“Il più illuminato e il più combattuto monarca del suo tempo“
Federico II e gli ebrei (vedi nota 1)
Attilio Milano ha scritto nella sua “Storia degli ebrei in Italia”: “se la vita degli ebrei meridionali ebbe un periodo completamente fausto, esso coincise con l’ultimo venticinquennio del regno di Federico II. In questo quarto di secolo, il sovrano svevo non solo seppe mettere integralmente a profitto le doti commerciali dei suoi ebrei ed in tale senso li tenne in gran conto, ma egli stesso ne studiò e ne diffuse grandemente il patrimonio spirituale e culturale […]. Pregiandoli quali uomini di tradizione, di pensiero, di azione, riconobbe loro il massimo della dignità cui potevano ambire”.
Per Milano Federico II “fu il più illuminato e il più combattuto monarca del suo tempo”, il quale avrebbe dato al Mezzogiorno d’Italia “mezzo secolo di floridezza economica, di assestamento politico e giuridico, di fervore artistico”. Inizialmente accondiscente alla Chiesa romana, l’imperatore, nel 1221, avrebbe introdotto, seguendo le disposizioni del quarto concilio lateranense (1215), un segno distintivo per gli ebrei.
Ma quando i rapporti tra Federico II e il papato entrarono in crisi, lo svevo avrebbe mostrato “il suo veritiero, benevolo volto verso gli ebrei, da lui considerati strumenti essenziali per l’attuazione delle riforme introdotte dal suo governo. Egli fu il primo reggitore in Europa che concepì ed attuò una organizzazione di stato centralizzata e controllata, in cui tutto il movimento economico e finanziario del paese doveva raccogliersi nelle mani del sovrano e della burocrazia a lui sottoposta. Così furono considerati monopolio dello stato sia tutto il commercio con l’estero sia alcuni rami del commercio interno e dell’industria; e parimenti fu istituita una vasta rete di fiere, specie nella parte continentale del regno. In questo ordinamento statale accentrato, è chiaro il motivo per cui Federico tenesse particolarmente a vedere inseriti e attivi gli ebrei: non solo per le loro specifiche doti mercantili, ma anche perché, agendo essi stessi come un corpo internamente organizzato, risultava più facile guidare e controllare la loro attività”.
Secondo Milano l’attività commerciale degli ebrei sarebbe stata agevolata al tempo di Federico II oltre che dalle fiere da lui istituite anche dalla “relativa sicurezza delle strade” che “facilitava lo spostamento di persone e di merci da luogo a luogo”. La costruzione di una nuova sinagoga a Trani, avvenuta nel 1247, era, per Milano, un chiaro indizio della fioritura delle comunità ebraiche meridionali durante gli ultimi decenni del governo di Federico II, da considerare quindi per gli ebrei un “periodo completamente fausto”.
Una diversa valutazione dell’atteggiamento di Federico II verso gli ebrei è stata espressa da David Abulafia. Secondo lo storico inglese ci sarebbero delle “questioni” che potrebbero “gettare un velo di dubbio sulla tolleranza di Federico – elogiata da molti storici – nei confronti degli Ebrei”. E a questo punto Abulafia cita la legislazione federiciana del 1221 riguardante gli ebrei e le prostitute: “Entrambe le categorie dovevano indossare abiti atti a distinguerle (sia pur diversi tra loro) e ai giudei era fatto obbligo di farsi crescere la barba, mentre le prostitute, costrette a vivere all’esterno della cinta muraria, potevano recarsi in città ed essere ammesse un giorno la settimana ai bagni pubblici”. Secondo Abulafia, “nell’ottica di Federico” sarebbe stata “evidente” la “connessione tra Ebrei e meretrici: due gruppi marginali che minacciavano, a suo giudizio (o piuttosto a quello delle sue fonti tardo-romane e canoniste), di “contaminare” la società cristiana in cui erano inseriti”.
Secondo lo storico di Cambridge “la politica dell’imperatore verso gli ebrei” sarebbe stata “tutt’altro che coerente sia sul piano geografico che su quello temporale. In Germania erano “servi della camera reale”, tecnicamente sotto la protezione del sovrano; in Sicilia con il 1231 venne promulgata una complessa disciplina giuridica mirante, sino a un certo punto, a circoscrivere i prestiti a usura praticati dagli Ebrei, mentre al contempo Federico non disdegnava di servirsi a corte di uomini di scienza ebrei. Ancora una volta sarebbe assurdo andare a ricercare con troppa pignoleria segni di concordanza di idee, ancor meno di liberalità intesa in senso moderno. Il diritto romano, la pratica quotidiana e le esigenze della scienza divergevano anziché convergere”.
Trattando poi la cultura alla corte di Federico II, considerata “una copia sbiadita dell’opulenta corte normanna e un’ombra della dominazione angioina”, un giudizio che mi sembra assolutamente non condivisibile, Abulafia era però costretto a ammettere che l’imperatore svevo, “posto a raffronto del “cristianissimo”, isterico, mangia-ebrei Luigi IX di Francia” appare come “uomo di buon senso e moderazione”. Infatti, negli stessi anni quaranta del Duecento, in cui Luigi IX “il Santo”, dopo una disputa pubblica, fece bruciare a Parigi il Talmud, alla corte di Federico II si svolgevano discussioni serene tra studiosi ebrei e cristiani; l’oggetto era, fra l’altro, l’interpretazione di alcuni brani del Talmud, e a queste discussioni partecipava qualche volta l’imperatore stesso. Ma su questo punto torneremo più avanti.
Lo straordinario interesse di Federico II per le culture non cristiane, sia quella araba che quella ebraica, ma anche per la cultura antica, ha affascinato gli osservatori moderni. Stupisce perciò, che uno studioso così serio come Abulafia, abbia potuto affermare che Federico II sarebbe da considerare “un imperatore medievale”, cioè uno tra altri, uomo più del secolo XII che del XIII, insomma un conservatore più che un innovatore. Certamente in alcuni aspetti della sua politica lo svevo era legato a un concetto di potere imperiale che nel Duecento era ormai “superato”, data la forza acquisita in Germania dai principi, in Italia dai Comuni e dal papa, in Inghilterra e Francia dalle rispettive monarchie che stavano per diventare Stati nazionali. Naturalmente, lo storico di oggi difficilmente considera Federico “il primo uomo moderno sul trono”, come fece Jacob Burckhardt nel 1860, o “il primo europeo di mio gusto”, come scrisse Friedrich Nietzsche.
Questi ultimi giudizi non sono però nati dal nulla. Anche dalle ricerche più recenti risulta la straordinarietà dell’apertura mentale di questo personaggio, nelle cui vene correva sangue tedesco, borgognone-lotaringio, normanno-italiano e che era cresciuto in una città multietnica e multiculturale come Palermo. Sia per discendenza che per formazione culturale egli era quindi diverso dai suoi antenati, anche se in alcuni settori della sua attività si muoveva chiaramente sulle tracce dei suoi grandi nonni, Federico I Barbarossa e Ruggero II di Sicilia.
Ma torniamo all’atteggiamento di Federico verso gli ebrei. Sembra opportuno iniziare il discorso partendo da una vicenda, avvenuta nel 1236, che può essere considerata un episodio-chiave per la posizione assunta dall’imperatore svevo verso gli ebrei. Che cosa era successo? Federico, dopo aver soggiornato per quindici anni in Italia, nella primavera del 1235 era tornato in Germania per reprimere la ribellione di suo figlio Enrico (VII) e per preparare una spedizione militare contro la lega lombarda. Mentre si trovava, all’inizio del 1236, nel castello di Hagenau, in Alsazia, una delle regioni preferite dello svevo, davanti al tribunale imperiale fu presentato un caso difficile, cioè l’accusa contro gli ebrei di Fulda di aver ucciso dei ragazzi cristiani.
Le fonti che parlano di questo episodio sono di natura diversa. Abbiamo una fonte documentaria, la sentenza emanata da Federico II (nell’agosto 1236 ad Augusta), e tre fonti cronachistiche più o meno vicine agli eventi. Di queste testimonianze quella risalente più direttamente all’accaduto è la sentenza del 1236, le cui parole certamente non sono state scritte senza l’esplicito consenso dell’imperatore. Qui si legge che a causa dell’uccisione di alcuni ragazzi di Fulda, attribuita agli ebrei di questa città, tutti gli ebrei della Germania erano stati messi in cattiva luce. L’imperatore, per appurare la verità, convocò un’assemblea di principi, grandi, nobili, abati e uomini di Chiesa.
Questi però, “essendo diversi esprimevano opinioni diverse, e si rivelarono incapaci di decidere la questione”. Federico decise quindi di avviare un’inchiesta: “Ritenemmo, nella insondabile profondità della nostra coscienza che non si potesse procedere in modo migliore verso gli ebrei accusati del suddetto crimine, se non interrogando coloro che erano stati ebrei e si erano convertiti alla fede cristiana. Costoro, come nemici di coloro che erano rimasti ebrei, non avrebbero taciuto ciò che potevano sapere attraverso loro stessi o attraverso il Vecchio Testamento o i libri mosaici. Noi, benché la nostra coscienza, sulla base dei molti libri che la nostra maestà conosceva, ritenesse ragionevolmente accertata l’innocenza dei detti ebrei, per la soddisfazione sia della popolazione priva di cultura che del diritto abbiamo preso una decisione lungimirante e saggia; in accordo con i principi, i grandi, i nobili, gli abati e gli uomini di Chiesa abbiamo quindi inviato a tutti i sovrani delle regioni dell’Occidente messi speciali, attraverso i quali far venire dai loro regni alla nostra presenza il numero più grande possibile di neofiti pratici della legge ebraica”.
Arrivati questi neofiti alla corte imperiale, fu loro chiesto se ci fosse un motivo per cui gli ebrei avrebbero avuto bisogno di sangue umano e per cui quindi avrebbero potuto essere indotti al menzionato crimine. Risultò che né nel Vecchio né nel Nuovo Testamento era scritto che gli ebrei avessero bisogno di sangue umano. Anzi, al contrario, risultò “dalla bibbia che in ebraico è detta Berechet (cioè Bereshìt [In principio], la prima parola del Pentateuco, vale a dire della Torah), dai precetti dati a Mosé e dai decreti giudaici detti in ebraico Talmilloht (cioè Talmud) che dovevano evitare di macchiarsi di qualsiasi tipo di sangue”. In considerazione del fatto – si conclude la sentenza – che è improbabile che coloro, a cui è vietato il sangue di animali, avessero sete di sangue umano e mettessero per ciò in pericolo i loro beni e le loro persone, l’imperatore decretò che tanto gli ebrei di Fulda che del resto della Germania fossero prosciolti da un’accusa così infamante.
Un Talmud, il complesso dell’esegesi della Legge orale ebraica (la Mishnah), raccolto in due compilazioni: il Talmud palestinese o di Gerusalemme (IV secolo d. C.) e il Talmud babilonese (V secolo d. C.).
Fu espressamente vietato che gli ebrei “sotto il pretesto della predicazione o in qualsiasi altra occasione” fossero fatti oggetto di un’accusa tanto infamante. Anzi, a loro, in qualità di servi dell’imperatore, era da riservare un trattamento “favorevole e benevolo”.
L’accenno alla predicazione come occasione di accuse infamanti contro gli ebrei fa pensare all’attività dei frati predicatori, i domenicani, particolarmente intolleranti verso tutti coloro che non professavano la fede cattolica. Che l’imperatore si fosse rivolto veramente ad altri sovrani europei chiedendo l’invio di neofiti da interrogare, viene confermato da una lettera di Enrico III, inviata da Windsor il 24 febbraio 1236 a Federico II. Il re d’Inghilterra comunicò all’imperatore di aver accolto con tutti gli onori dovuti il suo inviato, un maresciallo imperiale, e che avrebbe esaudito il suo desiderio mandandogli due dei più illustri neofiti inglesi, disposti ad obbedire in tutto ai suoi ordini.
L’episodio di Hagenau trovò un’eco anche in alcune cronache. Le tre versioni cronachistiche sono da considerare fonti indirette, perché è probabile che gli autori abbiano riferito i fatti “per sentito dire”, dando poi all’episodio una colorazione piuttosto personale.
Il più “oggettivo” dei tre sembra il redattore degli “Annali di Marbach”, una collegiata dell’Alsazia. Questa fonte si interrompe nel 1238 ed è quella geograficamente e cronologicamente più vicina agli eventi. Qui si legge che “in quel tempo (cioè nel 1236) presso il monastero di Fulda gli ebrei uccisero in un mulino dei ragazzi cristiani per ricavare da essi sangue da usare a fini terapeutici. Perciò gli abitanti di questa città uccisero molti ebrei. Ma quando i corpi dei ragazzi furono portati nel castello di Hagenau e qui degnamente sepolti, l’imperatore non riuscendo in altro modo a sedare il tumulto allora sorto contro gli ebrei, convocò da diverse parti molti uomini potenti, grandi e letterati e chiese loro se, come era opinione diffusa, gli ebrei per il venerdì santo avessero bisogno di sangue cristiano, dichiarando che, se fosse accertato che era così, si sarebbero dovuti uccidere tutti gli ebrei residenti nell’impero. Però, siccome su ciò non riusciva ad accertare nulla di certo, in breve tempo la severità del proposito imperiale, dopo aver per altro ricevuto molto denaro dagli ebrei, si acquietò”. L’autore degli Annali narra quindi come fatto l’uccisione di ragazzi cristiani da parte di ebrei, ma riferisce poi che dall’inchiesta imperiale non fu confermata l'”opinione diffusa” che gli ebrei usassero sangue cristiano per “festeggiare” il venerdì santo.
Nessun accenno all’inchiesta e alla sentenza imperiale si trova invece nel racconto dell’anonimo domenicano, autore degli Annali di Erfurt in Turingia, più o meno coevo a quello di Marbach: “In quell’anno (1236) alle quinte kalende di gennaio (28 dicembre 1235) a Fulda furono uccisi dai crociati trentaquattro ebrei di entrambi i sessi, perché due di loro avevano ucciso, in modo da destare pietà, nel santo giorno di Cristo i cinque figli di un mugnaio residente fuori dalle mura, quando questi era andato con la moglie in chiesa. Poi avevano raccolto il sangue dei fanciulli uccisi in sacchi unti con cera e prima di andarsene avevano dato fuoco alla casa. Quando si scoprì la verità di questo fatto e gli ebrei confessarono, essi furono puniti, come si è detto sopra”. Il racconto del cronista di Erfurt è l’unico a specificare il numero degli ebrei uccisi, come è anche l’unico ad attribuire questa strage a dei crociati e a riferire che gli ebrei avrebbero confessato l’omicidio. Inoltre è solo lui a menzionare la circostanza che il fatto fosse avvenuto quando i genitori dei bambini erano in chiesa e a menzionare il particolare dei contenitori usati per la raccolta del sangue. Non è improbabile che qui il cronista, o chi gli riferì le notizie, abbia ampliato il racconto usando anche la fantasia. Non è da escludere che la notizia, secondo cui gli ebrei avrebbero confessato l’omicidio, derivi da una confessione estorta (sotto tortura) in un processo inquisitoriale istruito dai domenicani. Comunque sia, la tendenziosità del racconto è evidente, dato che viene taciuta, probabilmente volutamente e non per mancanza di informazioni, l’assoluzione degli ebrei di Fulda davanti al tribunale imperiale.
Ancora più tendenzioso è il racconto del terzo cronista, Richerio di Sénones, che scrisse tra il 1254 e il 1264 in una abbazia benedettina nei Vosgi. Egli dedica ben tre capitoli del quarto libro della sua storia ecclesiastica al dichiarato intento di mettere in risalto la “perfidia Iudeorum”. Prima racconta il miracolo del sangue uscito da un’immagine di Cristo crocefisso, colpita con il coltello da un ebreo di Colonia, e la successiva strage degli ebrei di questa città. Poi narra un altro “fatto orribile”, commesso da un ebreo contro una giovane donna cristiana. Infine il capitolo intitolato “De Iudeis qui apud Haguenowiam in prestigiis suis tres pueros interfecerunt”. Qui si legge: “Siccome nessuno deve tacere i nefandissimi atti degli ebrei, di modo che torni sempre alla mente ciò che fecero al nostro Salvatore, conviene per la correzione degli uomini e per la loro edificazione riprendere quotidianamente (questi fatti), affinché venga confutata meritatamente la loro presunzione e aumentata la gloria della lode di Cristo. In una città chiamata Hagenau, ubicata nella regione di Alsazia, abitavano molti ebrei. Al tempo in cui Federico, allora imperatore del regno romano, aveva la monarchia, il quale Federico è stato più tardi presso Lione deposto dalla dignità dell’impero da papa Innocenzo, come lo esigeva la giustizia, quando questo Federico si trovava presso Hagenau avvenne che gli ebrei qui residenti festeggiarono secondo la loro legge la loro festa di Pasqua nel periodo in cui anche noi celebriamo la nostra Pasqua, ma non nello stesso giorno, bensì alla quattordicesima luna, quando è stato anche crocifisso Cristo. Questi ebrei si procuravano, non so in quale modo, tre ragazzi cristiani dell’età di sette anni. E per festeggiare la loro festa, fecero a questi nelle loro case certi oltraggi (quedam ludibria), durante i quali morirono questi fanciulli. Quando i cristiani se ne accorsero per caso, entrarono nelle case degli ebrei e trovarono i ragazzi nudi e morti. Per caso l’imperatore Federico II non era presente. I cristiani decisero quindi di conservare questi ragazzi fino all’arrivo dell’imperatore. Visto il pericolo che correvano, gli ebrei decisero, dopo essersi consultati, di placare l’imperatore con dei doni. Andarono da lui e lo accecarono con doni così grandi che ottennero la sua grazia e tornarono contenti alle loro case. Quando l’imperatore tornò poi a Hagenau, i cristiani gli presentarono quei tre fanciulli e gli raccontarono che erano stati gli ebrei ad ucciderli. L’imperatore rispose: “Se sono morti, andate, sepelliteli, perché ad altro non servono più”. Nell’udire queste parole i cristiani se ne andarono via sbigottiti. E così questo disgraziato imperatore fornì una delle prove della sua mancanza di fede (cristiana), perché lasciò andare in pace gli ebrei e non rese nessuna giustizia ai cristiani per una tale scelleratezza. E ciò basti sugli ebrei, perché se questo sventurato imperatore non punì gli ebrei per un tale delitto, il potentissimo giudice (Dio) chiuse sia lui sia questi nell’inferno”.
Successivamente Richerio dipinge un’immagine molto negativa di Federico II, il quale, secondo il cronista, era stato un miscredente che si era circondato di nemici della fede cristiana. I particolari che Richerio riferisce dimostrano che egli non si preoccupò assolutamente dell’esatezza di quanto raccontato. Infatti egli attribuisce, con disinvoltura, notizie relative a Ruggero II e Enrico VI a Federico II. I suoi racconti sugli ebrei risentono del clima di intolleranza, aumentato a Nord delle Alpi in concomitanza con le crociate. L’accusa rivolta agli ebrei di uccidere nel periodo pasquale dei ragazzi cristiani per irridere alla morte di Cristo, è attestata per la prima volta nel 1144 a Norwich in Inghilterra e si diffuse poi rapidamente in Francia, mentre in Germania è documentata per la prima volta nel caso di Fulda, di cui si è detto.
In Germania erano però avvenute, come in Francia, stragi di ebrei in occasione delle crociate. Niente di questo genere accadde invece nell’Italia meridionale, neanche dopo l’arrivo dei Normanni. La posizione assunta da Federico II nel 1236 in Germania si spiega da una parte con il clima di pacifica convivenza tra i vari gruppi etnici e religiosi del Mezzogiorno d’Italia, in cui l’imperatore era cresciuto e viveva, e dall’altra parte con i suoi contatti personali con ebrei e quindi con una certa conoscenza della loro religione, di cui si dirà più avanti.
Un anno dopo la sentenza del 1236, Federico II emanò un privilegio a favore della città di Vienna (1237), in cui gli ebrei venivano esclusi da tutte le cariche cittadine con la motivazione che essi, come punizione per l’uccisione di Cristo, avrebbero dovuto essere condannati a servitù eterna. Questo documento non sta ad indicare che l’imperatore avesse improvvisamente cambiato politica verso gli ebrei, ma soltanto che il suo atteggiamento poteva variare a seconda delle circostanze. Le parole del documento vanno interpretate come una mossa tattica per trarre dalla sua parte i cittadini contro il duca d’Austria che aveva favorito gli ebrei, e che era venuto in contrasto con Federico.
Rimane aperta una domanda: come spiegare la legislazione discriminatoria del 1221 che attribuiva agli ebrei una posizione emarginata, paragonata a quella delle prostitute? Bisogna prima considerare, e ciò ha fatto anche Abulafia, che il giudizio su ebrei e meretrici come due gruppi marginali che minacciavano la società cristiana, va attribuito probabilmente non a Federico II, ma alle “fonti tardo-romane e canoniste” che erano alla base delle leggi del 1221. Inoltre va tenuto presente che questi leggi vennero emanate in un periodo in cui l’imperatore era costretto a fare larghe concessioni alla Chiesa. E infine – e questo è un aspetto che non va sottovalutato – non sappiamo se queste norme furono mai applicate, o se rimasero, come molte leggi, “lettera morta”. Per quest’ultima possibilità parla il fatto che nelle Costituzioni di Melfi (1231) non si riscontra nessuna norma a questo proposito.
Nelle costituzioni melfitane gli ebrei vengono trattati allo stesso modo dei musulmani, cioè come una minoranza a cui l’imperatore garantisce la sua protezione. Nel paragrafo I 18 viene stabilito che ebrei e musulmani devono avere la possibilità di iniziare procedimenti legali, “perché non vogliamo che innocenti vengono perseguitati soltanto perchè sono ebrei o musulmani”. In un altro paragrafo (I 28) viene stabilito che nel caso che i colpevoli di un omicidio non possano essere individuati, gli abitanti della comunità, in cui il delitto è avvenuto, debbano pagare una multa collettiva: per l’omicidio di un cristiano cento augustali, per quello di un ebreo o un musulmano soltanto cinquanta. La vita di un ebreo o di un musulmano valeva quindi soltanto la metà di quella di un cristiano. Nella formulazione di questa norma c’è un accenno ad un comportamento ostile della popolazione verso ebrei e musulmani, ma mi sembra che la “Christianorum persecutio”, di cui si parla, si riferisca nel regno di Sicilia al tempo di Federico II piuttosto ai musulmani che agli ebrei.
Ebrei e musulmani erano sotto la protezione del sovrano, ma venivano considerati di valore inferiore ai cristiani. Qui si vedono chiaramente i limiti della “tolleranza” religiosa medievale, che non significava parità di diritto. Il termine di “tolleranza” mi sembra del resto poco adatto per il Medioevo, in quanto basato su un concetto moderno di dignità della persona e di diritto alla coscienza individuale che si è formato in seguito alla Riforma protestante e all’Illuminismo. Nell’età di mezzo troviamo soltanto tolleranze limitate, nel senso che nell’Occidente cristiano e nell’Oriente musulmano per le minoranze religiose (monoteistiche) la possibilità di mantenere la propria fede comportò l’accettazione di una discriminazione sociale. Per esempio negli Statuti di Palermo, risalenti nel loro nucleo all’età normanno-sveva, gli ebrei vengono menzionati insieme alle prostitute, e ai “tabernarii vel bucherii”. Negli stessi Statuti fu però a loro garantita la validità di atti notarili redatti in ebraico.
Nelle costituzioni di Melfi c’è un paragrafo (I 6) che riguarda gli ebrei in particolare. Soltanto essi hanno il permesso di prestare denaro – cosa che il Concilio Lateranense del 1215 aveva vietato ai cristiani – , e il tasso d’interesse dei prestiti fu limitato al 10% annuo. Ma non sappiamo se questa norma fu veramente applicata; anzi tutto lascia credere che in seguito i cristiani non fossero affatto esclusi dall’attività feneratizia e che anche un limite di tasso d’interesse così basso non fosse rispettato.
Precedentemente, per quanto ci è consentito di sapere, data l’esiguità del numero di documenti di questa natura conservatisi, gli ebrei sembrano aver preso parte al mercato dei crediti più o meno nella stessa misura dei cristiani. Sono infatti poche le notizie su prestatori ebrei nel Mezzogiorno normanno-svevo: nella cronaca di Montecassino si legge di un prestito di denaro fatto da ebrei prima del 1022 all’abbazia cassinese. In due carte del 1200 e del 1205, conservatesi nell’Archivio di San Nicola di Bari, si parla di un ebreo di Trani che era attivo come prestatore di denaro.
Per la supposizione che nell’Italia meridionale, anche dopo la legislazione melfitana, gli ebrei non avessero una posizione dominante nel mercato dei crediti parla una frase di Tommaso d’Aquino. Nel “De regimine Judaeorum” redatto (nel 1261) per la duchessa di Brabante, egli scrive fra l’altro: per impedire che gli ebrei fossero dediti soltanto all’usura sottraendo così entrate alle autorità, sarebbe meglio costringerli a guadagnarsi da vivere con il lavoro, “sicut in partibus Italiae faciunt”.
Infatti molti ebrei dell’Italia meridionale erano attivi in settori diversi da quello creditizio: artigianato, agricoltura, commercio, medicina. Emerge dalle fonti che la maggior parte degli ebrei, nel Mezzogiorno normanno, esercitavano mestieri artigiani. L’attività più diffusa era l’arte tintoria, nella quale essi avevano acquisito una posizione quasi monopolistica. A questa attività erano legati la produzione ed il commercio di seta e di stoffe pregiate. In alcune città, come Salerno, gli ebrei avevano un monopolio delle macellerie. Sono inoltre attestati ebrei orciolai, produttori di otri e proprietari di vigneti. Non mancano naturalmente i medici. In Sicilia gli ebrei erano specializzati nella lavorazione di oggetti d’oro e d’argento. Infine troviamo ebrei che lavoravano come carpentieri.
Federico II, prima del 1239, ordinò di trasferire agricoltori ebrei provenienti dall’isola di Gerba o dal Maghreb a Palermo per curare le coltivazioni regie di palme da datteri, ma anche per introdurre in Sicilia piante tintorie come l’indigoferra, l’alcanna e “varie altre sementi che crescono nel Nord dell’Africa e ancora non sono venute in Sicilia”; fu riconosciuto a questi ebrei maghrebini il diritto di possedere una propria sinagoga, probabilmente “perché le loro usanze differivano da quelle siciliane”.
Il ruolo degli ebrei nel commercio fu al tempo di Federico II senz’altro meno importante di quanto pensava Milano. Nel Mezzogiorno peninsulare il commercio era dominato da amalfitani e veneziani, da genovesi e pisani, e lo stesso vale per la Sicilia. Qui, dopo la metà del secolo XII, comincò un declino del grande commercio esercitato sin dal secolo X dagli ebrei del Cairo, i mercanti della Genizah (il ripostiglio di una sinagoga a Fustat, nella città vecchia del Cairo, dove si sono conservati migliaia di documenti ebraici).
Nel Mezzogiorno d’Italia, ha scritto Abulafia, “gli ebrei non rimasero un corpo estraneo, degli emarginati costretti a occupazioni odiose come il prestito a interesse; erano invece uno dei tanti gruppi che popolavano il Mezzogiorno”. Lo stesso studioso ha poi sottolineato che sarebbe però “errato ritenere la loro esistenza quasi idilliaca”. Infatti, “la massiccia presenza di ebrei nell’attività di tintura delle stoffe era probabilmente conseguenza della prassi bizantina di riservare agli ebrei lavori nocivi, quali appunto tintura e conciatura”. Nelle città più grandi dell’Italia meridionale gli ebrei abitarono in propri quartieri, che non devono essere confusi con i ghetti, mentre in località più piccole vivevano indistintamente dai cristiani.
Un indizio relativo alle buone condizioni di vita degli ebrei nel Mezzogiorno normanno è costituito dal fatto che, nel 1153, a Napoli un ebreo potè acquistare due immobili adiacenti alla sinagoga (attestata sin dal 1097), ottenendo l’autorizzazione a trasformare uno di essi in un luogo di culto ebraico pubblico. Secondo la legge giustinianea, la costruzione di nuove sinagoghe era vietata, ma era tuttavia permesso il restauro di quelle già esistenti. La legislazione di Ruggero II di Sicilia, che rimase in vigore anche dopo la sua morte, tutelava le minoranze religiose. Conseguentemente il vescovo Giovanni di Catania garantì nel 1168 che “Latini, Graeci, Judei et Saraceni, unusquisque iuxta suam legem iudicetur”.
Per tutto il secolo XII non abbiamo notizia di atti di violenza contro le comunità ebraiche del Mezzogiorno che erano notevolmente più consistenti di quelle dell’Italia centro-settentrionale. Beniamino di Tudela incontrò, verso il 1170, a Lucca e a Pisa comunità rispettivamente di circa 40 e 20 persone, o capifamiglia. A Roma circa 200, a Palermo circa 1500, a Salerno circa 600, a Napoli ed a Otranto circa 500, a Capua e a Taranto circa 300, a Benevento, Melfi, Trani e Messina circa 200, ad Ascoli Satriano circa 40, ad Amalfi circa 20 e a Brindisi circa 10. E il viaggiatore spagnolo non menziona neanche tutte le città dell’Italia meridionale con comunità ebraiche. Per fare solo un esempio: anche a Siracusa doveva esistere, all’epoca del viaggio di Beniamino una notevole comunità ebraica, perché nel dicembre 1187 gli ebrei di Siracusa comperarono dal vescovo della città un terreno per poter allargare il loro cimitero. E si potrebbero citare altri casi.
Nell’età normanna il potere regio non attribuì nessun ruolo particolare agli ebrei. Diversamente si comportò Federico II, che affidò loro il monopolio statale della tintura e del commercio della seta.
Il livello culturale delle comunità ebraiche del Mezzogiorno d’Italia doveva essere particolarmente notevole in Puglia. Celebre è la frase di Rabbi Jacob Tam (1100-1171): “Da Bari proviene la Legge (la Torah), e da Otranto la parola del Signore”, un elogio “non modesto”, come ha scritto Cesare Colafemmina, “se si pensa che è una parafrasi di Isaia 2, 3, dove si profetizza il magistero universale della Città Santa alla fine dei tempi, quando “da Sion uscirà la Legge e la parola di Dio da Gerusalemme””. Shlomo Simonsohn ha richiamato l’attenzione sulle accademie rabbiniche di Siponto e di Trani in epoca normanno-sveva. Al tempo di Federico II era attivo il rabbi Isaia di Mali (Emanuele) da Trani, “il più fecondo autore rabbinico dell’Italia di tutti i tempi”. Questi, considerato uno dei “talmudisti principali del Medioevo”, ha svolto un importante ruolo di “mediatore” tra i centri culturali ebraici in Germania e Francia (cioè ashkenaziti) e quelli bizantino-palestinesi.
Dal fatto che, come vedremo, gli scienziati ebrei presenti alla corte di Federico II non erano originari dell’Italia meridionale ma della Spagna, si potrebbe trarre la conclusione che il livello culturale dell’ebraismo meridionale si sarebbe abbassato nel Duecento. Ma sarebbe una conclusione affrettata. La spiegazione sta invece nel fatto che gli ebrei spagnoli, in quanto conoscitori della lingua e delle scienze arabe, erano più utili agli interessi della corte federiciana. I tre studiosi ebrei presenti nell’entourage di Federico erano infatti “sopratutto matematici, astronomi e arabisti, ed è molto probabile che furono queste competenze che li portarono a corte”. Si trattava di due provenzali di origine spagnola, Rabbì Giacobbe (Ja‘aqòv) ben Abba Mari Anatoli e Mosè Ibn Tibbon, e un personaggio, Giuda (Jehudàh) ben Salomone (Shelomòh) ha-Cohen, originario di Toledo.
È notevole il fatto che alla corte dell’imperatore avvenissero discussioni amichevoli tra questi studiosi ebrei e cristiani, alle quali partecipò anche Federico stesso. Queste informazioni non derivano da fonti latine, che potrebbero sollevare il sospetto di voler creare il “mito” di un imperatore intellettuale, ma da testi ebraici studiati da Giuseppe Sermoneta e da Colette Sirat.
Cominciamo con il filosofo e alchimista Giacobbe Anatoli, che si trovava nel 1230-1232 a Napoli. Qui lavorava su incarico di Federico II insieme a Michele Scoto alla traduzione dall’arabo in ebraico del commento di Averroè alle opere di Aristotele. Lo studioso ebreo dichiara nei suoi scritti espressamente l’amicizia con Michele Scoto, lo scienziato guida della corte federiciana che aveva studiato l’arabo a Toledo. Giacobbe e Michele discutevano spesso sull’interpretazione di versetti biblici. A queste discussioni partecipava qualche volta anche Federico II.
Michele Scoto e altri saggi alla corte di Federico II.
Giacobbe Anatoli riporta infatti una conversazione in cui tutti e tre discutevano l'”interpretazione di Maimonide relativa alla materia prima e se essa fosse comune ai cieli e alla terra. Tre capitoli di Maimonide (I, 27; II, 26 e III 4) espongono il problema e tutti e tre sottendono la discussione. Federico II era dell’avviso che da una materia prima erano stati creati i cieli e la terra: ipotesi che Maimonide respinge esplicitamente in II, 26 (p. 202) ma che può legittimamente essere inferita dal cap. della III parte, come hanno fatto d’altronde altri commentatori della Guida degli Smarriti. Michele Scoto e Anatoli con lui, respingono l’interpretazione di Federico II, che era legata all’idea neoplatonica di una materia unica preesistente al mondo”.
L’interesse dell’imperatore per questioni di questo tipo viene confermato da fonti latine. Il francescano Salimbene da Parma riferisce delle curiosità scientifiche e filosofiche di Federico che voleva sapere dove si trovavano esattamente il paradiso, il purgatorio e l’inferno, oppure “in quale cielo è Dio nella persona della Sua Divina Maestà e come è seduto sul suo trono e come è accompagnato da angeli e santi, e cosa fanno essi ininterrottamente dinnanzi a Lui?” Michele Scoto, un po’ imbarazzato avrebbe risposto: “Se ci si chiede, dove resiede il Dio degli Dei, e Signore dei potenti dell’universo della terra e del cielo? rispondiamo che, seppur Egli sia in potenza ovunque, Egli è tuttavia sostanzialmente nella sfera intellettuale”.
Ma torniamo ad Anatoli. Lo studioso ebreo riferisce che Federico II partecipò a discussioni su versetti biblici di difficile interpretazione come quello della “Vacca rossa” (Numeri 19, 2-10) considerato il “più incomprensibile dei seicentotredici precetti biblici”. “Essendo stato chiesto […] perché Iddio avesse comandato di servirsi delle ceneri di una vacca rossa per purificarsi – narra Anatoli – l’imperatore non diede la risposta che erano soliti dare tutti i chierici, che si rifacevano all’inappellabile decisione dell’Altissimo, le cui vie sono incomprensibili alla mente dell’uomo, e di cui bisogna osservare i precetti per testimoniare la nostra fede e il nostro amore per Lui”. Federico invece, ha osservato Sermoneta, interpretava il comandamento biblico “in una maniera che è – a un tempo – razionale e storicistica. Volle il legislatore – dice Federico – mutare un’antica usanza che era diffusa in India. Presso gli indiani si era soliti bruciare un leone fulvo – sempre a scopo di purificazione – con grandi rischi per quanti si occupavano della cerimonia. Pur non proibendo di sacrificare, Mosè mutò il leone fulvo con una vacca rossa per rendere l’atto del sacrificio meno selvaggio e meno pericoloso per i sacrificanti stessi. E ancora: in questo modo il legislatore evitò che gli ebrei imitassero i sacrifici dei pagani, che dedicavano le loro vittime ai segni zodiacali (in questo caso il leone)”.
L’imperatore avrebbe quindi proposto una sua interpretazione “razionalista e storicista” del versetto: “il legislatore adatta una legge a una data epoca storica, entro i termini di un dato contesto storico, perché il progresso verso forme più moderne si compie gradualmente, umanizzando i sacrifici quando sarebbe stato troppo rivoluzionario abolirli totalmente”. Una tale interpretazione, concludeva Sermoneta, “si addice perfettamente agli intenti filosofici ed esegetici sviluppati da Mosè Maimonide nella Guida dei Perplessi”.
Federico si interessò anche di altri versetti biblici come quello relativo ai sacrifici di animali in generale. Scrive infatti Anatoli nel “Pungolo dei discepoli”: “Il nostro Signore, il grande, l’imperatore Federico – voglia il Cielo farlo vivere e gli prolunghi i giorni – spiegò la ragione del precetto biblico che comanda di offrire animali presi dal gregge o dagli armenti, vietando di sacrificare quelli selvaggi. Egli disse che scopo del sacrificio è il compiere la volontà di Dio; non sarebbe dunque possibile appagarLo facendo uso di un qualcosa che non ci appartiene”. Anatoli attribuisce quindi anche in questo caso a Federico “un razionalismo di sapore aristotelico, che l’imperatore stesso applicava al testo rivelato, che gli permetteva, grazie al metodo allegorico, di inserire l’aristotelismo nello stesso tessuto della rivelazione”. In questo modo ottenne, “sul piano dell’ideologia corrente, un accordo tra il naturalismo razionalista aristotelico (= verità di ragione) e il testo biblico (= verità di fede)”.
Di discussioni filosofico-scientifiche di Federico II parla anche Giuda ben Salomone ha-Cohen, il quale, tra il 1245 e il 1247, si trovava alla corte dell’imperatore in Lombardia. Lo studioso spagnolo già precedentemente (sin dal 1233) aveva intrattenuto contatti epistolari con Michele Scoto. Giuda ha-Cohen scrive a proposito dei problemi geometrici e astronomici sui quali era stato consultato da Michele: “Quando furono esposte queste soluzioni davanti all’imperatore Federico (che la sua gloria sia esaltata!), si rallegrò molto delle risposte che davo a colui che pretendeva, davanti a lui, di essere un filosofo. Ci furono ancora, tra noi, numerose discussioni su numerosi argomenti e numerose domande e risposte, ma questo libro non si presta a esporle più a lungo. Le cose [la corrispondenza] si prolungarono per dieci anni e scesi negli stati dell’imperatore; vidi la saggezza delle sue azioni e dei suoi affari; i suoi sapienti, i suoi scribi, i suoi anziani, i suoi giudici, i suoi capi, la carne della sua tavola e le abitazioni dei suoi servitori”.
Va notato anche il fatto che Giuda ha-Cohen riferisce inoltre di una discussione con un interlocutore cristiano in cui questi utilizza il Talmud ma non l’attacca, mentre negli stessi anni, a Parigi, lo stesso testo fu bruciato pubblicamente (1242). A proposito delle discussioni pacifiche tra filosofi ebrei e cristiani Colette Sirat ha sottolineato che la “persona di Federico II” fu “fondamentale in tutto ciò che successe allora e che fu eccezionale nella storia dei rapporti tra ebrei e cristiani nel medioevo”.
Le frequentazioni ebraiche di Federico gettano una nuova luce sul suo atteggiamento nel caso di Hagenau del 1236. Le affermazioni, fatte in quest’occasione dall’imperatore, sulla sua profonda conoscenza dei libri degli ebrei e sulla sua convinzione che le accuse di omicidi rituali commessi da ebrei fossero del tutto infondate, potevano sembrare prodotti della retorica della sua cancelleria, redatti allo scopo di esaltare la sapienza del sovrano. Ora, dopo aver sentito, oltre la voce delle fonti latine, anche le testimonianze dei dotti ebrei che avevano conosciuto personalmente l’imperatore, e la cui attendibilità sembra fuori dubbio, queste affermazioni appaiono piuttosto credibili.
Va ricordato anche che le norme discriminatorie volute dal concilio lateranense del 1215, inserite da Federico nella sua legislazione del 1221, probabilmente nel regno di Sicilia non furono mai attuate, tanto che nelle Costituzioni di Melfi non se ne parla. Anzi, qui viene garantita la protezione delle minoranze religiose. La convivenza di etnie e religioni diverse aveva del resto nel Mezzogiorno d’Italia una lunga tradizione.
Federico, nonostante il suo interesse per le culture non cristiane, era un imperatore cristiano anche se negli ultimi decenni della sua vita in lotta aperta con il papato. La protezione accordata alle minoranze etniche e religiose non escludeva in casi di contrasto con il potere delle misure drastiche come la deportazione dei musulmani ribelli dalla Sicilia a Lucera. Allo stesso tempo però l’imperatore permetteva a questi musulmani di mantenere la loro fede anche in un ambiente cristiano come quello della Capitanata non abituato, a differenza della Sicilia, a una massiccia presenza di “infedeli”.
Sia musulmani che ebrei erano per l’imperatore strumenti del potere. Ma a differenza della maggior parte degli altri sovrani coevi Federico aveva un sincero interesse per le culture arabe e ebraiche, e anche una maggiore competenza in materia. Anche nel suo atteggiamento verso gli ebrei, lo svevo non si rivela affatto un imperatore come tanti altri, ma un sovrano, che nonostante sia stato, come lo siamo tutti, un prodotto del suo tempo, mostrò delle aperture mentali insolite in un’epoca, in cui altrove si colgono i primi segni di un processo di irrigidimento verso tutte le posizioni estranee alla ortodossia cristiana.
Copyright © Hubert Houben
nota 1) Pubblicato in “Tabulae”. Quadrimestrale del Centro Studi Federiciani (Fondazione Federico II Hohenstaufen di Jesi)” 23/24 (giugno-ottobre 2001) pp. 11-29. Una versione corredata di note è stata pubblicata in “Nuova Rivista Storica” 85 (2001) pp. 325-346.
nota 2) Hubert Houben è nato il 4 febbraio del 1953 a Heinsberg (Germania) vive a Lecce dal 1980. È professore Ordinario di Storia Medievale presso l’Università di Lecce. È membro della Commissione Internazionale per le ricerche sull’Ordine Teutonico e della Commission Internationale pour l’histoire de ville, nonché direttore del Centro di studi sull’Ordine Teutonico nel Mediterraneo (Torre Alemanna, Cerignola). È autore, fra l’altro, di “Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani”, Napoli (Liguori Ed.) 1996, e di “Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente, Roma-Bari (Ed. Laterza) 1999 (trad. inglese: Cambridge 2002).