Jonathan Pacifici – www.torah.it
“E apparve a lui il Signore nel querceto di Mamrè, [mentre] egli siede alla porta della tenda, per la calura del giorno.” (Genesi XVIII, 1).
Già in passato, ed in particolare nella derashà del 5769, abbiamo visto come la dimensione della visione nella sua bipolarità (vedere ed apparire) sia un importante filo conduttore per la nostra parashà e ciò è chiaramente anticipato nel nome della parashà.
Solo per fare qualche esempio: il Signore si rivela ad Avraham ed Avraham vede gli angeli.
Anche Lot vede gli angeli, quegli stessi angeli che accecano i Sodomiti. Quando Lot parla ai generi: “Ed uscì Lot e parlò ai suoi generi, che avevano preso le sue figlie e disse: ‘Alzatevi, uscite da questo luogo, perché il Signore distrugge la città’; ed era come uno che scherza agli occhi dei suoi generi.” (Genesi XIX, 14).
La moglie di Lot guarda dove non deve.
Quando Avimelech vuole veramente capire le intenzioni di Avraham “E disse Avimelech ad Avraham: che cosa hai visto, sì da fare questa cosa?” (Genesi XX,10).
Poi c’è Agar: “E schiuse il Signore i suoi occhi e vide un pozzo d’acqua, ed andò e riempì l’otre d’acqua e diede da bere al fanciullo.” (Genesi XXI, 19).
E poi ancora nell’episodio della legatura: quando Izchak domanda: “Dov’è l’agnello per l’offerta di olà?” Avraham risponde “Iddio provvederà (vedrà) a lui, l’agnello per l’offerta di olà, figlio mio”. Fino a “E chiamò Avraham il nome di quel luogo: ‘Il Signore Vedrà’ del quale verrà detto oggi: ‘Sul Monte del Signore verrà visto.’” (Genesi XXII, 14).
La Torà, è noto, parla la lingua degli uomini eppure usa il nostro linguaggio proprio per insegnarci il senso profondo delle parole ben oltre il pshat, il senso immediato che noi prendiamo in considerazione.
Sforno dice di Agar “E schiuse il Signore i suoi occhi: gli diede conoscenza, per riconoscere il luogo d’acqua che c’era lì, poiché non era cieca prima di ciò.” (Rabbì Ovadià Sforno in loco). La visione è allora qualcosa di più, è la premessa per la conoscenza e la comprensione, tant’è che il Midrash Rabbà dice in loco “Tutti sono da considerarsi ciechi fintantoché il Santo Benedetto Egli Sia non illumina i loro occhi.” (Midrash Rabbà).
La cecità spirituale è l’ostruzione del cuore. Si vede ma non si capisce ciò che si vede.
In passato ad esempio abbiamo anche visto come il Maaram da Rottenburg in una delle sue geniali intuizioni associ il verso in cui Lot parla ai generi al verso dell’Esodo nel quale il Faraone dice ‘Alzatevi ed uscite da mezzo al mio popolo.’ (XII, 31) “allude al fatto che come Lot era uno che scherzava agli occhi dei suoi generi, così era Moshè agli occhi di Israele, come è scritto ‘Magari fossimo morti per mano del Signore in terra d’Egitto.’” (Esodo XVI, 3).
In quel caso ci siamo occupati della contraddizione nel commento del Maaram che prima parla del Faraone e poi parla degli ebrei, e non ci dilungheremo su ciò. Vorrei invece provare a spiegare il Maaram in tutt’altro modo.
Il rapporto tra visione e comprensione è uno dei pilastri del diritto ebraico. I Saggi ci dicono infatti che ‘il giudice non ha altro che quanto i suoi occhi vedono.’ (TB Bavà Batrà 131a, TB Niddà 20b ed altrove). Ciò da una parte impone al giudice di prendere atto in maniera diretta delle evidenze del caso (e questo si impara direttamente dal Signore che guarda prima di giudicare con la generazione della Torre prima e con Sdom dopo), ma d’altro canto ne limita anche la responsabilità. Il giudice non è tenuto ad andare oltre a ciò che i suoi occhi vedono, nel senso che il giudice è umano e pertanto limitato e la Torà non solo lo riconosce, ma lo investe della sua autorità proprio in funzione dei limiti fisiologici del suo essere uomo. Se così non fosse non ci sarebbe nessuno disposto a giudicare perché è chiaramente impossibile per il giudice andare oltre la propria comprensione umana e i propri sensi laddove magari la verità assoluta richiederebbe sensi sovrumani.
Ciò è vero anche per ognuno di noi. La Torà parla con la lingua degli uomini, nel senso che è data a noi in quanto uomini, e non agli angeli! Non siamo nella pura filosofia: ciò ha delle importantissime ripercussioni halachiche.
Uno degli esempi classici si trova nel trattato di Shabbat (12a). Bet Shammai proibisce l’uccisione dei pidocchi di Shabbat, Bet Hillel consente. Il criterio è spiegato a pagina 107b. L’uccisione degli animali, come tutti i lavori proibiti di Shabbat si riferisce a quelle operazioni necessarie per la costruzione del Santuario. Nello specifico si impara dall’ail, il montone la cui pelle fu usata per la copertura del Santuario. Da qui che l’uccisione si riferisce a quelle creature che hanno un minimo comun denominatore con il montone: che si riproducono sessualmente. Il pidocchio non rientra in questa categoria perché non si riproduce sessualmente ma ‘nasce da solo’ dalla pelle dell’uomo (Rashì), e pertanto non rientra nel divieto di uccidere. Il problema è che ciò è scientificamente falso. Che impatto ha la realtà scientifica con l’halachà?
Rabbì Itzchak Lampronti (Pachad Itzchak, Erech Zeidà Asurà) tende a proibire l’uccisione del pidocchio di Shabbat per via del fatto che alla sua epoca era già chiaro che i pidocchi si accoppiano e nascono dalle uova.
Rav Dessler (Mictav MeEliau, IV p. 355) ha un approccio completamente opposto. Non è la spiegazione razionale che impone la regola ma al contrario è la regola che impone la spiegazione razionale. I Saggi hanno ricevuto la halachà, punto. In alcuni casi hanno provato a dare spiegazioni razionali secondo il livello della loro comprensione e di ciò che era comprensibile alla loro epoca. Se la spiegazione non è più valida ciò non cambia la regola di una virgola, si deve cercare una spiegazione migliore.
Rav Dessler ne propone una per il pidocchio di Shabbat. La regola vuole che la halachà si riferisca sempre e solo a ciò che i sensi umani possono percepire. Le uova dei pidocchi hanno una dimensione talmente minima da essere al limite della capacità visiva umana (e forse le specie presenti all’epoca erano ancora più piccole). Per la Torà se una cosa è invisibile vuol dire che è come se non esistesse. Se le uova del pidocchio non le posso vedere allora è come se il pidocchio non procreasse ma nascesse da solo dagli elementi umani dei quali si nutre. E se così è non rientra nel divieto di uccisione degli animali di Shabbat.
Tra l’altro questo è esattamente il principio che ci consente di mangiare frutta e verdura senza imporre l’uso del microscopio elettronico per verificare l’assenza di parassiti ed altri organismi microscopici. La Torà è stata data agli uomini in quanto tali e ciò che non è visibile all’occhio umano non esiste (a scanso di equivoci, ciò non significa che un ingrediente proibito che non vedo è permesso in quanto tale!).
Che c’entra tutto ciò con il Faraone ed il Maaram da da Rottenburg?
La terza piaga con la quale il Signore colpisce l’Egitto sono i kinnim, insetti alati. Questa non è una piaga qualsiasi ma rappresenta il punto di rottura della corte egiziana. I maghi infatti provano a creare i kinnim, ma non riescono e riconoscono ‘questo è il dito di D.’. Anche se generalmente il termine è tradotto pidocchi va ricordato che secondo la maggior parte delle interpretazioni si trattava di qualcosa di simile alle zanzare. Probabilmente una specie poi scomparsa o almeno non presente in Eretz Israel, tanto che il termine è stato poi usato per indicare proprio i pidocchi (Onkelus, vedi anche Shadal in loco). Resta il fatto che il Talmud (TB Sanedrhin 67b, citato da Rashì in loco) spiega a nome di Rabbì Eliezer che i maghi non poterono nulla in questo caso perché ‘lo spirito non domina (crea) su ciò che è più piccolo di un chicco di orzo’.
Il microscopico è il limite dell’esperienza umana diretta e come tale ci induce a riconoscere i limiti dell’uomo e l’infinità del Signore. È chiaro che poi l’uomo può chiudere gli occhi e rifiutare di vedere anche il macroscopico. È il libero arbitrio. I generi di Lot vedono ma non capiscono e purtroppo a volte anche Israele.
Il senso però di questa parashà, alla luce del pidocchio dello Shabbat, è però un forte richiamo a quel processo di santificazione che l’uomo deve intraprendere nei limiti della propria esperienza umana. C’è quello che i nostri occhi non possono vedere perché troppo piccolo o perché troppo grande. Quello che è troppo piccolo come le uova dei pidocchi, si è detto, è come se non esistesse. Anche ciò che è troppo grande del resto, come una Succà talmente alta che non si percepisca che è una Succà, è invalida. O come è detto di Adam che vedeva da un capo all’altro del mondo.
Noi possiamo e dobbiamo misurarci con ciò che noi possiamo misurare. Con quelle dimensioni che delimitano la nostra vita di uomini nella quale però dobbiamo versare l’infinito della Torà e delle mizvot. Così, mi pare, dobbiamo allora leggere tutte le visioni della nostra parashà. Non delle visioni sovrumane, ma anzi radicate nell’essere uomini. Avraham ed Izchak vedono la nube sul monte Morià e capiscono. Ishmael ed Eliezer no.
Anche la redenzione, possa giungere presto ed ai nostri giorni, è in funzione della nostra capacità di vedere ‘‘ajn beain’ di occhio in occhio, nel ritorno del Signore a Sion.’ (Isaia LII, 8).
Shabbat Shalom, Jonathan Pacifici