Praghese, ebreo e tedesco, esortava alla “fede in un Dio personale»” E fino all’ultimo voleva “salire” in Palestina
«Quando Kafka leggeva i suoi scritti agli amici, quell’umorismo diventava particolarmente manifesto. Ridemmo, per esempio, senza freno quando ci fece sentire il primo capitolo del Processo. Egli stesso rideva talmente che per qualche momento non era capace di continuare la lettura. Fatto abbastanza strano quando si pensi alla tremenda serietà di questo capitolo».
Così Max Brod ricordava la lettura, nel 1914, del più famoso romanzo del suo amico, nel Café Arco di Praga, la loro città, dove – a differenza del Café Continental, per Brod «una delle roccaforti del germanesimo di Praga», o della Kavárna Union e Café Slavia completamente ceche – si praticava il bilinguismo con la presenza degli artisti figurativi del Gruppo degli Osma, degli Otto germanofoni e cechi insieme, ovvero: autentici boemi. Dovevano essere serate vivaci e celebri, al punto che non passarono inosservate a Karl Kraus che da Vienna li battezzò ironicamente gli «Arconauti». In realtà il riservato Doctor juris Franz Kafka, funzionario dell’Imperial-regio «Istituto per gli Infortuni sul lavoro», frequentava anche il Café Louvre, dove erano assidui i discepoli del filosofo Franz von Brentano e dove, nel suo anno a Praga nel 1911, bazzicava anche Albert Einstein, nonché l’iniziatore della psicologia della Gestalt, Christian von Ehrenfels, come pure Rudolf Steiner, il fondatore dell’antroposofia, quand’era nella capitale boema. Insomma Kafka così solitario non era, anzi era partecipe del grande dibattito intellettuale ed estetico del suo tempo, che in gran parte è anche il nostro. Certo, Praga gli stava stretta, come scriveva, non ancora ventenne, all’amico del cuore, Oskar Pollak, nel 1902: «Praga non molla… Questa mammina ha gli artigli. Bisogna adattarsi o… In due punti dovremmo appiccarle il fuoco, al Vyehrad e al Hradschin, e così sarebbe possibile liberarci… Pensaci un po’ su fino carnevale». Sempre quell’ironia disperata, pur nel graffiante umorismo. Qualcheduno ce l’aveva fatta a lasciare Praga: Rilke, che se ne fuggì e per tutta la vita non ne volle sapere di tornare.
Praga significava per Kafka la famiglia, il padre Hermann, robusto, autoritario, un self-made-man, una forza della natura, un provinciale che da un oscuro villaggio ceco si era affermato nell’elegante Primo Distretto, e la madre Julie Löwy, discendente di una famiglia di rabbini. Stranamente un perfetto matrimonio. In effetti Kafka in quella Praga ebraica, di rabbini e di mercanti, era proprio radicato con tutta la sua anima antica, come confessò al giovane ammiratore Gustav Janouch, che gli aveva chiesto se ricordava ancora l’antico ghetto: «Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Oggi passeggiamo per le ampie vie della città ricostruita, ma i nostri passi e gli sguardi sono incerti. Dentro tremiamo ancora come nelle vecchie strade della miseria. Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento effettuato. Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati». La tensione della memoria allude al nucleo più autentico della concezione del mondo kafkiana: quella di una nuova teologia – per rifarsi al testo postumo di Roberto Calasso, L’animale della foresta (Adelphi) – espressa negli Aforismi di Zürau (Adelphi, sempre a cura di Calasso), in cui affiora potente l’intuizione: «L’uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa di indistruttibile dentro di sé, anche se quell’indistruttibile come pure quella fiducia possono rimanergli costantemente nascosti. Una delle possibilità di esprimersi, per tale rimanere nascosto, è la fede in un Dio personale».
L’universo kafkiano non sempre è ingarbugliato in percorsi letterari indecifrabili. Sovente Kafka è di una straordinaria e lucente chiarezza, alla pari con i grandi mistici d’Occidente: «Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te». Queste intuizioni sono il risultato di un lungo periodo di solitudine in un villaggio, in una casa assai modesta, quando ormai era stata diagnosticata la tubercolosi che lo avrebbe portato alla morte – dolorosa – il 3 giugno del 1924, a Kierling, in una clinica vicino Vienna, a soli 41 anni. Era nato, infatti, il 3 luglio 1883. In questi mesi la sua opera viene rivisitata con riedizioni come l’adelphiana Il messaggio dell’imperatore a cura di Anita Rho, nonché con una ragguardevole impresa de Il Saggiatore che propone nuove traduzioni dei capolavori kafkiani: Il disperso, a lungo noto con il fuorviante titolo datogli da Brod America. La traduttrice Silvia Albesano si rifà all’edizione critica del 1983. Ugualmente alla medesima edizione si ricollega la nuova versione de Il processo a cura di Valentina Tortelli, e così pure Il castello a cura di Alessandra Iadiciccio che riconosce i meriti della «vecchia (e stupenda) traduzione di Anita Rho». Avremo tempo per valutare e apprezzare queste nuove proposte traduttive che ci forniscono in un linguaggio senz’altro più aggiornato i romanzi kafkiani. Il Saggiatore ci offre anche una riedizione di Kafka. Una battaglia per l’esistenza di Klaus Wagenbach (tradotto nel 1968 da Ervino Pocar), che è uno dei più validi contributi per avvicinarsi alla vita e all’opera dell’autore praghese.
Praghese, ma anche ebreo, ma anche tedesco: questa triplice identità costituisce il complesso intreccio della scrittura di Kafka, così incerta e insieme così eccezionalmente lucida. Kafka chi era? L’amico degli espressionisti del Café Arco, sodale di Brod, Werfel, Kubin. Il riservato funzionario austro-ungarico. Oppure l’ebreo occidentale, assimilato e acculturato, tormentato dall’insicurezza metafisica, che voleva tornare all’ebraismo, a quello vero degli ebrei orientali, come scriveva a Milena, la raffinata intellettuale, sua traduttrice in ceco, con cui visse un breve e trascinante amore, custodito in uno dei più appassionati epistolari: «Se mi avessero dato la possibilità di essere ciò che voglio, avrei voluto essere un ebreo orientale giovinetto». L’ultimo amore fu Dora Diamant, una giovane ebrea orientale, di una famiglia ortodossa. Solo con lei trovò il coraggio di emanciparsi dagli artigli di Praga, ma era ormai tardi, anche se lui ancora progettava di salire (secondo l’uso ebraico) in Palestina, di aprire con Dora un caffè, lui cameriere, lei cuoca sopraffina. E studiava, studiava l’ebraico e riempiva quaderni di vocaboli più che di racconti. Scrisse, ai primi di maggio 1924, al padre di Dora per chiedere, come prescrive la tradizione, il permesso di sposarla. Il pio uomo mostrò la richiesta al suo Rabbi della dinastia chassidica di Ger. Il Rabbi si espresse negativamente. La risposta raggiunse Kafka ormai allo stremo delle forze. Dora gli era accanto con un giovane medico, Robert Klopstock: erano la sua dolce e affettuosa famigliola. I nodi si scioglievano, i problemi della vita trovavano una soluzione: la scrittura si conciliava con il matrimonio, con la fondazione della famiglia secondo l’aspettativa della Legge.
Ma era tardi per aprire un Caffè in Palestina. La situazione precipitò. Per i dolori alla trachea Kafka non poteva più parlare, scriveva bigliettini eppure curava le bozze del suo ultimo racconto: Josefine la cantante o il popolo dei topi, uno dei più sofferti e significativi. Un testo tra i più emblematici della modernità. Praghese, ebreo, ceco e tedesco, funzionario, scrittore, mistico, il suo mistero è la sua grandezza, fondata sull’indistruttibile, che è il suo messaggio e la nostra interrogazione.
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