Intersezionali a metà. I militanti occidentali pro palestinesi sostengono che la piena integrazione di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali sia una raffinata manovra di Tel Aviv per propagandare la tesi che lo Stato ebraico sia una democrazia. Una scorciatoia controintuitiva che nasconde altro, il solito altro
Nel mondo della identity politics e delle battaglie intersezionali assistiamo sempre più spesso all’utilizzo di categorie fisse per spiegare fenomeni completamente diversi fra loro e generare mobilitazione, soprattutto tra i più giovani. Nel caso del dibattito delle idee che è seguito al massacro del 7 ottobre e alla risposta israeliana, ovviamente, questa dinamica è stata amplificata all’ennesima potenza: così facendo, ad esempio, la battaglia contro il razzismo negli Stati Uniti è diventata tutt’uno con la battaglia contro Israele e per i palestinesi, non soltanto in nome di un vago concetto di giustizia sociale, ma anche in virtù di un tentativo tanto manifesto quanto logicamente sconclusionato di tracciare un’equazione tra la piattaforma di movimenti come Black Lives Matter e le ragioni della causa palestinese.
Alla base di questa visione c’è una nuova “vittimologia” che individua nelle identità fisse dei gruppi la chiave di lettura di tutte le strutture di potere che determinano da sole i fenomeni storici, come ha saggiamente evidenziato Ben Sasse sull’Atlantic. Stesso dicasi per la causa della largamente intesa comunità Lgbtq+, che è stata utilizzata dai “Queers for Palestine” per fondere l’attivismo Lgbtq+ e quello filo-palestinese (proprio in questi giorni una manifestazione esplicitamente ispirata a questo movimento si è tenuta a New York City).
Nei video di questi gruppi emerge un vocabolario che intende mettere sullo stesso piano le ragioni delle due rivendicazioni, operando una scorciatoia logica per cui la radice della discriminazione di entrambi i gruppi sarebbe comune. Secondo questa teoria, pertanto, le due cause non possono progredire se non insieme.
È anche il sottotesto dell’appello “Italian arts united for Palestine”, definito dagli autori una lettera aperta «per una presa di posizione rispetto al genocidio in Palestina». Nel testo dell’appello si imputa a Israele di strumentalizzare «le politiche di integrazione rivolte alle comunità Lgbtqi+ come segno di democrazia», sostenendo dunque che queste siano strumento di legittimazione dell’oppressione.
Alla base di questo “nessuno è libero finché non siamo tutti liberi” c’è il concetto per cui i fenomeni storici e sociali si riducono alla dicotomia oppresso/oppressore, e non – come nel caso del conflitto israelo-palestinese – allo scontro tra nazionalismi (quello arabo-palestinese, da un lato, e quello ebraico-sionista, dall’altro).
Il problema di questi gruppi è che l’idea per cui ogni conflitto o ingiustizia abbiano la medesima origine nega l’essenza stessa del sapere, perché confonde le categorie e ci priva di strumenti analitici. In compenso ovviamente ci consente di scendere in piazza senza farsi troppe domande, o di fare una storia su Instagram contro il “genocidio” dal divano di casa e poi passare alla foto dell’Aperol Spritz senza impegno: vuoi mettere?
La critica di “pinkwashing” nei confronti dello Stato di Israele non è nuova, ovviamente, ma viene amplificata quando il conflitto tra Israele e i palestinesi ritorna in cima all’elenco delle notizie. Alla sua base ci sono alcuni postulati.
Il primo: Israele è essenzializzata. Improvvisamente un Paese di nove milioni di abitanti che conducono le proprie esperienze di vita viene ridotto a una cosa sola, un’entità, una sorta di moloch la cui fenomenologia può essere letta solo e soltanto attraverso una visione manichea e semplicistica di un conflitto lungo più di cent’anni. Così facendo, ogni espressione di quella società non è più segno di dinamiche e di un processo evolutivo, ma è solo l’ennesimo modo per giustificare l’oppressione. In questo senso, sembra quasi che la società israeliana non possa avere un proprio percorso storico se non nella misura in cui ogni singolo individuo e ogni singola manifestazione di quella vicenda storica e umana hanno quantomeno il peso del concorso di colpa. Questo meccanismo mentale è ovviamente il più importante, perché affermandolo qualsiasi altra lettura della società israeliana semplicemente non può esistere. Come tutte le letture manichee è binaria (eterogenesi dei fini, per chi il binarismo vorrebbe prenderlo a martellate): o stai di qua (bene) o stai di là (male).
Il secondo postulato deriva direttamente dal primo e prevede che le persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali d’Israele semplicemente non esistano. Perché è evidente che, se esistessero, il fatto che in Israele si possa vivere apertamente la propria identità senza temere di essere gettati dal tetto di un palazzo in un contesto ostile come quello mediorientale sarebbe una bella notizia di per sé, e questo non dovrebbe produrre inferenze in ordine alla valutazione che ciascuno di noi dà di altre vicende di quella parte di mondo (se non, appunto, un generico sentimento di soddisfazione per l’esistenza di una società tutto sommato libera in quel contesto). Viva Dio esiste o dovrebbe esistere il discernimento, principio supremo alla base di quel “non mischiare le pere con le mele” che sembra essere sconosciuto a chi non dà a Israele il diritto di essere altro se non il contenitore di tutti i mali possibili.
Il punto in realtà è esattamente questo: ammettere che su questo tema lo Stato ebraico ha standard occidentali inserisce una contraddizione intollerabile per un sistema logico chiuso come quello di chi riduce quel Paese a un’entità guidata in maniera deterministica dalla mano invisibile dell’oppressione. D’altronde, la complessità delle vicende umane è nemica del pensiero bidimensionale che governa la fiera dell’indignazione a mezzo social, pertanto è da abbattere.
Ma di cosa parliamo quando ci riferiamo alla condizione delle persone Lgbtq+ nello Stato ebraico? Innanzitutto: in Israele non esiste il matrimonio civile. Le ragioni sono storiche e legate alle frizioni tra laici e religiosi agli albori dello Stato, e sarebbe inutile ricordarle qui. Il tema è molto dibattuto ed è oggetto di malcontento e proteste da parte della maggioranza della popolazione. Per questa ragione, o ricorri a matrimoni religiosi secondo il rito della tua fede, qualsiasi essa sia, oppure sei costretto a sposarti all’estero. L’unica eccezione riguarda le unioni civili per coloro che non appartengono a nessuna fede, ma coprono una esigua minoranza.
Di conseguenza, i matrimoni egualitari contratti all’estero sono riconosciuti e sono validi, e le coppie di fatto sono riconosciute dalle corti come “istituzioni” (do you remember la polemica sulle nostre unioni civili che sono e restano “formazioni sociali”?) che producono effetti in ordine al riconoscimento dei diritti sociali e dell’adozione del figlio del partner, ad esempio (do you remember la polemica sulla stepchild adoption?).
Nel 2023 la Corte Suprema ha anche stabilito che un matrimonio contratto da Israele su Zoom secondo le leggi di un altro Stato (era il caso dello Utah) è comunque valido e produce effetti. In Israele va in scena ogni anno una delle più grandi parate del Pride, le associazioni per i diritti operano quotidianamente, è piuttosto comune vedere bandiere arcobaleno alle finestre delle case o nei luoghi pubblici.
Nell’esercito non vi sono restrizioni relative alla partecipazione della comunità Lgbtq+ dai tempi di Yitzhak Rabin, le persone transgender servono nelle Forze di difesa israeliane (Idf), che coprono i costi dei trattamenti sanitari come le terapie ormonali. Da qualche settimana, inoltre, è stato allargato alle coppie omosessuali il trattamento economico nei confronti di chi ha perso in battaglia il partner. Quanto all’omofobia, le leggi israeliane prevedono esplicitamente il divieto di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale. Ciononostante, non sempre esercitare i propri diritti è lineare, esistono segmenti della popolazione ostili alla comunità Lgbtq+ e la presenza di numerosi vuoti normativi relativamente all’istituto del matrimonio rappresenta il principale ostacolo alla piena parità. Per questa ragione la società civile e parte della politica israeliana sono mobilitate nella battaglia per l’uguaglianza.
Il punto è che l’attivismo dei diritti non vuole sentirsi dire che nello Stato ebraico c’è una società dinamica e plurale, perché questo romperebbe il gioco della pseudo-mobilitazione che riduce le parti in campo a entità prive di sfumature e di pluralità interna, in cui le contraddizioni rispetto alla divisione manichea della realtà sono cancellate perché aggiungono complessità al quadro.
Un movimento che ha a cuore i diritti dovrebbe innanzitutto vedere chi in Israele – come in tanti Paesi occidentali, e come in pochissimi Paesi non occidentali – si spende per quella stessa causa, e non fingere che queste persone non esistano, o che esistano soltanto in funzione della legittimazione delle scelte del governo di Benjamin Netanyahu sulla questione palestinese.
Tutto ciò richiede tuttavia uno sforzo di conoscenza che la maggior parte di chi sta dalla parte dei giusti (e ci tiene a dircelo in ogni modo) non intende fare. Il risultato è paradossale: si tace sulla repressione violenta degli omosessuali nella politica palestinese e si cancella l’esistenza della comunità Lgbtq+ israeliana, definendola ancella dell’oppressione secondo un insopportabile paternalismo. Che l’attivismo per i diritti abbia un punto cieco in Medio Oriente lo avevamo d’altronde già visto: basti pensare al silenzio assordante di una parte del femminismo italiano sugli stupri condotti durante l’attentato del 7 ottobre. Evidentemente l’intersezionalità si è fermata a Tel Aviv.
https://www.linkiesta.it/2023/12/attivismo-israele-diritti-civili-societa/