A seguito numerose richieste dei lettori sull’argomento, iniziamo la pubblicazione a puntate della rivista Alef-Dac dell’agosto del 1987. Direttore Scialom Bahbout.
Tra le questioni che più agitano il mondo ebraico contemporaneo, il problema di «chi è ebreo?» sta acquistando sempre più peso. La definizione tradizionale dice che è ebreo chi nasce da madre ebrea o si converte all’ebraismo. Entrambi i dati suscitano discussione e polemiche. In questo inserto discutiamo la seconda parte della definizione, quella della conversione. È un problema essenziale, perché coinvolge la duplice natura, etnica e religiosa, dell’ebraismo.
Le opposizioni che si delineano in questi anni in parte rispecchiano il diverso peso che viene dato ad ognuna di queste componenti nella definizione dell’ebraismo: fino a qual punto, ci si chiede, con una maggioranza ebraica che non accetta globalmente il modello religioso, è lecito insistere perché chi si converte osservi le norme tradizionali? Dopo una analisi storica e rituale, focalizzeremo l’attenzione sugli aspetti più caldi e attuali del problema, mediante l’esame delle fonti e l’ascolto dei protagonisti.
Anche in Italia la temperatura del dibattito su questi temi sta salendo; è quindi opportuno che i lettori conoscano direttamente i dati essenziali per partecipare e seguire la discussione. (Dalla introduzione originale del 1987)
La conversione nella Bibbia
Il messia? Discenderà da una proselita
Da quando esiste l’istituto della conversione all’ebraismo? Era possibile a uno straniero nei tempi biblici entrare a far parte del popolo d’Israele? Quali procedure erano necessarie per consentirgli l’integrazione?
Non esiste una risposta univoca a queste domande. Anzi proprio su questi problemi la disparità tra le opinioni della critica e quelle della tradizione sembra estrema, almeno formalmente.
La maggioranza dei critici biblici e degli storici di Israele sostiene l’opinione che la conversione religiosa all’ebraismo, così come la conosciamo attraverso la letteratura rabbinica, non esisteva in tempi biblici. La letteratura rabbinica, all’opposto, ignora questo atteggiamento e anzi fa di tutto per proiettare anche nei tempi più remoti della storia ebraica l’inizio delle pratiche ebraiche di conversione. Quando Abramo arriva in Palestina portando con sé «le persone che avevano fatto in Haran» (Gen. 12:5) si tratta per il Midrash dei primi convertiti all’ebraismo (gli uomini da Abramo e le donne da Sara, e il testo dice ‘avevano fatto’ per dare alla conversione il valore di una creazione: (cfr. RaSHI in loco). Altrove il Midrash suppone una sospensione della attività di conversione per certi periodi, come ai tempi di David Salomone (v. avanti nell’articolo di D. Grosser).
Sembra un contrasto insanabile, ma in realtà molto dipende dalla possibile confusione dei termini impiegati. Vediamo come. Uno dei primi equivoci deriva dall’uso del termine gher, da cui ghijur, conversione.
Nel linguaggio rabbinico gher indica un non ebreo che accetta in qualche modo l’ebraismo: gher toshav, cioè residente, è colui che risiedendo tra ebrei accetta di osservare qualche principio essenziale dell’ebraismo (nell’opinione più corrente i sette precetti noachidi); gher tzedeq è colui che accetta senza riserve l’intera Torà, è il proselita vero e proprio. Nella Bibbia invece queste accezioni e questi significati non sono collegabili direttamente alla nozione gher, che letteralmente indica lo straniero che viene a risiedere in un altro paese; anche gli ebrei sono gherim in Egitto, e Mosè che arriva dall’Egitto, in Midian, vi si considera un gher. Straniero dunque e non proselita; e non si può quindi nella Bibbia parlare di ghijur nel senso rabbinico.
Un altro dato del problema è quello della procedura formale che accompagna la conversione, indicata nella letteratura rabbinica; questa consiste, come è noto, nell’accettazione delle norme della Torà davanti ad un tribunale, accompagnata dagli atti rituali della circoncisione (per i soli uomini), del bagno rituale e dell’offerta sacrificale (quest’ultima legata all’esistenza del Santuario e non essenziale). Di una simile procedura la Bibbia non parla mai esplicitamente. Hanno quindi, almeno in apparenza, una giustificazione formale i critici che sostengono l’esistenza della «conversione religiosa» in tempi biblici.
In realtà la Bibbia parla esplicitamente, o fa presupporre, dei casi di «conversione» o di integrazione all’ebraismo, sia in senso etnico che in senso religioso o in entrambi i sensi; e per quanto riguarda le procedure esse sono, per quanto descritte separatamente, praticamente implicite da diversi contesti. Cominciando da queste ultime: la circoncisione, nel momento in cui viene imposta come seguo del patto tra il Signore e la stirpe di Abramo, è prescritta anche per chiunque nasca nel seno della famiglia o venga acquistato (si parla di schiavi non ebrei): cfr. Gen. 17: 13 e 23. Ancora più esplicitamente, nel crudo racconto della violenza di Dina (Genesi 34), la circoncisione è la condizione imposta dai figli di Giacobbe agli uomini di Shekhem per stringere dei legami di parentela.
Per quanto riguarda la tevillà, l’immersione in un bagno rituale, come ano di purificazione, ha una certa giustificazione logica l’accostamento con le procedure di consacrazione che precedettero la promulgazione del decalogo (Esodo 19:14-15, dove non si parla chiaramente di bagno, ma i rabbini lo presuppongono, non senza giustificazione); l’accostamento è nel fatto che ogni conversione è per il singolo non ebreo ciò che per gli ebrei è stata l’accettazione della Torà ai piedi del Sinai. Inoltre va tenuto presente che l’immersione rappresenta nell’ebraismo biblico, come in quello rabbinico, un ano rituale comune e frequente, che coinvolge uomini e donne in ogni momento di avvicinamento al sacro.
In tempi rabbinici vi erano dei Maestri che sostenevano che un uomo o una donna che non hanno compiuto al momento della conversione il bagno secondo tutte le norme, sono comunque da considerarsi in posizione regolare, perché in ogni caso, partecipando alle pratiche religiose ebraiche, hanno sicuramente eseguito numerose altre immersioni (Tal. Bab. Jevamoth 45b). E’ un opinione che può avere anche qualche influsso sulla regola pratica (Sh. A. Y.D. 268:3), ed è indicativa del significato della procedura.
Esiste poi nella Bibbia, sempre parlando di procedure, un rito preciso per un caso particolare, quello della donna catturata in guerra. La Torà (Detti. 21:10-15) impone un notevole freno all’aggressività sessuale che si può scatenare in una campagna bellica, prescrivendo che una donna straniera, facente parte del bottino di guerra, può essere posseduta solo rispettando i suoi diritti e la sua dignità, e n particolare per ciò che ci riguarda in questa discussione, dopo un preciso rituale di integrazione.
I casi biblici di integrazione nella comunità ebraica, impliciti o espliciti, sono numerosi. Ad esempio in Deut. 23: 4-9 sono disciplinate le unioni con stranieri; con alcuni popoli è proibita qualsiasi commistione; con altri (Edomei ed Egiziani) è ammessa l’unione alla terza generazione (verso 9). Ma terza generazione dopo che cosa? Le possibilità sono due e riprendono l’equivoco della parola gher: può trattarsi della terza generazione dopo l’insediamento dello straniero nella terra d’Israele, come della generazione successiva a una vera e propria conversione; la letteratura rabbinica opta per questa seconda eventualità, anche se si tratta di un problema teorico, perché si ammette che dopo le deportazioni operate dagli Assiri i popoli si confusero, per cui il proselita può immediatamente sposare un ebreo.
Qui si entra in un ulteriore problema critico, di difficile soluzione, i cui termini sono questi. E’ ben noto che la Bibbia vede in cattiva luce le unione sessuali con stranieri. Nonostante il principio, le unioni miste furono numerose, anche da parte di personaggi importanti, per quanto spesso il racconto tenda a mostrame le conseguenze negative. Si unirono con straniere, e ne ebbero figli, uomini come Giuda (con la figlia di Shu’a, Gen. 38), Giuseppe (con Asenat, Gen. 41:45, da cui nascono Efraim e Menashe), Mosè (eon Zippora, Es. 2:21 22), Boaz (con Ruth, Ruth 4:13, da cui discende la famiglia di David), i re Salomone (con Naama 1 Re 14:21, da cui nacque il successore Roboamo), e Achav (con Izevel, I Re 22:40, da cui nacque il re Ahazia). Vi sono poi dei nomi, come quello di Saul figlio della Cananea (Gen. 46:10) che mostrano madri straniere. Ora il problema è questo: una nota regola rabbinica stabilisce che in una unione mista è ebreo chi nasce da madre ebrea. A questo punto i casi sono due: o il principio rabbinico matrilineare non era in vigore in tempi biblici, perché si seguiva la condizione del padre (così sostiene gran parte della critica), oppure il principio era già in vigore, ma allora bisogna ammettere una forma di «conversione» o di «adozione» dei figli, necessaria appunto in quanto figli di straniere, e in proposito il testo sembra piuttosto allusivo: si pensi all’adozione da parte di Giacobbe dei due figli di Giuseppe (Gen. 48:5 e 16) e alla circoncisione fatta da Zippora al figlio (Es. 4:25). Esistono comunque, per quanto meno numerosi, esempi anche sulla eventualità opposta, quella di donne ebree unite a uomini stranieri; in alcuni casi i figli sono inseriti in catene di discendenza ebraica (come 1 Cr. 2:34-35, e ibid. 2:17); in altri casi se ne parla, con implicita riprovazione (il bestemiatore in Lev. 24:10), o con stima (Hiram di Tiro, in I Re 7 13 14 e parallelo variante in 2 Cr. 2:12 13), senza tuttavia definire la nazionalità del figlio.
Molto più importanti rispetto a questi casi singoli sono i capitoli di Ezra (9 e 10) e Nehemia (10 e 13) che descrivono la lotta contro le unioni straniere, in linea di principio sia maschili che femminili, ma in pratica diretta solo all’allontanamento delle donne straniere e dei loro figli (in particolare Ezra 10:3).
L’interpretazione di questi brani è controversa; secondo una linea critica si trattava di donne giudaizzanti (in tutto 113), che furono loro malgrado espulse dalla comunità, per affermare un principio di rigorosa tutela etnico-religiosa in un momento critico della ricostruzione nazionale; decisione giustificata dalle condizioni, ma limitata nel tempo. La tradizione rabbinica, che non ama le eccezioni storiche e preferisce la coerenza del sistema (ma qui giustificata dal fatto che nulla è detto della presunta giudaizzazione delle straniere espulse) sostiene invece che si trattava di donne stamiere, per nulla integrate, anzi idolatre; di qui l’espulsione.
Sul versante opposto di questa posizione di rifiuto sta il caso più importante della Bibbia, divenuto il prototipo della conversione, quello di Ruth la Moabita, protagonista dell’omonimo libro. Da Ruth, proprio a sottolineare l’assenza di preclusioni, discenderà la famiglia del re David. Qualcuno ha voluto vedere in un testo di così netta apertura una polemica contro le scelte dei tempi di Ezra, ma questo scopo polemico è ancora da dimostrare solidamente.
La scelta di Ruth è duplice, con una dichiarazione di integrazione religiosa e nazionale («il tuo popolo è il mio, il tuo Dio è il mio», Ruth 1; 16); la procedura seguita perla sua integrazione non è menzionata, e forse prosegue con il figlio che le nasce, cui viene dato «un nome in Israele» (ibid. 4:15, con un’espressione che ricorda quella usata da Giacobbe) e che viene forse «adottato» da Naomi, l’ex suocera (ibid. 4:16 17).
Un caso di «conversione» all’ebraismo nel senso di un riconoscimento essenzialmente religioso è quello del generale arameo Naaman, guarito miracolosamente dal profeta Eliseo. Naaman ritorna nella sua terra, ma mantiene un impegno di legame con il Signore d’Israele (2 Re 5: 1-18). L’esempio di Naaman e di Ruth non rimarrà isolato. I profeti Isaia (56:3-8) e Zaccaria (2:15) parleranno con termini di conforto, elogio e speranza dei «nilwìm», di coloro che si aggregheranno dai popoli stranieri al servizio divino.
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