Abbracciò tre religioni, attraverso sette frontiere e cinque lingue
Nella foto: Olgierd Łukaszewicz ha interpretato Jakub Frank nel film ‘Daas’ diretto da Adriana Panek
Marco Bennici
A me la definizione di romanzo-mondo non piace, infatti non la utilizzerò. Un libro, un romanzo, può essere più o meno lungo. Contribuiscono a determinarne l’estensione molti fattori. Sicuramente, tra questi, c’è anche la volontà dell’autore di voler scrivere una narrazione ampia, estesa, complessa, enciclopedica. Allora, considerata la vastità delle questioni che possono concorrere alla stesura di un romanzo come i ‘Libri di Jakub’, preferisco parlare di opera. Intanto perché l’autrice del libro, Olga Tokarczuk, edito da Bompiani, si è aggiudicata, a mio parere, il premio Nobel per la letteratura nel 2018 principalmente per questa sua pubblicazione. Poi perché all’interno di essa ha offerto la descrizione di un mondo apparentemente lontano, si parla di Polonia, di Turchia, di Podalia, in un periodo storico carico di eventi, che comprendo tutto il 1700 più o meno, e si parla di eresie e di falsi messia. Sono serviti quattro anni per tradurlo in italiano, dieci perché una casa editrice si decidesse a portarlo alla luce nel nostro paese.
Cominciamo dal titolo. Perché i libri di Jakub? Perché il romanzo è diviso in sette parti: il libro della nebbia, il libro della sabbia, il libro della strada, il libro della cometa, il libro del metallo, il libro dello zolfi, il libro del paese lontano e il libro dei nomi. Attraverso di esse si sviluppa la storia di Jakub Frank, personaggio storico, un “messia” dell’ebraismo polacco del Settecento, una figura come ce ne sono state tante negli ultimi due millenni di storia ebraica. Jakub nasce nel 1726 nel villaggio polacco di Korolowka. Suo padre era un seguace di Sabbatai Zevi, un cabalista di Smirne che costituisce il precedente più immediato di Jakub Frank. Le cronache riportano che Sabbatai Zevi, nella seconda metà del Seicento, aveva infiammato tutta la diaspora ebraica, proclamando di essere il messia atteso e annunciando il ritorno degli israeliti a Gerusalemme, e la liberazione degli ebrei dall’oppressione. Poi, nel 1666, posto dal sultano ottomano davanti all’alternativa tra la condanna a morte e l’apostasia, aveva apostatato, facendosi musulmano. I suoi seguaci più vicini elaborarono una dottrina per cui questa apostasia confermava la qualità messianica di Sabbatai Zevi: essa era un’apostasia necessaria, perché il messia doveva salvare il mondo attraverso l’errore, gettandosi a capofitto dentro l’impurità da redimere. Così centinaia dei suoi seguaci lo imitarono, convertendosi in massa all’islam, Jakub compreso.
Nella figura di Jakub Frank si alternano ombre e luci. E’ una figura contraddittoria la sua, attorno alla cui vicenda si muovono un sacco di personaggi secondari, seguaci, apostoli, semplici curiosi. Il tema del falso messia è abbastanza ricorrente nella storia del popolo ebraico. Se ne parla già nelle cronache di Flavio Giuseppe (I secolo d.C). La questione, oltre che ricorrente, è sempre stata guardata con grande preoccupazione da parte delle autorità. E pare che non vi sia messia senza qualcuno che lo proclami tale. Una questione talmente dibattuta da riportare in luce l’importanza di tornare a discutere, sia storicamente, che teologicamente, dell’unico vero messia che la storia abbia regalato all’umanità. In questo senso Franz Rosenzweig affermava: “Il falso messia è una figura vecchia come la speranza del vero messia: esso è la forma cangiante di una speranza che non cambia”. Da un altro punto di vista il filosofo neokantiano Steven Schwarzschild sosteneva che i falsi messia sono come i medici che Dio occasionalmente manda a risvegliare il malato – il popolo ebraico in esilio – perché il sonno che lo avvolge.
Sullo sfondo c’è la Polonia, un paese che ha sempre avuto un rapporto particolare con l’ebraismo. La Polonia prima della guerra rappresentava, con i suoi tre milioni di ebrei, le diverse anime di questa religione. Un legame che dovrebbe essere meglio approfondito e raccontato. Fino alla proposta, fatta dal rabbino capo di Genova, di fare diventare la Polonia un laboratorio per lo studio dell’ebraismo. Di questo legame, a volte invisibile, a volte contraddittorio soprattutto a causa della Shoa, parla la stessa autrice del libro in un’intervista rilasciata al sito Il Post: «Non si può raccontare la storia della Polonia, almeno dai tempi del medioevo, senza accennare alla presenza degli ebrei. Purtroppo per qualche motivo gli ebrei in Polonia sono di solito associati solo con l’Olocausto, con l’antisemitismo, che in effetti nei confronti del vecchio elemento ebreo era molto forte. Eppure, per molti secoli la convivenza esisteva e andava avanti abbastanza bene».
C’è tutto questo nell’opera di Olga Tokarczuk. Un’opera da affrontare senza pretese di esaustività. E ciò non perché l’autrice del libro non fosse in grado di garantirla, ma semmai perché la stesura del libro è stata fatta, a mio parere, in maniera provocatoria. Si consideri innanzitutto che nel testo sono magistralmente mescolati elementi di finzione a fatti realmente accaduti. Non in un romanzo storico però, ma in un’opera letteraria, enciclopedica, almeno in parte teologica, che rimanda a successivi approfondimenti. L’autrice stessa, nelle pagine finali del testo, richiama due opere Aleksander Kraushar per tutti coloro che fossero interessati ad approfondire la storia narrata del libro. Altri rimandi letterari sono fatti per approfondire il frankismo in Polonia, la dottrina di Sabbatai Zevi, i paradossi della teologia sabbateista. E per un approfondimento sull’ebraismo si richiama il testo ‘Le grandi correnti della mistica ebraica’, Einaudi, Torino, 2008. Un libro da leggere quello di ,Olga Tokarczuk e meditare perché: “E scritto che chi si affatica sulle questioni del Messia, sia pure di quelli falliti, sarà trattato come colui che studia gli eterni misteri della luce”.