle molteplici rappresentazioni – di sé elaborate dall’ebraismo nel corso della sua trimillenaria vicenda? Come sono state integrate queste dimensioni fondamentali dell’essere uomo nelle varie immagini che di sé l’ebraismo ha elaborato e proposto nel corso dei secoli? Sono esistite forme di misoginia o di sessuofobia anche in esso? La sessualità necessariamente allontana da Dio, o può essere una via per avvicinarsi a lui? Dopo alcune premesse di carattere generale, concentrerò la mia analisi in un momento particolare, vale a dire quello della rinascita della mistica ebraica nell’area spagnola e provenzale della seconda metà del sec. XIII, limitandomi a qualche breve riferimento relativo alla lunga storia culturale dell’ebraismo, dalle origini del periodo pre-esilico in poi. Oggetto particolare della mia indagine, dunque, è un’operetta per secoli erroneamente attribuita a Mosheh ben Nachman o Nachmanide (Gerona 1194-Terra santa 1270), uno dei primi e più importanti cabbalisti delle cerchie catalane,1 ma in realtà composta da Yosef Gikatilla.
Si tratta di un breve trattato in forma di lettera che ha avuto una grande fortuna ed una vasta diffusione, circolato in molti manoscritti e edizioni a stampa con titoli diversi: Sha‘are ha-Tzedeq (Le porte della giustizia), attestato nei sei manoscritti più antichi; Sefer Qedushah (Libro sulla santità), Iggeret ha-Qodesh(Lettera sulla santità), Sod ha-chibbur (Il segreto dell’unione sessuale), ‘Inyan chibbur ha-Adam el ishto (L’unione sessuale dell’uomo con la sua donna) e Chibbur ish we-ishto (L’unione sessuale fra l’uomo e la sua donna).
Se prendiamo in considerazione la Bibbia ebraica, certamente è chiaro come la dimensione erotico-sessuale sia stata perfettamente integrata nella sua Weltanschauung, del tutto libera da visioni pessimistiche e negative del sesso e della corporeità, mentre non trova posto in essa alcuna forma di sessuofobia, grazie ad un’antropologia profondamente ancorata alla dottrina della creazione compiuta da Dio, in cui tutto è “molto buono”. “Nell’ebraismo il rapporto sessuale è considerato generalmente come il segno del vincolo che assicura l’unione di due persone per tutta la vita nel reciproco sostegno, nel piacere, nella procreazione e nell’educazione dei figli. Non c’è nell’ebraismo l’ossessionante concetto che i rapporti sessuali siano, in qualche modo peccaminosi. Il corpo umano non è stato né divinizzato né rinnegato. (…) Il fatto che la pratica del sesso sia accompagnata da intenso piacere è, per il credente, un’ulteriore prova della bontà di Dio”.2 L’assenza nel giudaismo del periodo pre-esilico e in quello del Secondo tempio di qualcosa di equivalente alla dottrina del peccato originale ed alla conseguente visione di una natura umana decaduta e in potere del male, lo hanno preservato da visioni negative e pessimistiche della condizione umana, almeno fino allo sviluppo dell’apocalittica giudaica negli ultimi secoli prima dell’era volgare. L’esistenza umana si dipana in un rapporto dialettico tra osservanza e non osservanza dei precetti nel quale si gioca la fedeltà all’alleanza con Dio. Nei testi della letteratura profetica e nel Cantico dei cantici, la dimensione erotica diviene uno degli ambiti dell’esperienza umana scelti al fine di illustrare alcune dimensioni fondamentali del rapporto stesso fra Dio e Israele. Scrive a questo proposito Moshe Idel: “Si tratta evidentemente di una parte del mito nazionale che trasfigura la nazione nella sua interezza in un’entità che intrattiene una relazione sessuale con l’altra entità, la divinità. Questa relazione mitica ha poco a che vedere con una mistica”3. Una dimensione percepita e vissuta in una luce di insospettata positività, in un atteggiamento naturale e disinibito che, anzi, vede nella dimensione erotica e sessuale uno degli aspetti della vita umana più adatti ad esprimere qualcosa della realtà divina. Se è fuor di dubbio che l’esegesi ebraica tradizionale del Cantico sia stata – come anche quella cristiana – di carattere allegorico, ciò nulla toglie alla valorizzazione dell’esperienza erotica e sessuale dei due amanti protagonisti del poema, con la descrizione della bellezza del corpo della donna, esaltato anche nei suoi particolari: ombelico, seno, cosce, ventre, ecc.. “L’erotismo di cui è permeato il Cantico dei Cantici, è considerato dalla Bibbia normale e degno della massima considerazione in quanto è alla base di varie forme di corteggiamento finalizzato al matrimonio. Nella Bibbia sono presenti frequenti esempi di erotismo per così dire ‘teologico’. I Profeti si servono spesso di immagini erotiche per descrivere il rapporto tra Dio e Israele”4. Nella concezione del giudaismo rabbinico il comportamento umano è la risultante tra le due pulsioni fondamentali che Dio stesso ha posto nell’uomo: l’istinto cattivo (yetzer ha-ra‘) e l’istinto buono (yetzer ha-tov), dove è significativo che anche quello cattivo è stato posto nell’uomo dal creatore. In alcuni testi rabbinici ci si chiede se esso sia in realtà interamente cattivo e pare che la risposta prospettata sia negativa: “Se non esistesse l’istinti cattivo – osserva il Genesi Rabbah 9,7 – l’uomo non costruirebbe case, non si sposerebbe, non avrebbe figli e non si dedicherebbe agli affari”. Sembra, dunque, esserci una misteriosa necessità anche dell’istinto cattivo, suggestione che pare in qualche modo anticipare di diversi secoli la dottrina cabbalistica della necessità del male nel processo di manifestazione sefirotica delle emanazioni divine, successive al ritrarsi di Dio per far posto alla creazione. L’ebraismo non è mai giunto – se si eccettuano i settari di Qumran e la setta dei Terapeuti – a considerare un valore l’astinenza sessuale o a gettare sulla sessualità l’ombra del disprezzo, in maniera analoga alla sessuofobia che ha caratterizzato alcune tendenze del pensiero cristiano fin dai primi secoli. La sessualità nell’ebraismo – seppur con alcune eccezioni anche di rilievo a cui accennerò – è stata in genere integrata positivamente nel rapporto fra Dio e l’uomo; nulla di più estraneo ad esso del sospetto che il rapporto sessuale tra l’uomo e la donna possa ledere o rendere meno pieno il rapporto dell’uomo con Dio, oppure dell’idea che il legame matrimoniale crei nell’uomo una divisione interiore, difficilmente componibile, tra amore per Dio e amore per la sposa, secondo quanto afferma Paolo (1 Cor. 7,32-34: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!), suggerendo conseguentemente come più perfetto e migliore uno stato di astinenza e di consacrazione totale a Dio, meglio atto a realizzare una relazione piena ed indivisa con lui. È nota la convinzione tradizionale ebraica che, nel momento dell’unione sessuale fra uomo e donna, se questa è compiuta in santità, la divina presenza o Shekinah scende ed incombe sul loro amplesso. L’unione fisica, lungi dall’allontanare l’uomo dalla divinità, nel pensiero rabbinico e nella mistica ebraica è uno strumento per richiamarla vicino alla vita umana e per collaborare alla procreazione, i cui partners nella tradizione ebraica sono appunto tre: l’uomo, la donna e Dio.
Occorre precisare che la proibizione contenuta in alcuni passi della Bibbia ebraica di accostarsi a donna prima di una battaglia o per i sacerdoti, prima di celebrare atti di culto, non possono essere intesi come indecorosa contaminazione di tipo morale, bensì come una forma di depotenziamento dell’uomo, che, invece, deve affrontare questi impegni nella pienezza del suo vigore. Nella concezione dell’Israele antico, originariamente il concetto di impuro non riveste alcuna connotazione di tipo morale. Il contrarre qualsiasi forma di impurità, sia nella sfera della vita (mestruazione, polluzione ecc.) sia in quella della morte (contatti con cadaveri o malattie), nell’ideologia dell’Israele antico, non ha nulla di etico, essendo connotato come un fatto ontologico incolpevole. La contaminazione deriva da un contatto diretto con entità che non sono alla portata dell’uomo, trattandosi di realtà più potenti di lui, in stretta relazione con Dio (vedi la convergenza fra i concetti di sacro-impuro), e che potrebbero annientarlo, allo stesso modo in cui nessuno può vedere Dio e restare in vita. Le impurità connesse al ciclo vitale (la puerpera, il flusso mestruale, l’atto sessuale e il sesso stesso) sono connesse al “principio vitale” sentito come appartenente alla sfera del divino.5 Certamente, anche questo concetto ha subito una evoluzione nel pensiero ebraico dal periodo antico al sorgere dell’apocalittica, soggiacendo ad una certa ambiguità di interpretazioni, sfociata in due concezioni che hanno avuto differenti sviluppi.
Se una valutazione meno pessimistica della sessualità sembra costituire la linea di pensiero prevalente, non sono mancati anche nell’ebraismo movimenti e tendenze che hanno avuto dei problemi ad integrare positivamente all’interno della loro visione il sesso e la donna. Si pensi ad esempio ad una certa misoginia entrata già nel giudaismo rabbinico in forme più marcate dei cenni rilevabili in alcune affermazioni di Qohelet o dei Proverbi, e a movimenti pietisti del periodo medievale e moderno, sui quali ritorneremo, che mostrano una certa affinità con l’attitudine più problematica del pensiero cristiano verso il corpo e la sessualità.
È noto, infatti, come fin dai primi secoli del cristianesimo, parallelamente all’esaltazione della condizione verginale come la più appropriata per il cristiano a vivere in pienezza il suo rapporto esclusivo con Dio, si sia sviluppata una linea di pensiero caratterizzata da forme marcate di sessuofobia che trova espressione nella patristica. È difficile non vedere in questo atteggiamento un retaggio dell’apertura della riflessione cristiana, fin dal suo costituirsi, a linee di pensiero tipiche dell’apocalittica o di matrice greca e gnostica; alla rovescia, ritengo che in linea generale il giudaismo rabbinico abbia conservato un atteggiamento più positivo verso la corporeità e la sessualità proprio per essere stato più chiuso e refrattario all’influsso di queste matrici culturali, restando più ancorato alla radice del pensiero biblico, in particolare all’idea della positività della creazione. “Nella concezione gnostica – scrive Idel – il mondo inferiore deve sforzarsi di copiare la regola superiore dell’androginia o della asessualità. L’attitudine gnostica risulta essere a certo riguardo simile all’attitudine cristiana di fronte alla sessualità: esse costituiscono un aspetto importante del loro più generale rigetto di questo mondo; le escatologie gnostiche e cristiane propongono una salvezza spirituale che riguarda sia la restaurazione dell’androginia paradisiaca sia uno statuto di asessualità per il credente. (…) L’ascetismo cristiano non è altro che un’attitudine più moderata [scil. dello gnosticismo] verso la condizione temporanea del mondo fino alla seconda venuta del Salvatore. L’istinto sessuale è stato sia obliterato, sia parzialmente sublimato sotto forma dell’amore del Cristo”.6 In particolare la Qabbalah, all’interno dell’ebraismo, piuttosto di tentare di sopprimerla o di sublimarla, ha cercato di integrare la libidoall’interno della sua visione del divino e delle sue emanazioni e di valorizzarla come atto teurgico che incrementa la presenza divina nel mondo e favorisce il processo sefirotico di restaurazione della pienezza della divinità, dopo la sua contrazione (Tzimtzum) resasi necessaria dall’atto creativo.
Certamente, se una visione più positiva e meno sessuofobica pare essere prevalente – con le debite eccezioni – nell’ebraismo, per completezza e oggettività occorre menzionare anche alcuni movimenti che hanno sviluppato tendenze di segno opposto. Mi riferisco ad esempio al Chassidismo tedesco dei secoli XII-XIII, fiorito pressoché contemporaneamente al movimento cabbalistico che ha prodotto la nostra Lettera, e che ha espresso le sue idee nel Sefer Chassidim. Nella sua visione la donna diviene un essere problematico all’interno di una ideologia della “rinuncia ascetica [che] si fonda su una buia e spesso alquanto pessimistica valutazione della vita. (…). Il chassid deve lottare contro tutto ciò che lo attira nella vita di ogni giorno…chi ora si tiene lontano dalle tentazioni di questo mondo, e allontana il suo sguardo dalle donne, in seguito vedrà lo splendore della Shekinah, la Gloria, e nell’aldilà avrà il suo posto tra gli angeli”7.
Ancor più marcate sono le forme di sessuofobia insinuatesi nel Chassidismo polacco dei secc. XVII e XVIII, come reazione agli eccessi di movimenti come il Sabbatianesimo e il Frankismo o di altre sette che avevano infranto il divieto dell’incesto affermando forme sfrenate di vitalismo che si esprimeva in pratiche orgiastiche intese come via mystica verso il divino. “Il rischio che ha atteso al varco la cabala ebraica medioevale non riguardava tanto una spiritualità esagerata che disprezzava l’amore ‘carnale’, quanto un’esplosione di relazioni sessuali percepite come positive al di là dei limiti della halakah”.8 È questo il motivo per cui si assiste in alcuni movimenti come il Chassidismo ad una reazione di segno contrario, caratterizzata da una diffidenza verso la sessualità e dall’abbandono dell’uso del simbolismo sessuale. Questo atteggiamento ha raggiunto la sua massima manifestazione nel movimento degli Haredim (letteralmente: i tremanti, i pii), ossia gli ultra-ortodossi insediatisi in Israele e negli Stati Uniti prima e dopo la loro quasi totale distruzione perpetrata dalla Shoah. Per essi lo scopo esclusivo del rapporto sessuale è la procreazione e in esso il piacere non deve avere alcun ruolo. In alcuni gruppi più rigoristi “i rapporti sessuali fra una coppia di sposi devono essere i più brevi e privi di emozioni che sia possibile, mentre anche solo il desiderio di un’esperienza sessuale più prolungata è considerata come eccessiva e peccaminosa”9. È risaputa la pratica diffusa fra alcuni di loro per cui marito e moglie si uniscono sessualmente nel tempo più breve attraverso un foro praticato in un lenzuolo, in modo che le altre parti del corpo non vengano a contatto fra loro e non si veda la nudità del partner. Questi movimenti, sviluppatisi nell’Europa centro-orientale dal Medioevo avanzato all’epoca moderna, con aspetti di continuità che giungono fino ai nostri giorni, secondo alcuni autori potrebbero essere stati influenzati, oltre che da tendenze pietiste, anche da Maimonide e della sua sintesi fra filosofia aristotelica e giudaismo. Essi non costituiscono la linea di pensiero prevalente all’interno della tradizione ebraica, mentre mostrano per alcuni aspetti una certa convergenza con l’attitudine del cristianesimo verso la sessualità. È stata la qabbalah rifiorita nel sec. XIII ad assumersi il compito di esprimere con maggiore ricchezza la valorizzazione della dimensione sessuale nella costruzione del suo sistema simbolico, prendendo le sue difese contro il suo deprezzamento operato dalla filosofia nella sua forma neoplatonica ed aristotelica, entrata quest’ultima con Maimonide in maniera massiccia nel giudaismo. L’operetta di cui ci occupiamo è forse il testo che in maniera più diretta ed esplicita compie questa operazione: in esso per la prima volta all’interno del giudaismo si dedica una riflessione esplicita e organica al significato dell’unione sessuale elaborando una vera mistica del matrimonio.
La Lettera sulla santità altrimenti nota anche come Porte della giustizia e Il segreto dell’unione sessuale. Non si può affrontare lo studio di questo testo, che considero un piccolo gioiello della rappresentazione che l’ebraismo della fine del sec. XIII ha dato di sé sotto l’impulso del rinnovato interesse per le dottrine esoteriche, senza rifarsi al magistrale studio che le ha dedicato Charles Mopsik, apparso nel 1986.10 L’operetta è stata quasi unanimemente attribuita a Mosheh ben Nachman o Nachmanide (1194-1270), fino a che Gershom Scholem nel 1944 ha dimostra sulla base dello stile e del contenuto che non può essere sua, e ha proposto di attribuirla al cabbalista castigliano, discepolo di Abulafia, Yosef Gikatilla (1246 ca.-1325) che si è dedicato al mistero dell’unione sessuale anche nella sua opera Ginnat egoz (Il giardino delle noci)11. La Lettera, probabilmente composta tra il 1290 e il 1310, conobbe una larghissima fortuna, come attestano i manoscritti e le varie edizioni a stampa. Per quanto riguarda i primi ne abbiamo contati ben 38 giunti fino a noi, di cui il più antico, conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, fu copiato a Lerida nel 1328, verosimilmente pochi decenni dopo la composizione dell’originale. Esso si aggiunge ad altri tre manoscritti del sec. XIV. Si potrà osservare come su 38 manoscritti 8 siano vergati in grafia sefardita mentre ben 18 siano stati copiati da scribi italiani e solo 4 da scribi ashkenaziti; questo potrebbe dimostrare l’importanza che la nostra penisola ebbe nel diffondersi e consolidarsi della mistica ebraica nei secoli XV e XVI.
Ecco di seguito la lista dei manoscritti esistenti:12
- Ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Plut. II 41/6, ff. 186r-195r Sha‘are ha-Tzedeq; copiato per proprio uso da Yitzchaq ben Yosef ben Chilo; nota di possesso di Shemu’el ha-Qatan ben Mosheh da Perugia; scrittura sefardita, Lerida 1328. Si tratta del manoscritto più antico in nostro possesso.
- Ms. Roma, Biblioteca Casanatense 3087/21 (Sacerdote 180), ff. 80v-84v Sha‘are ha-Tzedeq; scrittura italiana, sec. XIV.
- Ms. Parma, Biblioteca Palatina Cod. Parm. 3532/1 (Perreau 086), ff. 3r-11r Sha‘are ha-Tzedeq; scrittura italiana, sec. XIV.
- Ms. New York, Jewish Theological Seminary ms. 1609/25, ff. 170r-177v Sefer qedushah le-ha-Ramban z’’l; scrittura corsiva sefardita, sec. XIV.
- Ms. London, British Library Add. 17807 (Margoliouth 745/2), ff. 13r-23v Sha‘are ha-Tzedeq; scrittura italiana secc. XIV-XV.
- Ms. New York, Columbia University X 893 G 363, ff. 63r-71r Sha‘are ha-Tzedeq; copiata per se stesso da Mosheh Barzilay in scrittura italiana, Rimini 1400.
- Ms. Vaticano, Biblioteca Apostolica, Vaticano Urbinate 31/6, ff. 155r-163r Sha‘are ha-Tzedeq; copiato, forse in Italia, dallo scriba di origine provenzale Shelomoh ben Netan’el Kokhavi per Yehoshua ben Yo’av; scrittura sefardita, 1405.
- Ms. New York, Jewish Theological Seminary, 1887/19; ff. 66v-74r Iggeret ha-Qodesh scrittura sefardita, sec. XV.
- Ms. Mosca, Lenin State Library, Ms. Guenzburg 134/21, ff. 287v-294v Sha‘are Tzedeq; censura di Camillo Jagel [1629?]; copiato da Yehudah ben Shelomoh da Camerino; scrittura italiana sec. XV.
- Ms. Cambridge, University Library Dd. 4.2.5/1, ff. 1r-16v Sefer Sha‘are ha-Tzedeq we-darke ha-Qodesh le-Rav ha-gadol ha-Ramban z’’l; scrittura sefardita, sec. XV.
- Ms. Escorial, Biblioteca de San Lorenzo de El Escorial G-III-11/13, ff. 143v-153r Iggeret ha-Qodesh; copiato da Qalonimos ben Azariel Yitzchaq ben Qalonimos; scrittura ashkenazita, Portogruaro 1501.
- Ms. Cambridge, University Library Dd.10.11,2/1, ff. 2r-17v Iggeret ha-Qodesh; copiato da Mordekai ben Shelomoh Qafruti (?); scrittura bizantina, sec. XV-XVI.
- Ms. London, British Library, Or. 14056, Sassoon 596/6, ff. 46-62 Sha‘are ha-Qedushah; scrittura sefardita, secc. XV-XVI.
- Ms. Paris, Bibliothèque Nationale héb. 782, anciens fonds 113, ff. 234r-235r Iggeret ha-qodesh (solo parte iniziale); scrittura sefardita, secc. XV-XVI.
- Ms. Roma, Biblioteca Casanatense 2747/7 (Cat. Sacerdote 169), ff. 80v-84v Sha‘are ha-Tzedeq le-ha-Ramban; scrittura italiana, secc. XV-XVI.
- Ms. Vaticano, Biblioteca Apostolica ebr. 231/3, ff. 18r-26v Sefer ha-Qedushah me-ha-Ramban; scrittura ashkenazita, secc. XV-XVI.
- Ms. Paris, Bibliothèque Nationale héb. 769, anciens fonds 272, ff. 238v-248v Sefer qedushah; copiata da Yitzchaq ibn Shoshan a Tunisi, dove si trovava esule dalla Spagna dopo l’espulsione del 1492; scrittura sefardita, secc. XV-XVI.
- Ms. Oxford, Bodleian Library MS Mich. 283 (Neubauer 847/3), ff. 81v-90r Sod ha-chibbur le-ha-Ramban; censure di Alex[and]ro de Cari 1559 (227v), An[ton]io di Medicis 1629; scrittura italiana, Rimini 1527-28.
- Ms. Vaticano, Biblioteca Apostolica ebr. 504/4, ff. 267r-275r Sod ha-Chibbur le-ha-Ramban; scrittura italiana, 1528.
- Ms. Cambridge, University Library Add. 505,3, ff. 7, col titolo Sha‘are ha-Tzedeq scrittura ashkenazita, 1529.
- Ms. London, British Library Add. 27080 (Margoliouth 815/2), ff. 105r-122v; scrittura italiana secc. XVII-XVIII. Copia dell’editio princeps di Roma del 1546.
- Ms. Muenchen, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. hebr. 47, ff. 310v-322r ‘Inyan chibbur ha-Adam el ishto; scrittura shkenazita, Venezia 1551.
- Ms. New York, Jewish Theological Seminary 1665, ff. 16, Iggeret ha-Qodesh; copiato per proprio uso da Avraham ben David Provenzali, scrittura italiana, Rodigo (Mantova) 1556.
- Ms. Budapest, Orszagos Rabbinkepzo Intezet Konyvtara K 53, ff. 91r-101r Iggeret ha-qodesh; note di possesso di Yechiel Chayyim Viterbo ed Eliezer ben Shelomoh da Camerino. Alla fine nota di Censura di Camillo Jaghel del 1615; scrittura italiana, sec. XVI.
- Ms. New York, Jewish Theological Seminary, Ms. 2140/1, ff. 1v-9r Iggeret ha-Qodesh …be-‘inyan chibbur ha-Adam el ishto (non è indicata tipo di scrittura e data).
- Ms. New York, Jewish Theological Seminary 1731/4, ff. 78v-87v, Sha‘are ha-Tzedeq, scrittura italiana, sec. XVI.
- Ms. Oxford, Bodleian Library Hunt. 352, ff. 1r-12v col titolo Sha‘are tzedeq attribuita ad Abraham ben David, scrittura sefardita, sec. XVI.
- Ms. Oxford, Bodleian Library Laud. Or. 220, ff. 278r-285v Sha‘are ha-Tzedeq, scrittura orientale, sec. XVI.
- Ms. Oxford, Bodleian Library MS Opp. 332 (Neubauer 861/4), ff. 137r-144r Iggeret ha-Qodesh, scrittura ashkenazita, sec. XVI.
- Ms. Jerusalem, Ben Zvi Institute, 240/10, ff. 52v-55v Sha‘are ha-Tzedeq; scrittura italiana, sec. XVI.
- Ms. St. Petersburg, Russian National Library Evr. I 518, Chibbur ish we-ishto, attribuita qui a Shemaryah ben Neryah Iqriti; scrittura bizantina sec. XVI.
- Ms. Mosca, Russian State Library, Ms. Guenzburg 320/21, ff. 340v-347r Sefer ha-Qodesh; note di possesso di Avraham ben Shelomoh da Fano e di Shelomoh Refa’el ben Avraham da Fano; censura di Camillo Jaghel 1611, in Lugo; scrittura italiana sec. XVI.
- Ms. St. Petersburg, Russian National Library Evr. II A 492, Iggeret ha-qodesh, ff. 9; scrittura orientale, sec. XVI.
- Ms. New York, Jewish Theological Seminary ms. 1990/21, ff. 171r-178r ‘Inyan chibbur ish we-ishto; censura di Luigi da Bologna; scrittura italiana, sec. XVI.
- Ms. Mosca, Russian State Library, Ms. Guenzburg 1168/1, ff. 3r-15v Sefer Sha‘are ha-Tzedeq le-ha-Ramban; scrittura italiana, secc. XVI-XVII.
- Ms. Roma, Biblioteca Casanatense 3134/1, ff. 2r-11r Sha‘are ha-Tzedeq; scrittura italiana secc. XVI-XVII.
- Ms. New York, Jewish Theological Seminary, 5582/4; esemplare incompleto; scrittura orientale, 1645.
- Ms. New York, Jewish Theological Seminary 2406, Iggeret ha-Qodesh …be-‘inyan chibbur ha-Adam el ishto; scrittura italiana, Fiorenzuola 1739.
Quanto alle edizioni a stampa, la Lettera vide l’editio princeps a Roma nel 1546, e successive tirature nelle seguenti città: Basilea 1580, Cracovia 1594, Salonicco 1595, Altona 1789, Berlino 1793, Lemberg 1858, Amsterdam 1928, Gerusalemme 1930. Recentemente è stata ripubblicata da Ch. D. Chavel (Gerusalemme 1963 assieme agli scritti di Nachmanide a cui l’editore continua ad attribuirla), da I. Zelig Margaliot e B. Klatzkin (Gerusalemme 1971), mentre una pregevole edizione critica è stata curata da S.J. Cohen (New York 1976). L’operetta è stata tradotta in latino, inglese, tedesco, yiddish, francese e italiano.13
I primi cabbalisti a citare la lettera sono Menachem Recanati, vissuto in Italia centrale tra la fine del sec. XIII e la prima metà del XIV, e Yeoshua‘ ibn Shuaib (prima metà del sec. XIV). Molte sono le fonti dirette e indirette dell’opera.14 Le concezioni della medicina ippocratea, e quelle aristoteliche relative all’origine del seme maschile, assieme a quelle di Galeno sui processi digestivi, erano diffuse nel Medioevo dopo la riscoperta dei classici e sono riprese anche dall’autore della Lettera.15 Molte sono, naturalmente, anche le fonti rabbiniche, dai testi talmudici e halakici, ai grandi medievali, fra cui Maimonide, il cui pensiero, pur essendo aspramente criticato su alcuni punti dal nostro autore, costituisce parte integrante della sua visione del mondo e del giudaismo. Molti sono anche gli influssi di opere specificamente cabbalistiche fra cui quelle di Ezra e Ariel da Gerona, Nachmanide, Mosè da Burgos, Yaaqov ha-Kohen da Soria, Todros Abulafia, Mosè de Leon, mentre, com’è ovvio, ci sono molti punti di convergenza fra la Lettera e le opere di Yosef Gikatilla, che ne è l’autore.
Venendo più particolarmente al rapporto sessuale, che ovviamente è sempre inteso fra due persone sposate, occorre dire che Nachmanide – e questa è una ulteriore prova del fatto che non può esserne lui l’autore – afferma che esso è tollerato solo come mezzo necessario alla procreazione, mostrandosi in questo ancor più rigorista di Maimonide, che nell’atto sessuale vede anche uno scopo terapeutico di scarica della tensione istintuale dell’uomo. Nel suo commento a Lev. 18,6 così scrive il maestro di Gerona: “Sappi che il rapporto sessuale è cosa considerata sconveniente e disprezzata dalla Torah, salvo che per perpetuare la specie, per cui il rapporto da cui non nasce nulla è proibito allo stesso modo di quello che non è in grado di procreare e non raggiunge il suo scopo: essi sono proibiti dalla Torah”.
A differenza di questa concezione riduttiva, i cabbalisti in genere insistono non tanto sul valore procreativo dell’atto sessuale, quanto piuttosto sulla sua capacità di accrescere l’immagine di Dio sulla terra e di attrarre su di essa la presenza divina.
Ma veniamo ora ad un esame diretto del testo della lettera. Essa presenta la forma letteraria appunto della lettera, strutturata in sei capitoli “come i bracci del candelabro”, strutturata in una specie di dialogo tra il maestro-autore ed un fittizio fratello-discepolo-lettore. L’impostazione, evidentemente, non è di tipo halakico ma teoretico, mentre lo scopo che l’autore di prefigge è di svelare i segreti per cui l’atto sessuale possa essere compiuto “in nome del cielo”, ossia in maniera santa, svelandone le condizioni perché sia santo e pienamente soddisfacente, nel rispetto della sposa, rivelandone i segreti nessi con il cibo consumato prima dell’atto stesso e la sua digestione, il segreto della forza del pensiero e dell’intenzionalità al fine di generare prole santa, nonché le potenzialità teurgiche di attrarre e incrementare la divina presenza sulla terra.
Il Capitolo I costituisce una introduzione sulla chiamata di Israele ad essere santo come Dio è santo, costituendo anche l’unione sessuale un atto che deve essere compiuto in santità nel rispetto di certe condizioni: se l’uomo santifica se stesso nel momento dell’atto coniugale, genererà figli santi che santificheranno il Signore dei cieli. Questo è realizzabile attraverso cinque vie, che sono illustrate nei successivi cinque capitoli. Esse possono così essere riassunte:
- introduzione sulla chiamata di Israele alla santità (cap. I),
- l’essenza dell’unione (cap. II),
- il tempo dell’unione (cap. III),
- il cibo adatto all’unione (cap. IV),
- il potere dell’intenzione e dell’immaginazione nell’atto coniugale (cap. V) e,
- la qualità dell’atto stesso (cap. VI).
Passiamo ora in rassegna i concetti principali esposti nei singoli capitoli. Nel II si parla dell’essenza dell’unione sessuale affermando che essa, se compiuta al momento giusto e con la giusta intenzione, è cosa santa e pulita e produrrà una goccia di seme santo, che darà vita a figli santi.
“Non bisogna affatto pensare che l’unione carnale sia di per sé qualcosa di scabroso e di brutto, anzi, quando avviene nel modo giusto si chiama conoscenza”16.
Ma l’atto è una forma di conoscenza in maniera direttamente proporzionale al suo grado di santità, perché “se nell’atto non c’è grande santità, l’unione carnale non può chiamarsi conoscenza”. Con questa affermazione l’autore colloca saldamente l’atto sessuale quasi al vertice del processo sefirotico, perché l’uomo simboleggia la seconda sefirah ossia Chokmah-sapienza che emana a destra, mentre la donna simboleggia la terza sefirah: binah-intelligenza che emana a sinistra: dalla loro unione ha origine la sefirah Da‘at-conoscenza, che si trova al vertice dell’asse centrale discendente dell’albero sefirotico. L’unione carnale dell’uomo e della donna realizzano l’unione delle più alte emanazioni divine ed interagiscono positivamente nel processo stesso di manifestazione della divinità, come parte integrante del ma‘aseh merkavah mediante la loro unione e del ma‘aseh be-re’shit quando essa procrea una nuova vita: “questo è il segreto dell’uomo e della donna secondo le vie occulte della qabbalahinteriore”.
È a questo punto che l’autore lancia la sua sferzante critica a Maimonide e alla filosofia aristotelica, da lui assunta come nuovo contenitore categoriale per un ripensamento radicale ed una nuova inculturazione del giudaismo. Ecco la critica:
“Le cose non stanno come pensa e ritiene il rabbi Mosheh (Maimonide) di beata memoria, nella Guida dei perplessi: qui egli elogia Aristotele per quel che ha detto, e cioè che ‘il senso del tatto è un’onta per noi’. Non sia mai. Le cose non stanno affatto come ha detto il greco impuro (scil. Aristotele) e infatti nella sua affermazione vi è una traccia di eresia che è passata inavvertita; se avesse creduto al fatto che il mondo è stato inventato per volontà, questo maledetto greco non avrebbe certo detto ciò”.
Secondo l’autore il motivo che porta Maimonide, sulla scorta di Aristotele, ad affermare che il senso del tatto, ossia la fisicità e la sessualità sono qualcosa di vergognoso, è la mancanza di un chiaro concetto di creazione; in Aristotele, infatti, questa idea ebraica è assente e la materia viene da lui considerata come eterna. Al contrario, la decisa affermazione della bontà anche dell’aspetto fisico, sensibile e corporeo dell’uomo, compresi i suoi organi genitali, è basata dall’autore sul concetto di creazione buona.
“Se dicessimo che la congiunzione carnale è cosa oscena, ne deriverebbe che gli organi della copula sono organi della vergogna. Ma ecco che è stato il Signore benedetto a crearli… Dunque, se gli organi della copula fossero cose oscene, come avrebbe potuto il Signore benedetto creare alcunché di malformato, osceno o difettoso? Se fosse così ne risulterebbe che le sue opere non sono perfette… È detto inoltre: Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono (Gen. 1,31)”.
Al contrario un membro del corpo è buono o cattivo a seconda di quello che fa, non per quello che è in se stesso: come la mano è santa se scrive il rotolo della Torah ed è malvagia se uccide, così gli organi genitali sono santi se servono a realizzare un’unione santa e sono da condannare se infrangono i precetti, commettendo ad esempio unioni sessuali illecite o un’unione non santa. L’unione carnale santa evoca e realizza l’unione mistica dei carri divini uniti, immagine del maschio e della femmina, o ancora l’unione dei cherubini. Questa affermazione è rafforzata con la citazione della tradizione midrashica per cui, quando l’uomo si congiunge alla sua donna con amore e santità, la Shekinah discende su di loro e adombra il loro amplesso; nei nomi ebraici di uomo e donna ’Ysh e ’IshaH è infatti presente la forma breve del nome di Dio YH. Se, al contrario, la loro unione non è santa, da ’Ysh e ’IshaH Dio si allontana e non resta che un fuoco distruttivo, come mostra il fatto che se togliamo dai nomi ebraici ‘uomo’ e ‘donna’ le lettere che ciascuno ha di diversa dall’altro, ossia YH (Yah) Dio, non resta che ESH, ossia fuoco. Dopo aver riferito l’idea talmudici che nella generazione dell’uomo ci sono tre soci, il padre, la madre e il Santo (bNiddah 31a). L’autore ritorna alla sua sferzante critica del “greco”:
“Perciò le parole di quel diavolo d’un greco sono a tal riguardo confutate: quando l’unione carnale è nel Signore, non c’è cosa santa né innocente che le sia superiore. (…) Dunque, la congiunzione carnale fra l’uomo e la sua donna, se è condotta nel modo giusto, è il segreto dell’edificio del mondo e del suo insediamento, e con essa l’uomo diviene socio del Santo, sia Egli benedetto, nell’opera della creazione”.
Maimonide riprende la valutazione negativa aristotelica del senso del tatto nella Guida II,36, dove egli afferma che essa fa parte del livello puramente animale dell’uomo, e loda l’affermazione del filosofo greco che nell’Etica a Nicomaco afferma che esso è una vergogna per noi; il senso del tatto è puramente animale e non ha nulla del livello specificamente umano. Così facendo, Maimonide emette un giudizio negativo sulla corporeità di natura metafisica e, come bene osserva Mopsik, “è il rapporto sessuale stesso che è considerato come un atto puramente animale, senza alcuna valenza propriamente umana e, meno ancora, senza alcun rapporto con qualcosa di divino”17. Mopsik rileva, in proposito, come su questa stessa linea di pensiero si ponga l’atteggiamento prevalente della Chiesa dell’epoca della redazione della Lettera, citando un’affermazione di papa Innocenzo III (M. 1216) per cui: “L’atto sessuale è esso stesso così vergognoso da essere intrinsecamente malvagio”. Nel Commentarium in septem psalmos poenitentiales papa Innocenzo a proposito del Sal. 50,7 (…nel peccato mi ha concepito mia madre) scrive ancora: “Chi non sa che il rapporto coniugale non avviene senza l’ardore della lussuria, senza il sudiciume del piacere, per cui il seme concepito viene insudiciato e rovinato?”.
Per la nostra Lettera, al contrario, l’unione sessuale non è di natura essenzialmente animale e, proprio compiendosi mediante la corporeità dell’uomo, esprime pienamente la sua umanità e la sua somiglianza con Dio. Il problema sta nella capacità o meno di integrare in maniera armonica tutto l’uomo nel suo rapporto con Dio: non solo la sua anima, o il suo spirito, ma l’uomo integrale, che ha anche un corpo o, meglio, che “è” anche un corpo sessuato. Nella concezione maimonidea dell’uomo la corporeità non può far parte dell’immagine di Dio, che è riservata al suo intelletto in quanto esso si unisce a Dio, che è l’intelletto agente. Al contrario per l’autore della Lettera, come per altri cabbalisti, tutto l’uomo partecipa di questa somiglianza, non meno nel suo aspetto corporeo, compresi i suoi organi sessuali, che in quello spirituale. Mopsik, citanto il Sefer ha-Bahir par. 168, così afferma: “Compiere l’atto carnale non significa perpetuare la specie umana nella sua animalità mortale, ma accrescere la somiglianza con Dio, la divinità dell’uomo”.18 Conformemente alle sue categorie aristoteliche, Maimonide associa l’uomo alla forma e la donna alla materia; quest’ultima è buona se e quando è dominata e plasmata dalla forma; è solo nella sua mascolinità che l’uomo è simile a Dio e non per la parte femminile della donna. Dunque l’imago Dei è riservata al maschio-forma, anche perché per Maimonide la donna-materia non ha cervello, mentre è solo per l’intelletto posseduto dall’uomo che egli è simile a Dio. In questo senso la donna nel rapporto sessuale non può esprimere alcun desiderio, poiché ciò equivarrebbe ad una grave insubordinazione e ribellione della materia contro la forma! Su questo punto, ossia la concezione del femminino – afferma Mopsik – filosofia e qabbalah si pongono agli antipodi19. Ma procediamo nell’esame dei capitoli successivi.
Il capitolo III tratta del momento adatto per l’unione. Il rapporto sessuale implica, se fatto in maniera non conveniente, un depotenziamento dell’uomo: per questo, riprendendo il Talmud, Berakot 22, l’autore afferma che l’uomo non deve stare sempre addosso alla sua sposa come un gallo alla gallina. A questo punto l’atto sessuale viene integrato all’interno delle concezioni astrologiche dell’epoca, per cui gli astri esercitano un influsso positivo o negativo sulle azioni dell’uomo. Il tempo più adatto per l’unione coniugale è la notte dello Shabbat, perché questo è il fondamento del mondo e simulacro del mondo delle anime; durante la notte dello Shabbat si compie la rotazione della sfera in modo tale che l’uomo da essa può attingere forza, e compiere l’atto sessuale senza essere depotenziato. Durante questo tempo santo, inoltre, la mente dell’uomo può unirsi all’anima intellettiva che durante lo Shabbat da Dio viene ricreata e donata come supplemento di anima a quella dei sei giorni feriali. Oltre al giorno adatto, vi è un momento propizio in riferimento sia al nutrimento da consumare prima dell’unione, sia all’ora della notte più adatta per essa. Occorre attendere, infatti, che il cibo sia stato digerito, poiché subito dopo il pasto, il sangue è mescolato alle sostanze nutritive, ribolle e non è limpido e cristallino. Questo avviene solo a digestione conclusa, quando il ribollire del pasto è terminato, e il sangue si tempera diventando limpido e puro; è infatti dal sangue che deriva direttamente la goccia di sperma che, a questo punto, sarà pura e limpida, mentre prima di aver raggiunto questo stato di quiete, essa, come il sangue, è torbida, sozza, fetida e corrotta e non potrà che generare figli empi, mentre da una goccia pura e limpida saranno generati figli santi. Queste condizioni favorevoli si verificano intorno alla seconda metà della notte. Ma l’unione sessuale riveste anche una valenza cosmica e rientra nelle leggi che regolano i ritmi cosmici del caldo e del freddo. Nella cosmologia antica, fatta propria dal Talmud e ancora diffusa all’epoca della redazione della nostra operetta, dal settentrione deriva il grande freddo e dal meridione il grande caldo; dato che l’atto sessuale deve compiersi in un clima temperato, occorre orientare correttamente nella stanza coniugale il letto fra settentrione e meridione, perché la goccia di seme non sia fredda, generando un figlio stupido e ignorante, né troppo calda, generando un figlio collerico e turbolento. Se la goccia è ben temperata:
“le energie fisiche potranno riposare e non si spargerà il seme troppo in fretta; si potrà invece possedere la propria donna con calma e allora sarà lei a scaldarsi e a inseminare per prima” dando origine a un maschio.
L’ultima affermazione, sulla scora di Lev. 12,2, si basa sulla concezione tradizionale talmudica per cui, se la donna emette il seme per prima, nascerà un maschio, mentre, se eiacula prima l’uomo, nascerà una femmina.
Vorrei, a proposito del tempo santo dello Shabbat come il più adatto e consigliato per compiere l’unione sessuale fra l’uomo e la donna, che rende presente e attua l’unione sponsale tra Israele e Dio simboleggiato dallo Shabbat-sposa, fare un confronto con alcune affermazioni patristiche relative ai rapporti sessuali dei cristiani nel giorno dedicato al Signore, il dies dominicus. Scrive Origene: “Sconsideratamente entra nel sacrario della chiesa chi dopo un rapporto sessuale e con la sua impurità viene per ricevere temerariamente il corpo di Cristo. Egli disonora e profana il Santo” (Selecta in Ezechielem, 7). Agostino, che auspicherebbe per l’uomo la possibilità di generare senza provare alcun piacere e con un semplice atto della volontà, col quale si comanderebbe agli organi genitali di generare senza libido, come si ordina ad una mano di scrivere (De civitate Dei, 14,16 e 23), afferma che il marito nel rapporto con la sposa “ama in lei il suo essere umano e odia il suo essere donna” (De sermone Domini in monte, 1,15 e 41). Per Agostino il rapporto sessuale uccide lo spirito e, di conseguenza, egli chiede l’astinenza sessuale alla domenica, nei giorni festivi, durante il catecumenato e la preghiera (De fide et operibus 6,8). Ancora Agostino afferma: “Se infatti dal matrimonio si elimina questo [scil. la procreazione che ne è l’unico fine] i mariti non sono altro che turpi amanti, le mogli prostitute, il talamo un bordello e i suoceri dei ruffiani” (Contra Faustum 15,7). Gerolamo, commentando il passo paolino di 1 Corinti 7,5: Non astenetevi tra voi se non per la preghiera e di comune accordo, temporaneamente e poi ritornate a stare insieme, rovesciandone completamente il senso, spiega che: “Se per il rapporto è impossibile la preghiera, a maggior ragione è impossibile ricevere il corpo di Cristo che è di più ..: lo dico in coscienza a coloro che si comunicano nello stesso giorno in cui hanno rapporti sessuali (Epistulae 48,15). Mi rendo conto che, estrapolando alcune citazioni, si rischia di essere semplicisti e troppo schematici, operando confronti apparentemente anacronistici. È vero che ci sono anche padri che mostrano una posizione più aperta e positiva verso la sessualità e che è difficile parlare in termini generali di due entità così complesse come ebraismo e cristianesimo. Certo, queste sono alcune posizioni, comunque espressione di una linea di pensiero maggioritaria e ben radicata nella tradizione cristiana antica, anche se si potrebbero citare altri passi di carattere più positivo sulla teologia patristica del matrimonio. Comunque, pur con queste precisazioni, il fatto che ci sia stata una forma marcata di sessuofobia nel pensiero cristiano espressa da personalità non certo di secondo piano mi pare fuori dubbio. Colpisce l’atteggiamento esattamente opposto tra la concezione dominante dell’ebraismo e le affermazioni di alcuni padri in relazione a rapporto sessuale e giorno santo: il primo consiglia il rapporto sessuale nel giorno dello Shabbat, perché è un tempo santo, i secondi lo proibiscono come sconveniente e profanante proprio nella kuriake emera. Questo atteggiamento nel cristianesimo ha segnato fortemente la mentalità più diffusa sia a livello teologico sia popolare fino a non molto tempo fa, e dobbiamo attendere la dottrina del matrimonio e la riscoperta del valore della corporeità e della sessualità operata dal Concilio Vaticano II trent’anni fa, per assistere ad una vera rivoluzione epocale in questo campo.
Nel Nuovo Testamento, a differenza dell’Antico non c’è spazio per l’eros: lo dimostra il fatto che in esso il termine eros non compare neppure una volta, ma sempre quello di agape o filia. Questo è un problema lessicale assente nell’ebraico, dove esiste un unico termine ’ahavah (come del resto anche nell’italiano ‘amore’) che comprende tutti gli aspetti dell’amore dall’eros, alla filia, all’agape; Jenni, nel Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, definisce ’ahavah come “Il rapporto fra persone (che abbraccia contemporaneamente Eros, Philia e Agape)”20. Questa tendenza, è già rilevabile anche nel giudaismo della diaspora alessandrina degli ultimi secoli prima di Cristo, che ha prodotto la versione greca della Bibbia ebraica. Anche nella Settanta, infatti, il termine eros compare solo due volte: la prima in Prov. 7,18 riferito al rapporto con la prostituta dove traduce l’ebraico ’ohavim plurale di ’ohav, amore; il secondo in Prov. 30, 15-16 dove compare all’interno del seguente proverbio numerico secondo la formula 3+1: Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai: basta! l’Ade, l’amore di una donna (eros gunaikos), il Tartaro, la terra mai sazia d’acqua, l’acqua e il fuoco che non dicono mai: ‘basta!”. L’espressione greca eros gunaikos, ossia ‘l’amore erotico per la donna’, suona nel testo ebraico ‘otzer racham, ossia ‘sterilità’, lett. ‘chiusura dell’utero’, mentre Gerolamo ha: os vulvaeche sembra più vicino al senso del testo greco. Il testo deve essere, ad ogni modo, corrotto, perché le cose elencate dalla Settanta, nonostante la formula numerica introduttiva 3+1, attestata unanimemente da ebraico, versione greca e latina, non sono quattro ma sei. Un’altra osservazione linguistica interessante si può fare a proposito del passo di Cantico 8,6: Poiché l’amore è forte come la morte, dove l’ebraico ’ahavah, amore, è reso rispettivamente dalla versione greca con agape – “un termine poco testimoniato in epoca precristiana all’infuori dei LXX”21 – e da Gerolamo con dilectio. Ciò dimostra come il concetto ebraico di ’ahavah, che comprende tutta la sfera semantica dell’amore: eros, libido, passione, tenerezza, amicizia, amore fraterno, filantropia, amore spirituale per Dio e per gli uomini, già nei Settanta e più ancora nel Nuovo Testamento abbia subito un processo di distinzione e di espurgazione dai suoi aspetti legati alla corporeità e alla sessualità, riservandogli le connotazioni più spirituali, e connotando invece le prime con altri termini negativi come quello di porneia.
Il capitolo IV tratta del cibo adatto all’unione carnale. Il presupposto che sta alla base di questa idea è legato alle concezioni antiche relative all’alimentazione: il cibo si trasforma direttamente in sangue, il sangue produce direttamente lo sperma che, scendendo dal cervello dell’uomo lungo la spina dorsale, giunge agli organi genitali da cui viene inseminato. All’interno di questa visione, le norme alimentari bibliche sui cibi puri e impuri sono spiegate in questo senso: gli alimenti comunicano a chi li mangia le loro qualità, per cui ad esempio la carne dei rapaci, trasformandosi direttamente in sangue e sperma, trasmette la rapacità sia all’uomo che la mangia sia ai figli da esso generati. Oltre alla qualità del cibo occorre fare attenzione anche alla sua quantità: “Infatti qualora il cibo nello stomaco sia troppo, anche se si tratta di ingredienti adeguati, la sua quantità fa si che non sia ben triturato e digerito, tanto da diventare cattivo, torbido e sozzo” e da produrre un sangue e uno sperma della stessa qualità, che darà origine a prole imperfetta.
Il capitolo V tratta dell’intenzione nell’atto sessuale: essa ha la forza di plasmare il frutto dell’azione, come la mente di un artista modella l’opera delle sue mani. Il riferimento biblico è ripreso dall’episodio narrato in Gen. 30,39 dove Giacobbe mostra rami con delle scorzature bianche davanti al gregge durante la monta, e la forza dell’immagine fa generare alle sue pecore agnelli striati e macchiettati. Altro episodio menzionato è quello di rabbi Yochanan, un uomo di bellissimo aspetto che, secondo il Talmud, Berakot 20a, andava a sedersi davanti all’uscita dei bagni dove le donne israelite andavano a purificarsi con il Mikweh o bagno rituale dopo il periodo dell’impurità mestruale per poi unirsi nuovamente ai loro mariti. Esse vedevano la bellezza del maestro e, quando si univano sessualmente ai loro mariti, il nascituro prendeva l’aspetto bellissimo di Yochanan a cui le donne pensavano durante il coito. Ma la cosa potrebbe sembrare banale se, poco oltre, non si spiegasse che la bellezza di Yochanan era in lui un riflesso della concentrazione del suo pensiero in Dio, da cui il rabbi attingeva la bellezza e la forza della Shekinah, comunicandola poi alle donne che lo vedevano uscendo dal bagno rituale. Ancora viene riportato l’esempio di una matrona che, essendo sia lei sia il marito bianchi, generò un figlio nero. Ciò avvenne perché durante l’amplesso ella aveva pensato a un uomo nero. Il pensiero e l’immaginazione, in questa concezione, hanno il potere di plasmare la realtà del nascituro; il vero segreto di ciò è spiegato più avanti: il pensiero ha origine dall’anima intellettiva, la quale proviene emanando dai mondi sefirotici superiori. Quando l’uomo eleva il suo pensiero alle cose celesti e superne, egli attinge con esso nell’alto l’energia divina che, quando discende sulle cose inferiori, è in grado di plasmarle. Dunque, durante l’amplesso l’uomo deve pensare pensieri puri e santi, i quali renderanno pura e santa la goccia di sperma dando origine a figli santi.
“Conviene dunque che egli faccia rilassare sua moglie, che la metta di buon animo, la disponga e la assista con parole gioiose, affinché anche lei sia dedita a pensieri puri e dignitosi. Allora i due saranno insieme nel precetto, perché i loro pensieri saranno una cosa sola, e la Shekinah dimorerà in mezzo a loro, ed essi genereranno un figlio corrispondente alla forma pura che si sono figurati”.
Il pensiero dell’uomo ha il potere di elevarsi in cielo verso la Shekinah e, discendendo, di trascinarla in basso ad informare ed adombrare di sé il suo amplesso con la sposa, permettendo alla Divina presenza di attualizzare la sua energia creatrice e plasmatrice nella generazione di un nuovo essere umano, che farà aumentare nel mondo l’immagine e la presenza di Dio. “Ne deriva – osserva Idel – che l’intenzione mistica dell’uomo, che deve accompagnare l’unione sessuale, può trascinare tanto la luce superiore che la Shekinah inducendole a discendere sull’uomo durante questa medesima relazione. Lo sposo deve elevare il proprio pensiero sino alla sua fonte, al fine di compiere una unio mystica, che sarà seguita dalla discesa di forze spirituali dall’alto sul semen virile; qui, ascensio mentis, unio mystica e reversiosono delle tappe che precedono la concezione ideale”.22
Il capitolo VI splende di rara bellezza quando parla della natura e della qualità dell’atto sessuale medesimo. Ma credo che ogni commento sia inadeguato ed inferiore alle parole stesse del testo che citerò ampiamente:
“Perciò, ogni qual volta ti unisci carnalmente alla tua donna, non comportanti con leggerezza, non dire cose futili e illusorie, non essere troppo spensierato con lei e non parlare più di tanto di cose da nulla. … dovrai dapprima invitarla con parole toccanti e distensive, dovrai metterla di buon umore al fine di legare la tua mente alla sua e la tua intenzione alla sua, dirle parole per un verso invitanti al desiderio, all’unione carnale, all’amore, alla voluttà e alla passione, e per un altro che l’attirino verso il timore del cielo, verso la pietà e la condotta pudica. (…) Perciò è opportuno che l’uomo inviti la sua donna con le parole giuste, alcune mosse da passione, altre dal timore di Dio, e che conversi con lei intorno alla mezzanotte, o all’approssimarsi del suo ultimo terzo…. Nel possederla, non farlo contro la volontà di lei, e non usarle violenza, giacché se l’unione carnale avviene senza tanta passione, senza amore né desiderio, la Shekinah non vi assiste… Conviene invece attrarre il suo cuore con parole di seduzione e di grazia, oltre che con altre degne e compiacenti, affinché l’intenzione di entrambi sia una cosa sola verso il Signore dei cieli… Parimenti non è opportuno possedere una donna mentre questa dorme, perché così non sussisterebbe mutuo accordo, e il pensiero di lei non sarebbe concorde con quello di lui. È bene svegliarla con parole benevole e appassionate, come abbiamo detto”.
Non sfuggirà l’elevatezza e la bellezza di queste affermazioni scritte verso la fine del Trecento. Certamente, la concezione positiva della sessualità come atto teurgico profondamente integrato nella struttura del divino, e nella struttura cosmica del mondo fatto dell’unione di cielo e terra, simboleggiata e realizzata dall’unione dell’uomo e della donna, ha radici antiche nell’ebraismo ed ha visto uno sviluppo particolare nella mistica. “Questa correlazione tra i diversi piani del reale – osserva Idel – ha permesso ai cabalisti di apprendere l’unione sessuale da una parte come una imitatio Dei e d’altra parte come un atto teurgico destinato a produrre uno stato di armonia tra le entità superiori. (…) Le concezioni talora filoniane, talmudiche, midrashiche e cabalistiche della sessualità sono senza ambiguità positive. L’esistenza dei sue dessi è accettata come un fatto che rende l’umanità capace di riprodursi, senza che vi sia la minima insinuazione peggiorativa riguardo alla natura dell’atto sessuale. Il ritorno allo stato androgino originario dell’uomo, comunemente descritto dagli gnostici, o lo sforzo di trascendere la condizione femminile attraverso la trasformazione mistica della femmina in un ‘maschio’, ricorrono nell’antico pensiero cristiano e nello gnosticismo, ma sono estranei alla Weltanschauung del Talmud e della cabala teosofica”23. I cabbalisti hanno integrato la relazione sessuale umana nell’intimo dei processi superiori interni al mondo divino, i quali in qualche modo sono condizionati dall’atto sessuale santo compiuto nel mondo inferiore; avviene esattamente il contrario di quanto si ritiene nella concezione gnostica in cui è il mondo inferiore a doversi adeguare a quello superiore, eliminando le differenze sessuali. Idel ritiene che queste idee cabbalistiche abbiano le loro radici più antiche in una percezione sessualmente connotata del Santo dei santi, così come nella identificazione dei Cherubini con le potenze maschili e femminili, concezioni presenti già nel giudaismo antico. L’autore della nostra Lettera mantiene un atteggiamento ambivalente verso la filosofia, come del resto molti cabbalisti delle prime generazioni: in un’epoca come i secoli XII e XIII, in cui era quasi impensabile una riflessione che prescindesse dalla filosofia aristotelica, massicciamente introdotta nel giudaismo da Maimonide, i cabbalisti percepiscono una tensione insanabile tra filosofia e rivelazione e assumono un atteggiamento critico verso la prima. E ciò avviene soprattutto in un punto specifico: il disprezzo dei sensi e della sessualità: “Se l’autore della nostra Lettera accorda a tale questione una simile importanza, è senza dubbio perché egli ravvisa in essa un punto di divergenza radicale fra la tradizione ebraica e la filosofia del suo tempo”24. Maimonide afferma che l’uomo deve compiere l’atto sessuale con vergogna (De‘ot 3,3) e contesta il passo talmudici di Nedarim 20 (= Kallah rabbati) per cui “Tutto quello che l’uomo vuole fare con la sua donna, può farlo” affermando che, nonostante tale permesso, i pii rigetteranno tutte queste cose abominevoli ed animali.
Concludendo, credo che il grande dilemma di ogni cultura e religione sia quello di come integrare, all’interno di un sistema di pensiero, al tempo stesso la spiritualità dell’uomo e la sua istintualità animale, in particolare l’eros e la sessualità che si manifestano nell’atto sessuale. Anche se si cerca di fare dell’uomo un angelo, egli è e resterà comunque un animale spirituale: a differenza dell’antropologia greca e gnostica, che dissocia l’uomo in un radicale dualismo fra anima e corpo, in lotta e opposti fra loro, nella visione antropologica della Bibbia ebraica l’uomo è un corpo ed è uno spirito inscindibilmente uniti fra loro in profonda unità. In quanto realtà dotata di una potenza, la sessualità è stata di volta in volta divinizzata e demonizzata, esaltata e disprezzata, destino toccato spesso anche alla donna, in quanto incarnazione di questa realtà, invero grazie ad una proiezione maschilista su di lei dei conflitti sessuali dell’uomo. Il pensiero ebraico del periodo biblico riesce indubbiamente a mantenere un equilibrio nel considerare la sessualità come una dimensione essenziale, positiva e normale dell’essere uomo, considerata, in maniera disinibita e naturale, come intrinsecamente buona in quanto derivante direttamente dal Creatore che ha fatto l’uomo maschio e femmina. Queste due sono le caratterizzazioni fondamentali e ineliminabili dell’essere uomo, un uomo che nella sua unione di maschio e femmina realizza in maniera piena l’immagine di Dio che reca in sé. Nel giudaismo del I secolo si insinua una linea di pensiero con qualche aspetto di misoginia25, mentre entra nel pensiero rabbinico il mito greco dell’androgino originario, ossia di un essere al tempo stesso maschio e femmina, in cui le due parti sono unite per la schiena; ma forse questo ai rabbi serve prevalentemente a spiegare l’attrazione fra i sessi dopo la separazione della parte maschile da quella femminile, e il fatto che dopo tale separazione, finalmente maschio e femmina possono guardarsi in faccia in maniera frontale, alla pari, come appare chiaro quando Dio, creando la donna, dice che vuole fare all’uomo un aiuto ke-negdo, ossia ‘come di fronte a lui’, non ‘simile a lui’ come spesso si traduce sulla scorta di Gerolamo.
Il concetto di porneia subisce un’evoluzione radicale nel giudaismo degli ultimi secoli prima di Cristo, passando dall’ambito del puro-impuro come fenomeno fisico senza alcuna connotazione morale, a fatto sempre più connotato in senso etico, parallelamente ad un irrigidimento della morale sessuale divenuto ormai comune al tempo di Gesù. Il peccato di porneia diviene il più grande male dell’uomo e la sessualità stessa l’essenza del peccato. In alcune tendenze apocalittiche del giudaismo, l’essere sessuato dell’uomo sembra gravare su di lui come una pesante ipoteca26. Il giudaismo rabbinico si mostra più liberale rispetto a queste tendenze apocalittico-messianiche, non giungendo né ad un disprezzo della corporeità, né ad un rigetto della sessualità. Con alcune oscillazioni, questa posizione, sarà mantenuta nel giudaismo fino a Medioevo inoltrato, quando l’impatto della filosofia Aristotelica diffonderà una visione negativa del corpo. Sarà l’esoterismo mistico a contrastare l’ideale dei filosofi di un uomo de-corporeizzato e de-sessualizzato, affermando con forza la bontà di queste dimensioni inalienabili e indelebili del suo essere uomo, anzi esaltandone la capacità di metterlo in contatto col divino e di esprimere non la sua parte più bassa e animale, ma la scintilla divina che porta in sé grazie all’immagine di Dio impressa su di lui dal Creatore. Abbiamo visto che, come ci sono dei rischi nell’emarginazione della sessualità e nella sua negazione sessuofobica, non mancano rischi anche nella sua integrazione a pieno titolo nel sistema spirituale della mistica. Lo testimoniano le deviazioni di certe tendenze settarie della qabbalah alle quali abbiamo accennato.
È probabilmente più facile reprimere e sublimare questa dimensione umana, adottando una strategia impaurita di contenimento o di ascetica rinuncia, piuttosto che integrarla in una visione positiva che dia alla sessualità il suo giusto posto anche nella relazione con Dio, adottando, al contrario, una strategia di corretto uso e pratica di essa. Se nelle varie correnti e tendenze dell’ebraismo non sempre l’equilibrio della seconda soluzione è risultato facile da raggiungere, ciò nulla toglie e, anzi, esalta, la bellezza di una visione positiva, come si esprime nella simbolica cabbalistica dell’unione sessuale quale emerge da questo documento, unico nel suo genere, che è la Lettera sulla santità.
Mauro Perani
Professore straordinario di Lingua e letteratura ebraica
UNIVERSITA’ DI BOLOGNA Sede di Ravenna
Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali
via Degli Ariani, 1 – 48100 Ravenna Tel. +39 0544-484782 Fax +39 0544 484717
Direttore del “Progetto Ghenizà italiana”
Segretario dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG)
Membro dell’Executive Committee della European Association for Jewish Studies (EAJS)
E-mail: perani@spbo.unibo.it
Pubblicazioni/Bibliography:
http://www.morasha.it/zehut/mp01_bibliografiaragionata.html
http://www.aisg.it (>soci>Perani)
English summary
This article deals with the mystical view of the sexual intercourse as illustrated in the Letter on holiness, a cabbalistic work attributed for centuries to Nachmanides, but written indeed by the Castilian cabbalist Yosef Gikatilla at the end of the 13th century. After a short examination of the attitudes towards sexuality in Hebrew Bible and in Judaism, compared with the Christian ones, the author examines the mystical interpretation of the sexual intercourse between man and women as described in this treatise, the unique expressly devoted to the sexual aspects of marriage in Judaism. The Letter radically criticizes the Aristotelian philosophy assumed by Maimonides, with its contempt of the human body and the sexuality, considered as an exclusively animal shameful dimension in man. On the contrary, the sexual union between man and women represents and realizes the union respectively of sefirah Chokmah-Wisdom and sefirah Binah-Understanding from whose union emanates the sefirah Da‘at-Knowledge. The latter is situated vertically in the emanation sefirotic three, and from it the divine energy descends from heavens on earth below. The sexual knowledge is a theurgical act part of the emanation process of the divine sefirot, and, if realized in holiness, in the adapt holy time of Shabbat, after eating adapt clean food, it attracts the divine presence or Shekinah upon the united married couple, which will procreate holy sons.
1 Per questo autore rimando al volume M. Idel e M. Perani, Nahmanide esegeta e cabbalista. Studi e testi, La Giuntina, Firenze 1998.
2 L. Caro, Considerazioni generali sulla sessualità nel mondo ebraico, in “La Sessualità. Aspetti religiosi, culturali, sociologici e sanitari”, Atti del convegno di studi svoltosi a Ferrara il 2 aprile 1995, Bologna 1996, pp. 15-19: 15.
3 M. Idel, Cabala ed erotismo. Metafore e pratiche sessuali nella cabala, Milano 1993, p. 11; (non è detto su quale testo è stata condotta questa versione italiana di una conferenza tenuta in inglese dall’autore presso il Jewish Theological Seminary of America di New York, della quale esiste anche una versione francese a cura di C. Mopsik in appendice al suo volume Lettre sur la sainteté. Le secret de la relation entre l’homme et la femme dans la cabale, Paris 1986, pp. 327-358).
4 Caro, Considerazioni generali sulla sessualità nel mondo ebraico, cit., p. 16.
5 P. Sacchi, Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Torino 1994, pp.415-453: 420.
6 Idel, Cabala ed erotismo, cit., p. 37.
7 G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino 1993 (Zürich 1957), p. 105. Si veda inoltre M. Harris, The Concept of Love in Sepher Hassidim; in “Jewish Quarterly Review” 50 (1959-60), pp. 11ss.
8 Ibid., p. 37.
9 Samuel C. Heilman, s.v. Haredim, in Encyclopaedia Judaica, CD-Rom Edition, 1997. Si veda anche di Immanuel Jakobovits la voce Sex,in E.J., ibid.
10 Mopsik, Lettre sur la sainteté. Le secret de la relation entre l’homme et la femme dans la cabale, Paris 1986.
11 G. Scholem, Ha-’im chibber ha-Ramban et Sefer Iggeret ha-qodesh? [Fu davvero Nachmanide a comporre la Lettera sulla santità?], in «Qiryat Sefer», 21 (1944/45), pp. 179-186.
12 I dati sono ricavati dal catalogo computerizzato dei manoscritti ebraici elaborato dall’Institute of Microfilmed Hebrew Manuscripts della Jewish National and University Library di Gerusalemme, e consultabile in rete. Ringrazio il direttore dell’Istituto Benjamin Richler per avermi agevolato questa consultazione.
13 Nell’antologia di testi cabbalistici curata da G. Busi e E. Loewental, Mistica ebraica, Torino 1995, pp. 415-444.
14 Per un esame più dettagliato di questo punto si veda Mopsik, Lettre sur la sainteté, cit. pp. 33-37.
15 Concezioni analoghe sono presenti anche in un testo midrashico, pressoché contemporaneo e già attento alle nuove idee cabalistiche, dedicato alla struttura dialettico-contrastiva del mondo; si veda M. Perani (ed.), Il Midrash Temurah. La dialettica degli opposti in un’interpretazione ebraica tardo medievale, Bologna 1986.
16 I testi sono citati nella traduzione italiana di G. Busi, La mistica ebraica, cit.
17 Mopsik, Lettre sur la sainteté, cit. p. 276, che riporta per esteso i passi di Aristotele e di Maimonide.
18 Ibid., p. 175.
19 Non convince il tentativo di Monford Harris di vedere nella Lettera l’influsso del pensiero di Filone – in particolare della sua opera Sui cherubini e la spada fiammeggiante – entrato mediante lo gnosticismo nel mondo culturale spagnolo dell’epoca; per questo vedi M. Harris, Marriage as Metaphysics: A Study of the ’Iggeret haKodesh, in “Hebrew Union College Annual” 33 (1962), pp. 197-220).
20 E. Jenni, s.v. ??? ‘hb Amare, in E. Jenni – C. Westermann, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, I, Torino 1978, col. 54.
21 Ibid., col. 63.
22 Idel, Cabala ed erotismo, cit., p. 24s.
23 Ibid., p. 35.
24 Mopsik, Lettre sur la sainteté, cit. p. 172s.
25 N.F. Marcos, Exégesis e ideología en el Judaísmo del siglo primero. Héroes, heroínas y mujeres, in P. Sacchi (a cura di), Il giudaismo palestinese: dal I secolo a. C. al I secolo d. C., Atti dell’VIII Congresso internazionale dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo, San Miniato 5-6-7 novembre 1990, Bologna 1993, pp. 107-122.
26 L. Rosso Ubigli, Alcuni aspetti della concezione della Porneia nel tardo-giudaismo, in “Henoch” 1 (1979), pp. 201-245.