I nostri avi in Egitto furono schiavizzati per secoli, oppressi, vilipesi; i loro figli condannati a morte, le mogli e le figlie costrette a vivere nel terrore.
Un giorno, si presenta qualcuno con credenziali di tutto rispetto che inizia a fare loro promesse di libertà; Moshè portava loro il messaggio divino della redenzione imminente e la sicurezza di una terra fertile in cui abitare. In questa parashà la risposta dei figli d’Israele è: “E loro non ascoltarono Moshè per la loro ristrettezza di spirito e per il duro lavoro.
I nostri Maestri spiegano che il versetto non può essere interpretato solo in maniera letterale e danno una spiegazione particolarmente profonda: i figli d’Israele non erano in grado di cogliere il mesaggio di salvezza divino trasmesso da Moshè, non solo a causa dell’enorme sforzo fisico cui erano sottoposti, ma anche e soprattutto per il fatto che “mancavano di spirito”. In altre parole, l’aver sofferto in schiavitù per così tanto tempo, avrebbe tolto loro la capacità di avere fede, di credere che la libertà fosse ancora qualcosa di realmente raggiungibile. Inoltre mai nella storia dell’Egitto un singolo schiavo era riuscito a scappare; come sarebbe stato possibile far uscire un’intera nazione? Capita a tutti di essere talmente persi nella propria mediocrità da non vedere nemmeno la più piccola possibilità di cambiare le cose e di perdere la voglia di combattere.
Un grande Maestro chassidico, Reb Mendel Futerfas, era solito dire: se perdi i tuoi soldi, non hai perso nulla; i soldi comunque vanno e vengono. Se hai perso la salute, hai perso metà di te stesso. Se hai perso la voglia di combattere, sei finito”.
Moshè non era un sognatore: egli riportò in vita uno spirito nuovo a una nazione di schiavi, grazie anche ai miracoli divini. Capita a tutti di essere tristi, a volte anche un poco depressi. Perdere lo spirito invece, è una cosa che non ci possiamo permettere.
Dalla newsletter Hashavua del Rabbinato Centrale Milano