David Piazza*
Degli ebrei “lontani” si è detto finora molto, forse troppo e si è fatto poco, forse troppo poco. Si è detto molto perché sotto questa definizione possono cadere molte situazioni molto diverse tra loro e soprattutto perché, spesso parlare di ebrei lontani vuol dire evocare demagogicamente una politica comunitaria che dovrebbe essere diversa, ma che alla prova dei fatti è molto difficile riempire di contenuti concreti.
Esistono certamente ebrei lontani dalle istituzioni comunitarie perché se ne sentono esclusi, così come ne esistono altri che stanno bene nella particolare “lontananza” in cui si trovano. Esistono ebrei lontani geograficamente dai centri comunitari, o perché abitano nella periferia di una città con una grande comunità, oppure perché si trovano lontani da servizi comunitari degni di questo nome, sia perché abitano in una piccola Comunità, sia perché la Comunità magari in quella città neppure esiste. Esistono poi gli ebrei lontani dalle tradizioni o con una identità ebraica molto debole pur magari abitando in una grande Comunità. Anche in quest’ultima categoria troviamo ebrei che soffrono di questa lontananza e cercano in tutti i modi di supplire alle proprie carenze identitarie, così come ebrei che si offendono se li si chiama “lontani” perché loro, in fondo, si presentano regolarmente al Tempio almeno il giorno di Kippur, magari verso il pomeriggio tardi. Infine non dobbiamo dimenticare gli ebrei (“molto lontani”?), e sono tanti, che non sono nemmeno iscritti ad una Comunità, magari ebrei per nascita, ma che le vicissitudini della vita li ha portati ad altri interessi o altri luoghi e che pure, mai accetterebbero di abbandonare la piccola distinzione che si portano dentro.
Ebbene per ognuna di queste situazioni di lontananza c’è bisogno di sviluppare delle strategie di riavvicinamento che richiedono azioni diverse ma soprattutto sensibilità diverse. Le Comunità ebraiche in Italia certamente negli ultimi anni non se ne sono state con le mani in mano. In diverse Comunità oramai addirittura esistono alcuni programmi che nascono con l’intenzione dichiarata di recuperare alla vita comunitaria o all’ebraismo chi si trova in queste difficoltà.
Eppure esiste un approccio che potrebbe funzionare non solo con tutte le definizioni di ebrei “lontani”, ma potrebbe portare probabilmente anche al consolidamento del rapporto con gli altri ebrei: quelli vicini, quelli che sanno, quelli che partecipano.
L’approccio è quello della condivisione e della trasparenza della gestione comunitaria.
Per molti iscritti infatti la vita istituzionale e cioè le riunioni di Giunta e Consiglio; le assemblee; le riunioni della Consulta (per Roma); la gestione della Scuola e perché no, del Rabbinato, costituiscono troppo spesso un universo virtuale stile “Second Life” di cui si ha difficoltà a seguire lo svolgimento, e che all’esterno appare come un insieme di piccoli poteri che prendono decisioni importanti (o secondarie) che andranno in ogni caso però a incidere sul futuro comunitario, molte volte senza reali consultazioni con la base o senza condivisione con gli iscritti, tra istituzioni e tra settori diversi della stessa istituzione.
È vero, spesso si tratta solo di comunicazione lacunosa, ma in tanti altri casi sorge il sospetto che si tratti anche di una cattiva gestione del potere che interpreta la delega politica come un mandato in bianco a operare nel silenzio, senza lo “scomodo” fardello della trasparenza. Perché condividere vuol dire dover spiegare, rispiegare e poi ancora spiegare, dover rendere conto, senza dover dimostrare quello che a noi gestori sembra assolutamente inevitabile, e per di più chiaro come il sole. Il messaggio un po’ arrogante che molte istituzioni ebraiche trasmettono è sempre lo stesso, anche se sotto latitudini diverse: “Ma insomma, già lavoriamo per voi; volete anche che perdiamo tempo a raccontare che cosa facciamo o a chiedere il vostro parere?”.
Certo, non dovremmo mai dimenticare che a differenza della ben retribuita politica nazionale, dove interesse e corruzione regnano sovrane, la piccola politica comunitaria vive soprattutto di volontariato totale, dove non solo spesso non esistono privilegi, ma dove si sottrae tempo prezioso al lavoro e alla famiglia. Eppure il costo nascosto della non condivisione e della mancanza di trasparenza rimane altissimo.
E la ragione di questo costo è una sola. Se non c’è condivisione, spesso non esiste nemmeno il senso della Comunità, perché anche se non lo pensiamo spesso, in fondo anche gli iscritti senza cariche o senza ruoli, sono dei “volontari”
Lo sono perché potrebbero non iscriversi o cancellarsi dalla Comunità. Lo sono perché potrebbero usufruire di un servizio analogo offerto fuori dalla Comunità (a Milano per esempio esistono altre due scuole ebraiche oltre a quella Comunitaria, e moltissimi altri rabbini oltre a quelli del Rabbinato centrale), o addirittura di un servizio analogo non ebraico (iscrivendosi per esempio a una scuola statale).
Ad alcuni dirigenti comunitari piace (ed è perverso) pensare alla Comunità e ai suoi iscritti, come allo Stato italiano e ai suoi cittadini. Ma mentre lo Stato può permettersi di non condividere o di mal comunicare, tanto poi manda la Finanza se non paghiamo le tasse, quando la Comunità non condivide o mal comunica rischia di far fallire dei progetti importanti per scarsa partecipazione o di ottenere comunque meno preziose offerte in denaro (perché le tasse comunitarie sono in fondo anche questo) che mandano avanti servizi indispensabili per tutti.
Trasparenza e condivisione quindi significano in senso assoluto più comunità (in senso lato) e meno ebrei lontani, perché un ebreo che si interessa (e si riesce forse anche ad appassionare) alla gestione della istituzioni comunitarie è sempre e comunque un ebreo “vicino”.
*Assessore ai Giovani e alla Famiglia della Comunità Ebraica di Milano