Il sesto episodio del podcast “Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo” racconta l’incredibile vicenda del ritrovamento della Ghenizah del Cairo e dello storico che ne ha studiato i documenti
Un magazzino di circa quattro metri per quattro, alto più di sette, senza porte o finestre, solo un’apertura dall’alto. Questa è la Ghenizah della Sinagoga di Ben Ezra al Cairo, una stanza in apparenza modesta, eppure teatro di una delle più straordinarie scoperte filologiche di tutti i tempi.
La legge ebraica prescrive che i testi sacri non siano buttati nella spazzatura, ma seppelliti. Per questo, le sinagoghe dispongono spesso di una camera, la Ghenizah appunto, in cui i libri usati sono depositati per qualche tempo prima di essere avviati al cimitero. Nel caso della Sinagoga di Ben Ezra però il deposito era sovradimensionato e il cimitero lontano. Così la Ghenizah continuò a riempirsi per secoli senza essere mai svuotata. Complice anche il clima asciutto, quando il primo scopritore moderno, Solomon Schechter, si introdusse nella stanza nel 1897, si trovò di fronte a una vera e propria caverna dei tesori, contenente centinaia di migliaia di frammenti, da intere pagine a semplici frammenti della dimensione di un francobollo.
All’inizio l’interesse della scoperta fu filologico: si trattava di ritrovare testi letterari perduti. Verso il 1950 però lo storico israeliano Shlomo Dov Goitein si rende conto che l’ammasso di circa 350mila frammenti può servire anche ad altro. Gli ebrei del Cairo, infatti, avevano una concezione molto ampia di testo sacro. Dato che ogni brano scritto in caratteri ebraici poteva contenere il nome di Dio, nel dubbio portavano nella Ghenizah qualsiasi documento, anche lettere commerciali, contratti di matrimonio, liste della spesa, registri contabili… Un patrimonio inestimabile, se si considera che la storia del Medio Oriente ci è nota soltanto dai racconti delle élites, mentre qui per la prima volta a parlare è la classe media.
Da quando ha questa intuizione, Goitein, studioso già affermato, abbandona tutti gli altri progetti di ricerca per consacrarsi alla ricostruzione della vita della comunità ebraica nella Cairo medievale: una società mediterranea, come recita il titolo dell’opera in cinque volumi che lo terrà occupato fino alla morte, sopravvenuta a Princeton nel 1985. “Sociografo”, come amava definirsi, Goitein sa dipingere miniature con livelli di dettaglio impressionanti, ad esempio sul cibo, la casa, i mobili, i mestieri. Questo però senza mai oscurare la tesi principale: «Musulmani, cristiani ed ebrei vivevano in grande prossimità e condividevano la vita in una misura molto più grande di quanto si sarebbe potuto immaginare sulla base delle sole fonti letterarie».
Da un lato Goitein era consapevole che l’esperienza da lui indagata fosse legata a un contesto storico ben preciso, l’Egitto tra l’anno 1000 e la fine del 1200, l’epoca a cui risale la maggior parte dei frammenti. Per questo non parlò mai di società mediterranea in astratto, ma sempre e solo di una società mediterranea. D’altro canto, però, lo storico israeliano individuò tre pilastri che, nell’epoca da lui studiata, diedero forma a un modo di vita comune che trascendeva i confini delle diverse comunità religiose: la fede monoteista, la famiglia, e la città, intesa come luogo di socialità e di commercio. Sono tre elementi che saltano ancora all’occhio di chiunque visiti il Mediterraneo. E sono tre fondamentali da cui ripartire anche oggi.
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