Fin dall’inizio dei tempi, quando Adam si lamentò con D-o della sua solitudine, l’uomo ha considerato la solitudine come un’esperienza dolorosa, addirittura una maledizione. L’uomo moderno è particolarmente infastidito dalla solitudine. Nonostante, o forse proprio a causa delle sue gigantesche metropoli, si ritrova spesso solo al mondo e trova insopportabile il silenzio dell’universo e la sua indifferenza ai suoi problemi. È solo e non gli piace.
Forse è proprio questo sentimento di solitudine l’essenza della nona piaga che D-o mandò sugli egiziani e di cui leggiamo nella Parashà di Bo. Il choshekh, oscurità, imponeva agli egiziani un isolamento rigido e terrificante. L’effetto è descritto dalla Torà (Shemot 10:23) come “lo ra’ù ish et achiv”, “non si vedevano”. Tutte le comunicazioni tra un uomo e il suo prossimo cessarono, erano completamente oscurati da qualsiasi contatto con qualsiasi altro essere umano. Riguardo questa piaga è sorprendente leggere l’opinione di Rabbi Yehuda, riportata nel Midrash. I nostri Chachamim si chiedono: “Qual era la fonte di quell’oscurità”? Da dove proveniva? Qual è la natura e l’origine della solitudine? Rabbi Nechemià sostiene che l’oscurità che discese sull’Egitto proveniva dall’oscurità del Gehinom, dagli inferi. La solitudine è una maledizione, una piaga, quindi la sua origine è il luogo della punizione. Ma la risposta di Rabbi Yehuda è sorprendente: La fonte di quell’oscurità veniva dal Cielo, poiché è scritto che “D-o abita nell’oscurità segreta (Tehilim 18:12)”. Si tratta di una risposta sorprendente ma, nella risposta di Rabbi Yehuda, abbiamo una nuova visione del problema della solitudine e quindi della condizione dell’uomo nel suo complesso. L’oscurità, o la solitudine, può diventare una maledizione, come avvenne durante la piaga che afflisse gli egiziani e che separò ogni uomo dal suo prossimo, una solitudine che impediva di condividere il dolore e la gioia, i sogni e la vita, le paure. L’oscurità può davvero essere una piaga, ma la stessa oscurità può essere anche una benedizione. Può essere degna della presenza di D-o stesso perché solitudine significa intimità, significa quella preziosa opportunità in cui un uomo fugge dalla rumorosa quotidianità della vita e dalle continue pretese della società, e nell’intimo ritiro del proprio cuore e della propria anima conosce se stesso e si rende conto di essere fatto ad immagine di D-o. La solitudine, quindi, può essere dolorosa ma può anche essere preziosa. Lo stesso choshekh che può rappresentare una piaga per un uomo se lo isola dagli altri rendendolo cieco ai bisogni dei suoi simili, diventa una benedizione quando consente ad un uomo di diventare più di un semplice animale sociale, sì un membro di un gruppo, ma anche un individuo completo, maturo e unico a pieno titolo. “Yoshev beseter Elyon” (Tehilim 91:1) – D-o dimora nel più alto tipo di segreto o mistero che non può essere penetrato dall’uomo. Ogni persona deve avere una vita interiore, una camera oscura che, nella sua privacy, gli assicura la sua unicità come uomo diverso e individuale ispirato da D-o.
Don Yitzchak Abarbanel, nel suo commento al primo Perek nella Mishnà di Avot, commenta: “Moshe kibel Torà miSinai”, “Moshè ricevette la Torà dal Monte Sinai”. Moshè non ricevette la Torà dal Sinai, bensì da D-o sul Monte Sinai. Si sarebbe dovuto scrivere “Moshe kibel Torà beSinai”, sul Sinai, o “min Hashem”, da D-o. Il motivo per il quale la Mishnà usa questa forma è che la Torà fu rivelata a Moshè grazie alla sua inimitabile capacità di solitudine creativa, perché sul Sinai Moshè si isolò dall’uomo e rimase solo con D-o per quaranta giorni e quaranta notti – perché il Sinai era il luogo in cui “nigash el ha’arafel” (Shemot 20:17), in cui egli nella sua solitudine si avvicinò all’oscurità in cui D-o dimorava. “Moshe kibel Torà miSinai” – Moshè ricevette la Torà in virtù del Sinai, perché apprese il segreto della solitudine, la solitudine che ha dato vita alla Torà. La solitudine, usata correttamente, dà vita alle idee, ai pensieri, all’arte, alla bellezza, all’essenza dell’umanità e a tutto ciò che è nobile nella vita. Cos’è l’ispirazione? Non è altro che il prodotto del silenzio positivo e costruttivo nelle stanze più interne e inviolabili del cuore di un uomo. La fonte della luce è in questo tipo di oscurità o solitudine. E la fonte di questa oscurità è in D-o, è il “choshekh shel ma’ala”.
È quindi della massima importanza per tutti noi che, anche se cerchiamo di bandire la piaga della solitudine perché spesso ne abbiamo paura, non allontaniamo la benedizione della nostra privacy, non rinunciamo a proteggere con zelo i nostri momenti di solitudine, di distacco dalla sempre più pressante e caotica vita quotidiana. Se nelle condizioni della vita contemporanea diventa difficile sfuggire a queste intrusioni nella nostra privacy che avvengono sempre più spesso, per godere dello “yashet choshekh sitro”, della segretezza e dell’unicità della solitudine nella ricerca del sacro, anche attraverso la sola tefillà con il minyan, diventa ancora più importante custodirla con zelo. C’è molta solitudine e molto choshekh nel mondo. L’egiziano ne fece una piaga dell’isolamento – “lo ra’u ish et achiv” – un’incapacità di vedere i propri simili, chi è simile a D-o, invece, farà di questa solitudine un’atmosfera di santità, “yashet choshekh sitro”, un’opportunità creativa per scoprire se stessi e la voce di D-o che ci parla, una finestra che non permette agli altri di sbirciare dentro, ma permette di vedere gli altri e di stare con loro. Questo tipo di choshekh non è la piaga dell’oscurità, ma proviene dalla Sorgente più Alta di tutta l’Esistenza. Dobbiamo imparare a sfruttare quell’oscurità e portare così grande luce nella vita di tutti noi.