Leggiamo in queste settimane la vicenda della schiavitù egiziana. La Halakhah distingue nelle relazioni di lavoro fra ‘eved (“servo”) e sakhir (“salariato”). Assai complessa è la materia e possiamo qui solo schematizzare alcune differenze essenziali. Il servo diviene proprietà personale (qinyan gufò) del padrone. È questi ad assegnargli i compiti da svolgere, sia pur con dei limiti; ad affrancarlo secondo leggi ben precise (Mishnah Ghittin 1, 6; Qiddushin 1, 2-3) e a fornirgli vitto e alloggio (Maimonide, Hilkhot ‘Avadim 1, 6-7). Peraltro, non in tutti i casi il servo ha disponibilità dei suoi beni e non mette da parte uno stipendio; infine, “è soggetto a prestar servizio giorno e notte” (Qiddushin 15a). Il salariato, viceversa, ha solo un vincolo monetario (qinyan mamon): concorda i suoi servizi con il datore di lavoro, dal quale riceve una paga nei tempi prescritti. Ha facoltà di interrompere il rapporto “persino a metà giornata”, a condizione di restituire sotto forma di debito la paga già percepita per le ore non lavorate; “destina i suoi guadagni agli eredi” anziché a un padrone dopo la sua morte e “presta servizio solo di giorno”. Mentre la Torah proibisce a un ebreo di assoggettarsi a un rapporto di servitù (‘avdut), perché egli è soltanto “servo di H. e non servo di altri servi” (a meno di casi eccezionali, comunque deprecati), la relazione del salariato (sekhirut) è in linea di principio permessa e persino auspicabile, a certe condizioni, affinché possiamo guadagnarci da vivere (Bavà Metzi’à 10a e Tossafot ad loc. s.v. ki).
Oggi in Italia si discute sul salario minimo dei lavoratori: esiste un tetto al di sotto del quale va considerata lesa la loro dignità? L’argomento è stato trattato in chiave ebraica alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso negli Stati Uniti, dove la Minimum Wage Legislation era già in vigore e si dibatteva se innalzarla da $3.35 a $4.55 l’ora. Rav Aaron Levine, docente di Economia alla Yeshiva University di New York e autore di importanti testi sull’interazione fra questa disciplina e la Halakhah, dedicò alla questione un articolo (“Minimum Wage Legislation – A Halakhic Perspective”, in “Tradition” 24, 1988, p. 11-27, riassunto in “The Interface between Economics and Halakhah: the case of Minimum Wage Legislation”, in “The Torah u-Madda Journal” 1, 1989, p. 59-67). Rav Levine esordisce richiamando che è fra le prerogative della Comunità Ebraica “la facoltà di adottare provvedimenti in materia di pesi, misure e prezzi di mercato” (Bavà Batrà 8b). Facoltà – va osservato -, ma non obbligo fintanto che non si tratti di calmierare viveri essenziali (Bavà Batrà 90a)!
La legislazione sul salario minimo ha lo scopo di venire incontro alle necessità dei poveri e in quanto tale va considerata una forma di “beneficenza invisibile”. È questo il più elevato degli otto livelli di Tzedaqah descritti da Maimonide: “Non c’è grado più alto che sostenere l’ebreo impoverito dandogli un regalo, un prestito, o facendo società con lui, o trovandogli un lavoro in modo da rinforzarlo economicamente cosicché non debba ricorrere agli altri. A ciò si riferisce il versetto: ‘Lo sosterrai… affinché viva con te’ (Wayqrà 25, 35) e non debba cadere nell’indigenza” (Hilkhot Mattenot ‘Aniyim 10, 7). Se Maimonide si riferiva essenzialmente a iniziative private, è evidente che una politica di questo tipo disposta dalla pubblica autorità ne allarga le maglie nella sfera collettiva. Ma c’è ancora un aspetto che la rende apprezzabile secondo la Halakhah. I nostri Maestri insegnano che l’inattività conduce all’immoralità (Mishnah Ketubbot 5, 5). La prospettiva di una paga più alta dovrebbe attirare un numero maggiore di persone verso un impiego occupazionale. Infine, i Maestri hanno imposto il limite di 1/6 ai guadagni dei venditori di generi di prima necessità (Shulchan ‘Arukh, Choshen Mishpat 231, 20), in nome del principio per cui “la vita di tuo fratello è con te” (Wayqrà 25, 36): si deve saper rinunciare a extra-profitti nelle transazioni volontarie sul mercato al fine di garantire anche alla controparte un livello di vita decente.
Tuttavia, scrive Levine, a fronte di questi benefici vanno prese in seria considerazione anche argomentazioni contrarie. Gli economisti perlopiù ritengono che il salario minimo costituisca un boomerang. Chiedere ai datori di lavoro di alzare le paghe, lungi dal contenere la disoccupazione, porta facilmente a inasprirla, inducendoli a risparmiare forza-lavoro, a sostituirla appena possibile con macchinari automatici e/o a preferire lavoratori esperti in luogo degli apprendisti a favore dei quali il provvedimento viene pensato. Fra i giovani ne trarranno vantaggio soprattutto i benestanti che hanno meno necessità di questi introiti. È prevedibile inoltre un aumento dei prezzi dei prodotti per far fronte ai costi più elevati del personale di fabbrica e anche questo andrà a detrimento dei meno abbienti, ovvero proprio di coloro che si intende tutelare. La proposta portata avanti da Levine per salvare il concetto è di istituire un sussidio governativo ai salari più bassi, che ridistribuisca gli oneri della “beneficenza invisibile” sull’intera società anziché farli ricadere sui singoli datori di lavoro. Nel calcolare l’attribuzione del sussidio si dovrà ancora tener conto del reddito dell’intera famiglia invece di quello individuale, in modo da escludere quelle unità famigliari che già beneficiano di più di uno stipendio. Mi domando se un simile “sussidio di occupazione” – proprio perché premierebbe la buona volontà dei lavoratori meno fortunati – costituisca un incentivo ben più efficace del “reddito di cittadinanza” o “assegno di inclusione” distribuito indiscriminatamente ai disoccupati e oggetto a sua volta di un acceso dibattito nel nostro paese.
C’è peraltro un elemento positivo dal punto di vista ebraico che Levine paradossalmente riscontra nell’adozione di una legge sul salario minimo. Se essa porterà i datori di lavoro ad assumere dipendenti più esperti, più responsabili e quindi più anziani, i nostri giovani avranno più tempo da dedicare allo studio della Torah. L’ideale di una società ispirata alla Halakhah è che “si faccia dello studio della Torah la nostra occupazione abituale riducendo gli affari all’indispensabile per vivere” (Remà a Shulchan ‘Arukh, Yoreh De’ah 246, 21). Commenta Levine che è preferibile che i più giovani, meno incalzati dalla responsabilità di mantenere una famiglia, si dedichino allo studio, lasciando alle persone più mature e più pressate da questa esigenza le opportunità lavorative. I Maestri stabiliscono che se uno studioso di Torah arriva in città gli deve essere garantito diritto di precedenza sui residenti nel trattare i propri affari (Bavà Batrà 22a). Maimonide intende la disposizione come espressione dell’onore che in genere è dovuto ai Talmidè Chakhamim (comm. a Mishnah Avot 4, 5), ma R. Asher spiega che questa disposizione ha la finalità di massimizzare lo studio della Torah. Non vogliamo che lo studioso “debba mettersi in coda” e sprecare così tempo prezioso per la Mitzwah del Talmud Torah (comm. a Bavà Batrà 2, 13)!