Jonathan Pacifici – www.torah.it
“E Moshè radunò tutta la congrega dei Figli d’Israele e disse a loro: ‘Queste sono le cose che il S. ha comandato di fare:…’”. (Esodo XXXV,1)
Nella doppia parashà di questa settimana, Moshè istruisce il popolo circa la costruzione del Santuario. Si tratta in buona parte di una ripetizione di concetti espressi nelle precedenti parashot ma con alcune significative differenze. Una di queste in particolare ha destato la curiosità dei nostri Maestri: l’ordine dello Shabbat. Nella Parashà di Ki Tissà l’ordine relativo allo Shabbat viene dato dopo quello della costruzione del Mishkan, qui invece lo precede. Come mai? Lo Shem MiShmuel propone un interessantissima soluzione partendo da un precetto che apparentemente non ha nessun nesso con la nostra questione: la parà adumà, la vacca rossa della quale proprio in questo sabato ci occupiamo.
In Bemidbar Rabbà è detto che il Santo Benedetto Egli Sia diede contestualmente a Moshè le regole della purità ed impurità di ogni cosa. Quando arrivò alla Parashà di Emor, che tratta delle regole sacerdotali Moshè chiese quale sia il modo per purificare un Coen divenuto impuro, ma il Signore non rispose. La soluzione di questo quesito halachico resta sospesa fino alla parashà di Chukat nella quale Iddio gli disse che la vacca rossa è la risposta alla domanda rimasta in sospeso.
Per complicare un poco le cose, se non bastasse, nella Pesikta è invece detto che l’origine dei concetti della Vacca Rossa sono da ricercarsi nell’incontro tra Avraham e gli angeli: Avraham propone loro dell’acqua per lavarsi i piedi e poi corre al bestiame e queste sono le due componenti della parà adumà, l’acqua e la cenere della vacca stessa.
Sulla base di questi due strani midrashim il Rabbì di Sochatchov spiega: l’uomo è stato creato completo nelle sue due dimensioni principali. L’anima, l’intelletto, è la sua componente Celeste che per il Midrash è superiore a quella angelica e così dice rabbi Chajm Vital spiegando che la sorgente delle anime di Israele è superiore a quella degli angeli stessi. Anche la componente terrestre, il corpo, nasce integra, secondo quanto detto in Koelet (VI) che ‘Iddio ha fatto l’uomo diritto e loro hanno cercato molteplici questioni’. La semplicità primordiale dell’uomo nella sua fisicità è per lo Shem Mishmuel avere un ‘solo cuore’ rivolto al Signore. Un integrità materiale semplice e dirompente. Quindi l’intelletto ragiona ed il cuore sente ed entrambe le dimensioni avvicinano l’uomo al suo Creatore. L’uomo è allora il nodo che lega il mondo celeste con quello terrestre.
La tensione reciproca tra questi due mondi si esprime per mezzo dell’uomo che è formato da entrambi. Ecco allora Adam pregare per la pioggia che non scende senza la sua tefillà (Rashì) facendo scendere i superiori verso gli inferiori, ma anche presentare korbanot facendo salire il mondo fisico verso l’alto. Questo doppio nodo bidirezionale è chiamato dal Rabbì il doppio nodo proibito di Shabbat: è la definizione stessa di un legame saldo.
In questo contesto anche la dipartita dell’uomo da questo mondo doveva essere in linea con questo suo ruolo. Sarebbe dovuto essere simile ad un uomo che ha una casa a due piani ed abita dove vuole in un ecosistema nel quale materiale e spirituale si fondono.
Questo sistema viene messo in crisi, come noto, dal peccato dell’albero. La Torà dice che Chavvà vide che l’albero era “buono da mangiare, e che era desiderabile agli occhi e piacevole per l’intelletto”. Nella descrizione persistono le sue dimensioni: il desiderio istintivo del cuore attraverso i sensi ma anche l’approccio dell’intelletto.
Per lo Shem Mishmuel questo è il momento nel quale si rompe il nodo che lega le due dimensioni dell’uomo.
Così egli spiega quanto detto in TB Jomà 83b ‘dal momento che l’uomo compie una trasgressione e la ripete, diventa per lui (come) cosa permessa’.
La trasgressione che nasce nell’istinto attraverso la routine penetra l’intelletto e trasforma una semplice pulsione sbagliata in un ben peggiore peccato radicato nella mente, nel modo di pensare. Uno pecca con il cuore e alla fine pensa da peccatore con la testa.
Con ciò possiamo capire come dal peccato in poi il momento della morte è caratterizzato dalla scissione di anima e corpo, che, non più legati dal doppio nodo, vanno ognuno per la sua strada: l’anima torna ai superiori e il corpo non puó che restare muta materia senza più collegamento con il mondo dello spirito.
Possiamo così capire la definizione dell’impurità del cadavere umano come ‘avi avot hatumà’ padre dei padri dell’impurità. Una definizione ed uno status di tumà che non ha eguali. Sempre in Jomà (39a) è detto che tumà è legato al concetto di timtum, ostruzione. La tumà è il risultato di un ostruzione, che Rashì rende come ostruzione dalla saggezza. La separazione delle due nature rende il corpo inerte incapace di tendere ormai verso l’anima e di ricevere la tensione dell’anima verso la materia e ciò crea un vuoto doppio che i Saggi descrivono con il duplice ‘avi avot’.
È proprio per questo motivo secondo il Rabbì di Sochatchov che i Coanim sono comandati di non rendersi impuri per un cadavere, ma non c’é differenza tra loro ed un altro ebreo per il resto delle impurità. I Coanim dice l’Avnè Nezer sono pnimiim, interiori. Il loro servizio è celato all’esterno, nessun altro può entrare nel Santo. Sono coperti dagli abiti sacerdotali perché ciò che è interiore necessita protezione. Questo non avviene ad esempio con i leviti. Orbene l’intelletto è la parte più interiore che c’è. L’idea allora è che tutte le forme di impurità intaccano il cuore, ma solo l’impurità del morto intacca l’intelletto ed è su questo che i Coanim sono comandati di non rendersi impuri, perché si tratta della loro stessa identità, l’intelletto, l’interiorità.
Capiamo allora come tutte le forme di purificazione siano basate sull’acqua. L’acqua è per rabbi Chajm Vital la radice dei piaceri. L’acqua può sanare pertanto l’impurità che viene dal cuore, dall’istinto. Per purificare chi è entrato in contatto con un morto l’acqua non basta. Serve la risposta al vuoto dell’intelletto.
Avraham compie queste due operazioni per avvicinare gli angeli che lui crede viandanti idolatri: gli dà dell’acqua per lavare i piedi e poi corre al bestiame. Per i commentatori Avraham con l’acqua vuole rimuovere la polvere idolatrata dalla gente dell’epoca. È il confronto con l’uomo nel precipizio della sua materialità quando si prostra alla polvere dei piedi. Poi però corre al bestiame. Il toro è il simbolo dell’intelletto nel bene e nel male: può essere il segno della superbia e del danno ed ecco allora le sua corna essere la radice dei nezikim, dei danni verso il prossimo. Ma può essere il simbolo dell’intelletto in positivo: l’uomo deve sottomettersi alle parole della Torà come un toro al suo giogo (TB Avodà Zarà 5b). Avraham non si limita a purificare i propri ospiti nel cuore e nella materia della polvere ma cerca di purificarli anche nell’anima e nell’intelletto attraverso la carne che gli presenta e mi sembra che così vada inteso anche quanto hanno detto i Saggi circa il processo educativo di Jshmael nella shechità.
La cenere della vacca rossa e l’acqua pura sono le due dimensioni necessarie per purificare dalla tumat hamet.
Shabbat e Mishkan vanno letti in questa chiave. Shabbat il giorno dell’anima è nella misura dell’intelletto. È immateriale, è tempo, pura anima. Il Mishkan è nella materia, è il cuore d’Israele. E le due cose vanno sempre assieme. Prima del vitello d’oro Israele è in condizione di ricucire il legame rotto dal peccato dell’albero. Con il peccato del vitello Israele pecca prima di intelletto cercando un sostituto per Moshè e poi il peccato penetra nel cuore, “vajakumu letzachek”, si alzarono per dedicarsi a cose immorali.
Per questo in Ki Tissà il cuore precede la mente. Ma dopo il peccato si deve aggiustare secondo l’ordine di rottura e il primo passo è aggiustare l’anima e l’intelletto attraverso lo Shabbat. Ed ecco allora la nostra parashà occuparsi prima dello Shabbat dell’anima e solo dopo del santuario della materia.
In questa straordinaria lettura il Rabbì ci guida in una profonda analisi di un precetto che è l’incomprensibile per definizione. Forse allora il senso della possibilità di capire questo precetto va letta proprio nella sua capacità di mettere a posto l’intelletto stesso attraverso il suo ricongiungimento con il cuore. Noi non possiamo capire questa mizvà proprio perché viene a sanare la nostra capacità di capire e sentire all’unisono.
Fino a quando il Santo Benedetto Egli Sia non curerà questa nostra frattura dandoci un cuore nuovo e uno spirito nuovo al Suo servizio, Benedetto Sia.
Shabbat Shalom, Jonathan Pacifici