La haftarà che accompagna la parashà di questa settimana è una delle haftaròt denominate “di disgrazie” nelle quali i profeti criticano Israele per i peccati da loro commessi. Queste haftaròt vengono lette nelle tre settimane tra i digiuni del 17 di Tamuz e del 9 di Av, il giorno in cui fu distrutto il Bet Ha-Mikdàsh. Nei sabati seguenti il 9 di Av si leggono le haftaròt “di consolazione”.
Anche le haftaròt “di disgrazie” terminano con un messaggio di speranza nel futuro. Questa haftarà termina con queste parole: “Ristabilirò i tuoi giudici com’erano anticamente, e i tuoi consiglieri com’erano al principio. Dopo questo, sarai chiamata ‘la città della giustizia’, ‘la città fedele’ “ (Yeshayà, 1: 26). In cosa consiste il ritorno dei giudici come erano prima?
R. Yechiel Mikhal Tukchinsky (Belarus, 1871-1955, Gerusalemme) in Ha’ir ha-Kòdesh ve-ha-Mikdàsh (IV, cap 16, ha-semikhà, pp. 120-121) spiega che Moshè per nominare Yehoshua’ come suo successore e giudice del popolo d’Israele, fece la semikhà, ossia l’imposizione delle mani. Così è scritto nella Torà: “L’Eterno disse a Moshè: prendi Yehoshua’ figlio di Nun, uomo che ha spirito in se e appoggia le tue mani su di lui” (Bemidbàr, 27:18). Moshè fece la semikhà anche ai settanta saggi del Sanhedrìn. E così generazione dopo generazione, i saggi nominarono i loro successori tramite la semikhà.
Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) spiega che solo la prima semikhà fatta da Moshè avvenne con l’imposizione delle mani. Nel Mishnè Torà (Hilkhòt Sanhedrìn, cap. 4:2) egli scrive: “Come viene fatta la semikhà nelle generazioni seguenti? Non si posano le mani sul capo del saggio, ma gli si da’ il titolo di Rav e gli si dice: Hai la semikhà e hai l’autorizzazione (reshùt) di giudicare anche per imporre pene” (dinè kenassòt).
Il periodo della semikhà, da giudice a giudice, si protrasse fino all’anno 538 E.V. fino a Hillel, che fu l’ultimo presidente del Sanhedrìn, quando il Sanhedrìn fu dissolto dai bizantini.
Con l’interruzione della semikhà, si poneva il problema di come poter ristabilire in futuro il Sanhedrìn che richiede che i membri siano dotati di semikhà. Il Maimonide indicò nel Mishnè Torà un metodo per farlo. Egli scrisse: “…se tutti i chakhamìm in Eretz Israel sono d’accordo nel nominare dei giudici e dare loro la semikhà, costoro hanno la semikhà e con essa l’autorizzazione di imporre pene e dare la semikhà ad altri” (ibid., 4: 11). Sulla base di questa decisione del Maimonide, nel 1538 r. Ya’akòv Berav e i chakhamìm di Safed ristabilirono la semikhà. Il primo a ricevere la semikhà fu r. Ya’akov Berav stesso. Egli poi la diede a R. Yosef Caro, a r. Moshè ben Yosef da Trani e a r. Moshè Alshich. Quest’ultimo diede la semikhà a r. Chayim Vital, il Calabrese. Vi fu chi oppose la restaurazione della semikhà, ma nonostante ciò la semikhà si protrasse per circa cent’anni.
R. Tukchinsky spiega anche il motivo per cui R’ Ya’akov Berav volle ristabilire la semikhà e con essa dare il potere ai giudici di imporre pene. In quel periodo vi erano molti ebrei che fuggivano dalla penisola iberica dopo essere vissuti da cristiani. Per poter far loro espiare i peccati di ‘avodà zarà che avevano commesso senza dover subire una più grave punzione divina, r. Berav voleva poter somministrare loro la pena delle percosse (Ha’ir ha-Kòdesh, p. 123).
La semikhà fu nuovamente interrotta dopo la morte di r. Chayim Vital a causa dell’oppressione degli arabi che costrinsero i chakhamìm a uscire da Eretz Israel, dove, come insegnò il Maimonide, non era possibile dare la semikhà (Ha’ir Ha-kòdesh, p. 128).
Al giorno d’oggi è rimasto il nome della semikhà solo come autorizzazione a essere chiamato Rav e a dare decisioni halakhiche alla comunità.