All’inizio dell’estate del 1940 un giovane microbiologo italiano, Salvatore Luria, rifugiato a Parigi per sfuggire alle leggi razziali italiane, prepara la sua seconda fuga per raggiungere gli Stati Uniti. Ha 28 anni. Nato a Torino nel 1912 da un’operosa famiglia ebraica (il padre era un tipografo) sin da ragazzo si appassiona agli studi e ottiene ottimi risultati scolastici. Da segnalare, in questo primo periodo, la grande amicizia con Ugo Fano, figlio di un matematico e futuro fisico di rilievo internazionale. Al liceo studierà filosofia con Augusto Monti, personalità di rilievo in Giustizia e Libertà. Dopo la laurea in medicina entra nel laboratorio di istologia diretto da Giuseppe Levi, autorità indiscussa in quel campo e padre della scrittrice Natalia Ginzburg. La comunità ebraica torinese è perfettamente inserita nella città, sia pure con molte riserve non dette ma ben raccontate da Natalia e Carlo Ginzburg. A Parigi Luria ha lavorato a lungo con un illustre collega del Pasteur, Eugène Wollman, che come lui sta studiando una particolare classe di virus, i batteriofagi. Wollman lo ha ospitato a casa sua la notte prima della fuga, facendogli ascoltare Beethoven perché (lo scrive Luria stesso nel suo diario) “non perdessi la fiducia nell’umanità.” Per raggiungere Marsiglia da Parigi, in bicicletta, Luria dovrà pedalare un mese.
Arriverà a New York con una nave greca il 12 settembre 1940 “con un solo abito e 52 dollari in tasca”. Soltanto dopo la guerra saprà che Wollman era stato ucciso a Auschwitz nel 1943. Nel giro di pochi anni dovrà registrare altri strazianti addii. Così inizia l’appassionante biografia dedicata al grande scienziato italiano Salvador Luria, scritta con rigore direi scientifico da Rena Selya (Salvador Luria. Un biologo italiano nell’America della Guerra fredda, Raffello Cortina editore). Gli appassionati lettori di biografie (e credo gli stessi biografi) vivono il dramma del dubbio. Che si tratti di uno studioso o di un eroe, di un filosofo o di un poeta, quando abbiamo letto una loro biografia possiamo dire di sentirli più vicini? Se la risposta è positiva è inevitabile chiedersi: è tutto vero, documentato da lettere o testimonianze, ma si può ritrarre una persona senza che si trasformi in personaggio? Cioè qualcuno può davvero essere riassunto dai suoi aneddoti? Vivere significa anche indossare delle maschere e in fondo gli aneddoti possono anche essere un modo per indossarne una: la sagacia, l’impertinenza, il mutismo, il disprezzo, la modestia, l’esibizione della memoria. Crediamo di vedere una persona ma in fondo non facciamo che leggere il canovaccio che lui stesso ha scritto per noi. Parlando di letterati illustri si giunge di solito alla conclusione: il modo migliore per conoscerli è immergerci nel loro lavoro.
Da un punto di vista logico si tratta di una conclusione inoppugnabile. Ma se ci occupiamo di scienziati? Spesso la loro vita non è affatto eclatante. Per gli scienziati dobbiamo cercare nel loro stesso lavoro se vogliamo rappresentare una parte fondamentale della loro esperienza mentale. E questa è la scelta di Rena Selya che ci guida nella lunga (e ostinata) ricerca che lo accompagna per tutta la vita, e che continua attraversando tre importanti paesi in guerra. Sentendosi estraneo nel suo paese, essendo ebreo ma soprattutto essendo un liberal-socialista che ha deciso di continuare il suo lavoro senza imbracciare un’arma. Negli anni di esilio francese ha letto i principali classici del marxismo, ma resta sulle sue posizioni, liberali e libertarie. Si definiva un radicale, politicamente. Il libro riassume la sua intera formazione, che avviene in un periodo di grande effervescenza in tutti gli ambiti scientifici. Tra l’altro le varie discipline si avvicinano fin quasi a confondersi.
Negli anni 20 del secolo scorso il genetista Hermann J. Muller aveva invitato i suoi colleghi a considerare i batteriofagi “come i geni dei nostri cromosomi” incitandoli a scoprire la loro natura fisica: “Noi genetisti dobbiamo diventare batteriologi, chimici esperti di fisiologia e fisici oltre ad essere contemporaneamente zoologi e botanici.”
Già, ma cos’è un batteriofago (detto anche “fago”)? E perché generazioni di scienziati si sono scervellati sulla sua stessa natura? È una cosa viva, è un oggetto? I microscopi di allora non consentivano la visualizzazione di entità così minuscole, che infatti venivano dedotte soltanto per l’effetto prodotto su determinate colture batteriche. Ricerche di centri specializzati di tutto il mondo – con al centro l’Insitut Pasteur di Parigi – produssero centinaia di lavori scientifici sulla misteriosa entità. La scoperta del batteriofago si deve a un ricercatore dell’Insitut Pasteur, Felix d’Herell, e fu resa nota nel 1917. La definì “particella”, perché l’ambiente scientifico non riusciva a credere che fosse un’entità vivente distinta. Secondo alcuni poteva essere addirittura un prodotto dei batteri stessi. Felix d’Herell dimostrò invece di aver compreso “la natura biologica del batteriofago, il suo modo di agire e le sue interazioni con la cellula batterica”. Questo passaggio fondamentale della biologia molecolare è frutto del lavoro di molti, chimici e fisici, ma anche di ingegneri: c’è un percorso parallelo, tutto tecnologico, che accompagna l’intero processo. All’inizio del XX secolo gli scienziati non avevano strumenti per individuare entità così minuscole, e gli scettici sostenevano: se non si possono sviluppare colture di virus vuol dire che non sono forme di vita. Alla fine degli anni 20 fino al fatidico 1938 Luria si trova a combattere con molti altri questa difficile battaglia contro nemici invisibili, percepibili soltanto per i loro effetti ma privi di qualunque fisicità osservabile. Dire che un virus ha dimensioni attorno ai 20 nanometri vuol dire esprimere numeri quasi impronunciabili: sono infinitamente più piccoli dei batteri, detto in parole poverissime. Insieme a Geo Rita, “nel sonnacchioso laboratorio di microbiologia” mette a punto una strategia capace di portare avanti le intuizioni pionieristiche di Delbrück. L’idea era quella di bombardare di raggi gamma e alfa un numero noto di batteriofagi, calcolato in base al numero delle loro vittime. Classiche le tecniche adoperate fino a quel momento: centrifugazione e filtrazione.
Questo il bagaglio culturale e sperimentale che il giovane Luria porta con sé in America. New York gli piace e si ambienta prestissimo. Firmandosi nel Registro di immigrazione modifica il suo nome, che diventa Salvador. È sempre di buon umore e pronto alla battuta, anche se non padroneggia ancora bene la lingua. Alla fine del 1942 diventa membro del dipartimento di Botanica e batteriologia dell’Indiana University. Aiutato da Enrico Fermi riesce a ottenere i primi finanziamenti per le sue ricerche ed entra finalmente in contatto con Delbrück: lo studio dei batteriofagi spicca il volo, trasformando nel giro di pochi anni le scienze della vita. Delbrück insegnava a Nashville ma si vedevano spesso a New York, naturalmente lavorando come pazzi. Passano il capodanno del 1941 nel laboratorio di Luria “a giocare con i batteriofagi”. Il loro obiettivo è “comprendere come in appena mezz’ora la semplice particella del batteriofago riuscisse ad autoriprodursi, moltiplicandosi fino a 100 volte all’interno della cellula ospite batterica.” È così affascinante la loro avventura che continuerei a seguire, cercando di condensarla, la biografia di Rena Selya. La tecnologia fornisce un altro strumento destinato a svilupparsi moltissimo: appaiono i primi microscopi elettronici, e finalmente gli scienziati vedono il virus che stanno studiando in via indiretta da anni.
Attorno agli apparentemente grandi batteri, con la loro struttura tubiforme, si agitano scodinzolando come minuscoli girini i batteriofagi. La loro forma è simile a quella degli spermatozoi. Ogni virus infetta un batterio e lo colonizza da solo. Siamo di fronte a una delle conferme, per me sempre commoventi, che le teorie scientifiche ottengono grazie a nuovi strumenti d’indagine (nella fisica avviene continuamente). Bello immaginare il loro entusiasmo. Luria descrive così la sua gioia di “vedere i miei amati microrganismi in tutta la loro nuda bellezza.” Naturalisti, genetisti, biologi, fisici, chimici: sono tutti coinvolti in questo studio. Una rivoluzione scientifica riguarda tutti. Ognuno porta le sue competenze restando influenzato da quelle degli altri che lui stesso influenza. E ognuno porta anche i suoi sogni. Si aprono delle grandi porte che condurranno molto lontano. Per esempio, Delbrück e Luria, osservando il meccanismo di crescita virale all’interno del batterio, intuiscono la presenza di un “enzima chiave, che magari potrebbe essere anche una molecola.”
Doveva dunque esistere una qualche relazione tra enzimi, geni e proteine. A volte, negli accurati esperimenti escogitati da Luria, e descritti nel dettaglio dalla sua biografa, si ha l’impressione del gioco, anche del gioco d’azzardo. Luria stesso evoca l’immagine delle slot machines quando combina tra loro decine e centinaia di provette cercando di capire la resistenza di alcuni singoli batteri all’aggressione del virus. Da questi giochi combinatori, spesso giocati con Delbrück, si aprono nuove prospettive del tutto inattese. Già, ci sono alcuni batteri resistenti. Ma perché? L’osservazione suscita nuove domande. È lo stesso gioco che spinge il giocatore a puntare più in alto. La carriera accademica che seguirà a queste scoperte sarà importante e degna di nota, così come verranno riconoscimenti di ogni tipo. Ma la carriera accademica non lo distoglierà mai dalla sua natura di ricercatore puro, che come i suoi amati virus infetterà molti suoi allievi.
Nel 1953 James Watson, uno dei suoi primi allievi, annuncia di aver scoperto la struttura della doppia elica del DNA. Anche il lavoro sperimentale di Luria procede, con risultati importanti e ancora una volta pionieristici. Difficile riassumere in poche parole il meccanismo di restrizione-modificazione, illustrato in un articolo scritto insieme a Mary Human. Riferirò soltanto l’aneddoto relativo al primo passo del lavoro: una provetta contenente degli strani batteri mutanti si ruppe “e quella volta l’incidente si dimostrò fortunato”. Perché metteva in discussione la convinzione per cui le particelle virali non potevano essere influenzate dall’ospite in cui crescevano. Il prodotto di questa mutazione temporanea viene denominato batteriofago T2. Dovranno passare alcuni anni, fin quasi ai ’70, perché questo importante lavoro confluisse nella rivoluzionaria tecnologia a DNA ricombinante.
Anche se Luria si considerava soltanto un fortunato ricercatore le sue intuizioni hanno sempre portato a risultati interdisciplinari straordinari, che coinvolgono vari comparti scientifici, dall’ingegneria genetica alla biologia. Il grande impegno scientifico non lo distoglierà neppure dalle battaglie civili e politiche che riterrà giuste. La scienza deve andare avanti nella più totale libertà anche nei difficili anni della guerra fredda. E in nessun caso può essere strumento di morte. Naturalmente Luria non sfuggì alle invadenti attenzioni di Edgar Hoover, che dagli anni ‘50 gli impedì di compiere viaggi all’estero. La sua amicizia con Bruno Pontecorvo non era passata inosservata. Ora la gigantesca crociata maccartista ci appare persino ridicola, nelle sue paranoie, ma combatterla non fu facile. Pur apprezzando e amando gli Stati Uniti la sua coscienza gli imponeva di vederne i gravi difetti. Al fanatismo maccartista si associava perfettamente un’altra gravissima macchia sociale: il razzismo.
Se paranoie politiche e razzismo non erano degni della più grande democrazia del mondo bisognava combatterli in una battaglia culturale a viso aperto. Anche le battaglie che seguiranno, di certo più note, contro la guerra in Vietnam, non devono trasmettere di lui un’immagine distorta. Luria non era un rivoluzionario e non era certo filosovietico, ma agiva come un vero americano. Amava il sogno americano, amava le città, i supermercati, i grandi scontri politici. Gli attuali dibattiti televisivi, fatti di slogan e trovate bipolari, non rendono giustizia del grande passato politico statunitense. Se è vero che pochi americani conoscono la storia europea lo stesso si deve dire degli europei, che pochissimo sanno dei lunghi e intricati fermenti ideali che hanno scritto la storia degli Stati Uniti. Per questo preferisco sottolineare un concetto più importante, che va oltre le (giuste) manifestazioni di piazza: il lavoro scientifico è patrimonio dell’intera comunità. Come molti grandi logici anche uno scienziato come Luria è spinto da una forte (direi naturale) vocazione maieutica.
Un Maestro lo si riconosce dagli allievi. Dalle sue creature. Tra queste è centrale la grande avventura del MIT, che inizia nel 1958. Assegnandogli la cattedra di microbiologia un professore lo presenta così: “È una persona dinamica che desidera davvero fare le cose in grande; allo stesso tempo è uno scienziato a tutto tondo, degno di questo nome, con una profonda conoscenza anche delle basi filosofiche della disciplina. Una combinazione rara che ora abbiamo qui a nostra disposizione. È un’opportunità che non possiamo permetterci di perdere. Se lo assumeremo sono certo che il MIT si troverà presto all’avanguardia nella biologia.” È il caso di dire: parole profetiche. La biologia che si insegnava nelle scuole non era la stessa che si stava sviluppando vorticosamente nei laboratori. Le istituzioni culturali avvertono (accettano) il cambiamento e decidono di guidarlo. Si forma una grande squadra, al MIT, e l’intera città di Boston è percorsa da infinite sollecitazioni intellettuali e da un’eccitante voglia di cambiamento. Biologi, genetisti, biochimici, ricercatori puri che realizzano il sogno di una formazione accademica perfettamente in linea con le più innovative ricerche di laboratorio. La ricerca stessa diventa insegnamento.
Qualcuno si chiederà: ma quali sono le ricadute concrete di tutto questo fermento? Come dialoga con la comunità? Per esempio con le fondamentali ricerche sulla patologia che ci spaventa di più: il cancro. Perché la moderna ricerca sul cancro ha inizio proprio qui. E quei misteriosi moscerini che si aggirano attorno alla botte, quei minuscoli fagi invadenti, svolgeranno un ruolo fondamentale. Ancora una volta come cavallo di Troia. Non ci sono virus del cancro. Lo studio dei tumori indotti da virus “ci permette di analizzare il ruolo svolto dai singoli fattori genetici nella trasformazione di cellule normali in cellule tumorali.” Questo il decisivo contributo di Luria, e anche per questo riceverà nel 1969 il premio Nobel, già assegnato a due suoi allievi.
Per l’occasione il Dipartimento di Stato riconobbe che il viaggio “era nel miglior interesse degli Stati Uniti” e gli fornì il passaporto. Le sue battaglie scientifiche e politiche continueranno ancora per un ventennio. Salvador Luria morì il 6 febbraio 1991. Renato Dulbecco scrisse alla moglie, Zella, “con lo spirito con cui avrei scritto a mia madre, perché Salva era mio padre e mi ha reso quello che sono ora.”