Jonathan Pacifici – www.torah.it
[1] “Non accenderete fuoco in tutte le vostre residenze nel giorno dello Shabbat”. (Esodo XXXV, 3)
[2] “E queste saranno per voi come statuto decreto per le vostre generazioni in tutte le vostre residenze”. (Numeri XXXV, 29)
La nostra Parashà si apre in maniera molto strana: “E radunò Moshè tutta la congrega dei figli d’Israele e disse loro: ‘Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare:…’” (Esodo XXXV,1). Segue l’ordine di rispettare lo Shabbat. Tale comandamento era già stato definito dalla Torà fin da prima della rivelazione sinaitica per poi essere ripetuto nel Decalogo ed in altre occasioni.
L’Halachà, in effetti, non impara da questo verso il comandamento dello Shabbat. Trattando qui la Torà della costruzione del Santuario, il testo ci ha voluto diffidare dall’effettuare i lavori di costruzione durante lo Shabbat. La costruzione del Santuario quindi non respinge il Sabato e con ciò la Torà sottolinea la superiorità della Santità del tempo su quella dello spazio: come ricorda Heshel, la prima volta che la radice del termine ‘santo’ (KDSh, Kadosh) viene usata nella Torà è in occasione dello Shabbat.
La particolarità del passo in questione è però nel suo ultimo verso, dopo il quale il testo riprende a parlare (per tutto il corso della Parashà) dei dettagli della costruzione del Santuario. Si tratta della fonte [1] che abbiamo citato qui sopra nella quale la Torà sembrerebbe proibire l’accensione del fuoco di Shabbat. L’intero passo sullo Shabbat inserito all’inizio della Parashà ruota, dal punto di vista Halachico, attorno a questo verso.
Il Malbim nota una discrepanza logica e commenta in loco: “Ed è molto strano che dica che il Signore ha comandato di fare, non è forse quest’ordine di non fare un lavoro di Shabbat? Non è ‘fare’ ma solamente ‘non fare.’” Il Malbim si stupisce quindi di come l’astensione dal lavoro di Shabbat venga definita ‘fare’ da Moshè quando sarebbe stato più logico dire ‘non fare’. Teniamo a mente questa posizione perché ci torneremo in seguito. Per quanto strano possa sembrare il verso in questione non è neppure la fonte della proibizione di accendere fuoco di Shabbat! Essa si impara da altri versi ed è compresa assieme ad altre proibizioni. Nonostante ciò il verso ci insegna un’altra mizvà. Il Talmud Jeruscialmi (Sanedrhin IV,6) riporta un interessante intervento di Rabbì Illà a nome di Rabbì Jannai. Il nostro testo utilizza la parola ‘residenze’ e c’è un altro testo che utilizza la parola ‘residenze’. Nel secondo testo (fonte [2]) si parla delle città rifugio nelle quali si può mettere al riparo l’omicida involontario. Egli applica una ‘ghezerà shavà’ (il secondo dei tredici principi ermeneutici stabiliti da Rabbì Jshmael in base ai quali si interpreta la Torà. Se la Torà usa due parole uguali in due versi scollegati è per tracciare una similitudine tra questi) ed impara: “Così come lì (nel secondo verso che tratta della città rifugio) [la parola residenze] si riferisce ai giudici, anche qui (nel primo verso) si tratta dei giudici.” Stabilisce così che “Che i tribunali non giudichino di Shabbat.”
Tale regola viene inclusa dal Sefer HaChinuch nel computo delle 613 mizvot. (114): “[Nella parashà di Vajakel] c’è una mizvà negativa ed essa è che i giudici non facciano il proprio giudizio di Shabbat, cioè che chi viene condannato a morte dal tribunale non venga messo a morte di Shabbat, così come è detto “Non accenderete fuoco in tutte le vostre residenze nel giorno dello Shabbat” e la sua spiegazione è che il tribunale non bruci di Shabbat colui che è stato condannato [a morte attraverso] bruciatura, e questa è la regola anche per gli altri tipi di esecuzione.” Da notare lo stretto legame logico che esiste tra questa regola ed il verso [2], apparentemente del tutto scollegato, che invece permette di comprendere la legge che regola la materia: lo Shabbat è una sorta di Città rifugio per coloro che sono condannati a morte.
Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la letteratura rabbinica saprà certamente che l’esecuzione di una condanna a morte è quasi impossibile. L’Halachà pone tante e poi tante condizioni da rendere in sostanza impossibile l’esecuzione. I Saggi stabilirono che un tribunale che si fosse macchiato di una esecuzione nel corso di settanta anni era da definirsi ‘sangunario’. È allora chiaro che qui non si sta parlando solamente del particolare tecnico. Il Bal Haturim ricorda che la proibizione di accendere il fuoco è parallela al fatto che Iddio spegne le fiamme del Gheinom di Shabbat. Come noto nel corso dello Shabbat le anime dei peccatori nel loro primo anno di morte, che quindi si trovano nel Gheinom, raggiungono le anime del resto d’Israele e passano assieme a loro lo Shabbat. Lo Shabbat è quindi, anche dal punto di vista Divino un’interruzione nell’esecuzione della pena. C’è del resto un celebre precedente. Il Midrash racconta che Adam, condannato a morte per il peccato dell’albero, vide sospendere la propria pena per l’ingresso dello Shabbat. Adam fece Teshuvà ed il Signore illuminò il suo pentimento con la luce del primo giorno della creazione. In sostanza Shabbat, che entra con l’accensione del lume sabbatico ed esce con l’accensione della torcia della Avdalà, è il momento nel quale il fuoco della punizione viene spento mentre il Signore ci illumina con la luce della Torà.
Sempre il Bal Haturim nota come la scorsa parashà si sia chiusa con il fatto che il volto di Moshè divenne radiante per la vicinanza con la Divinità. Subito dopo la Torà parla dello Shabbat. Questo insegna che di Shabbat Iddio illumina coloro che osservano scrupolosamente l’astensione dal lavoro. Shabbat è allora il momento nel quale noi dobbiamo mettere da parte il fuoco proprio perché simbolo dell’operosità umana. Ed è proprio il lavoro creativo che caratterizza l’uomo che è proibito di Shabbat, nelle parole del Talmud “Melechet Machsevet Asrà Torà”, la Torà ha proibito il lavoro creativo”.
Abbiamo più volte ricordato che questo lavoro creativo è espresso dalle 39 categorie di operazioni proibite di Shabbat che sono poi le stesse categorie di azioni che D-o ha utilizzato creando il Mondo. Tale creazione è generalmente definita “yesh me ain”, dal nulla. “C’è, dal nulla”.
Rabbi Shneuer Zalman di Lyadi, primo Rebbe di Lubavitch ed autore del Tania, rileva che le cose, viste da una certa angolazione, sono differenti. I Maestri della Kabalà insegnano che per Creare il mondo Iddio (che è Infinito) si è ristretto (zimzum) per permettere al mondo di esistere. Dal punto di vista grafico (se così si può dire) il nostro universo è una microscopica bolla dalla quale D-o si è ritratto (riuscendoci?) per permettere a noi di poter vivere nel libero arbitrio. Allora la Creazione diventa un ‘ain me yesh’, un nulla dal c’è. Dall’Essenza dello spirito Iddio crea un piccolo ed instabile (cfr. rottura dei vasi) nulla spirituale che tocca a noi riempire. Esiste quindi un rapporto inversamente proporzionale tra materia e spirito. La Creazione che è dal nulla dal punto di vista materiale, è una Creazione del nulla dal c’è dal punto di vista spirituale.
Rav Shimshon Refael Hirsh sostiene che la costruzione del Santuario rappresenta una creazione alla rovescia. Se questo mondo di materia è stato creato dallo spirito ecco che allora il nostro compito è quello di creare lo spirito dalla materia. Trasformare oro, argento rame e tessuti nel Santuario del D-o Vivente.
Shabbat è il momento in cui Iddio cessa la propria opera creatrice. È l’astensione dal lavoro fisico ma è anche il trionfo della spiritualità. È il momento in cui Iddio smette di creare dal punto di vista fisico, cessa il nulla che D-o crea in se, Iddio smette di ritirarsi. Shabbat è il momento in cui si spengono le fiamme del Gheinom per coloro che hanno trasgredito nella materia perché di Shabbat non è della materia che ci si occupa. Eseguire una condanna a morte è la cosa più materiale che ci possa essere ma è anche la testimonianza del fatto che alla fin fine ci sono pur delle regole e che ci sono (rarissime) volte in cui il Tribunale deve portare agli estremi termini l’autorità che D-o ha dato all’uomo nella gestione della materia su questo mondo. Shabbat è il momento della cessazione sì, ma della materia. È invece l’inizio dell’opera, il cuore dell’opera, dal punto di vista dei contenuti: “Fine dell’opera, che è l’inizio nel pensiero” lo definisce Shelomò HaLevì in Lechà Dodì. E la Torà ha detto ‘Poichè in esso ha cessato da ogni sua opera che ha creato il Signore per fare.’ Ecco allora che il fare dello Shabbat è un fare diverso, è un operare nello spirito. Visto il rapporto inverso che c’è tra materia e spirito e tra creazione nella materia e nello spirito, di Shabbat l’astensione dal fare è fare. In questo modo possiamo risolvere la domanda del Malbim. Moshè utilizza il verbo ‘fare’ per l’astensione dall’accensione del fuoco di Shabbat, perché il fare di Shabbat passa attraverso il non fare lavori proibiti. Allora capiamo anche perché di Shabbat non si costruisce il Santuario. Perché se il Santuario è la dimensione nella quale si rovescia l’opera della Creazione e si trasforma la materia in spirito laddove Iddio ha trasformato lo spirito in materia, ecco che di Shabbat la situazione è del tutto diversa. Di Shabbat è assolutamente chiaro che né D-o né gli uomini trattano di materia. Shabbat è il momento nel quale due processi che viaggiano in direzioni convergenti, la Creazione del Mondo e la costruzione del Santuario si incontrano nella astensione che si tramuta in azione dello spirito. Di Shabbat non si eseguono condanne a morte per lo stesso motivo per il quale Iddio non punisce le anime dei trasgressori di Shabbat: di Shabbat le preoccupazioni di ogni genere vengono messe da parte. Il nostro compito è quello di far finta di dimenticare che siamo uomini e quello di D-o è quello di far finta di dimenticare che è il Creatore: per poterci sedere assieme alla Tavola Imbandita del Sabato, lo Shulchan Haruch, il contenuto spirituale della Creazione.
Shabbat Shalom Jonathan Pacifici