La parashà inizia con le parole: “Ya’akòv uscì da Beer Sheva’ e si avviò verso Charàn” (Bereshìt, 28:10). Arrivato nei dintorni di Charàn, Ya’akòv si imbattè in un pozzo dove vi erano dei pastori con tre greggi in attesa dell’arrivo di altri greggi per poter rimuovere la pietra che copriva il pozzo ed abbeverare gli animali.
La conversazione tra Ya’akòv e i pastori fu laconica: “Ya’akòv disse loro: Fratelli miei, di dove siete? E quelli risposero: Siamo di Charàn. Ed egli disse loro: Conoscete voi Lavàn, figlio di Nachòr? Ed essi: Lo conosciamo. Ed egli disse loro: Sta egli bene? E quelli: Sta bene; ed ecco Rachel, sua figlia, che viene con il gregge (ibid., 29: 4-6).
R. Eli’ezer Ashkenazi (Italia?, 1512-1585, Cracovia) che fu rav a Cremona, nel suo commento Ma’asè Hashem alla parashà (cap. 21) afferma che quando Ya’akòv chiese se Lavàn stava bene (ha-Shalom lo?) Intendeva avere informazioni sulla situazione economica di Lavàn. Che fosse vivo era già stato chiarito dalla risposta che lo conoscevano. I pastori risposero che se voleva sapere la situazione economica di Lavàn la poteva dedurre dal fatto che Rachèl, figlia di Lavàn, stava arrivando al pozzo con il gregge del padre. Ya’akòv in un primo momento non capì la risposta dei pastori e ritenne che Lavàn avesse altri pastori e che Rachèl fosse arrivata per caso, così come il servo di Avrahàm aveva incontrato “per caso” Rivkà alla fonte. Ma poco dopo si rese conto che Rachèl non era venuta per caso, perché era proprio lei la pastorella del gregge di Lavàn. Lavàn era quindi in una miserabile condizione economica al punto che una giovinetta poteva accudire a tutto il suo gregge. Questo passo viene quindi a insegnare che tutta la successiva ricchezza di Lavàn derivò dal fatto che Ya’akòv si occupò del gregge di Lavàn per vent’anni.
Infatti, nel Midràsh (Pirkè Rabbì Eli’ezer, cap 36) è raccontato che prima che Ya’akòv arrivasse a Charàn, il gregge di Lavàn era stato colpito da una epidemia. Erano quindi rimasti pochi animali.
Dopo quattordici anni, Rachèl ebbe finalmente il figlio Yosèf e Ya’akòv chiese a Lavàn il permesso di congedarsi e di tornare a casa. Lavàn, rendendosi conto di quale tesoro fosse per lui il genero, gli chiese di restare. Ya’akòv rispose: “‘Tu sai in qual modo io t’ho servito, e quel che sia diventato il tuo bestiame nelle mie mani. Poiché quel che avevi prima ch’io venissi, era poco; ma ora s’è accresciuto oltremodo, e l’Eterno t’ha benedetto dovunque io ho messo il piede. Ora, quando lavorerò io anche per la casa mia?’ (Ibid., 30: 29-30). Da quel momento Ya’akòv venne compensato per il suo lavoro. Dopo sei anni Ya’akòv era diventato ricco con un numeroso gregge, e con schiavi, cammelli e asini.
A quel punto egli sentì i figli di Lavan che dissero:”Ya’akòv ha tolto tutto quello che era di nostro padre; e con quello ch’era di nostro padre, s’è fatto tutta questa ricchezza” (ibid, 31:1). L’ingratitudine e l’invidia dei figli di Lavàn era evidente.
R. Shlomò Efraim Luntschitz (Polonia, 1550-1619, Praga) nel suo commento Kelì Yakàr, sottolinea la contraddizione e la falsità delle affermazioni dei figli di Lavàn, che Ya’akòv “aveva tolto tutto quello che era di nostro padre”. La morale della storia è che gli ebrei sono graditi quando arricchiscono il paese dove abitano. Non lo sono più quando essi stessi diventano ricchi.