Leonardo G. Luccone
Il 23 marzo di 40 anni fa moriva l’agente letterario più temuto e rispettato dell’editoria italiana. Da Moravia a Joyce ha rappresentato i diritti di tutti: la sua incredibile memoria, la cultura e i gusti sopraffini lo rendevano onnipresente
Il 23 marzo 1983 è una data chiave nella storia dell’editoria italiana. Quel giorno muore, inaspettatamente, l’agente letterario Erich Linder, l’arbitro, il regista, il direttore editoriale occulto delle grandi case editrici, mattatore per oltre trent’anni del mercato nazionale e internazionale, un signore che poteva vantarsi, e non lo faceva, di gestire i diritti di oltre ottomila autori, gente come Montale, Calvino, Buzzati, Sciascia, Parise, Mann, Joyce, Nabokov, Agatha Christie, Salinger, Roth. Si parla subito di “autori rimasti orfani”; gli editori sembrano smarriti (qualcuno disse “liberati”), gli editor diventano subitaneamente più adulti, l’idea di scouting andava reinventata, ma quest’improvvisa necessità di cercarsi i libri da soli fu una buona cosa. Sì, perché, è come se dalla metà degli anni Cinquanta a quel giorno fosse esistito un direttore editoriale dei direttori editoriali che decideva quali libri dare e a chi, e senza grande diritto di replica. Basta dare uno sguardo all’archivio dell’Agenzia Letteraria Internazionale (Ali), quasi quarantamila fascicoli in duemila faldoni, ora presso la Fondazione Mondadori, e ci si accorge che gli scambi epistolari suonano come ordini di un sovrano ai suoi sudditi.
Con una calibrata rete di contatti, quattordici ore di lavoro al giorno e telefonate su telefonate, Linder era sempre aggiornato sulle novità librarie di tutto il mondo. La sua incredibile memoria, la capacità organizzativa, cultura e gusti sopraffini lo rendevano onnipresente. Aveva talpe ovunque: se un editore aveva intenzione di varare una collana o tramava un colpo editoriale, Linder lo veniva a sapere. Era pragmatico, spiccio, lapidario.
Occhi celesti sbarrati, sguardo penetrante, incuteva soggezione; era temuto, odiato (“mi detestavano, come un industriale può detestare un sindacalista che semina la ribellione tra gli operai”); perdere la sua fiducia voleva dire entrare in una specie di castigo culturale. Si diceva che avesse preferenze per Einaudi, Bompiani, Garzanti (“il più intelligente e colto, ma incostante e inaffidabile”) e che non guardasse con grande simpatia Feltrinelli (che chiamava “Feltrinaglio”). Forse dipendeva dal fatto che Il dottor Živago (prima edizione mondiale, 1957) e Il Gattopardo (1958) furono pubblicati senza il suo contributo.
Nacque nel 1924 a Leopoli, allora territorio polacco, da padre ebreo rumeno e da madre polacca ashkenazita (“sono ebreo e mi sento ebreo, abbastanza faziosamente per dire che in una diatriba tra un ebreo e un non ebreo credo che darei sempre ragione al contendente ebreo”). Da Vienna, dopo una parentesi triestina, nel 1934 la famiglia si stabilisce a Milano dove il giovane Erich frequenta la scuola ebraica. “Ho cominciato più o meno casualmente perché avevo la nefrite […], leggendo delle quantità incredibili di giornalini per bambini. …] Guarito […] sono andato a vedere una redazione di un giornale e da lì sono finito, sembra strano, in editoria”.
A quindici anni comincia a lavorare per Mondadori come assistente di Matilde Finzi, segretaria di Arnoldo, costretta a lavorare a casa per via delle leggi razziali. Linder invece non era intimorito dalla furia antisemita. Nei primi anni Quaranta la sua conoscenza delle lingue lo porta a frequentare la Ali, a caccia di libri da tradurre. “Era un porto di mare e un eldorado insieme”. Nel 1943 Luciano Foà, che proseguiva il mestiere del padre, lo coinvolge come redattore nelle Nuove Edizioni Ivrea di Olivetti, il nucleo delle future Edizioni di Comunità. In quell’ambiente Linder lavora accanto a Bazlen, Musatti, Traverso. Oltre a inesauribili liste di libri, con Bazlen condivide l’amore per la letteratura austroungarica (per un soffio non sarà lui a portare Kafka in Italia).
Nel 1944 a Firenze viene accolto da Bilenchi e beffardamente lavora come interprete per i tedeschi. Dopo la Liberazione si trasferisce a Roma dove trova lavoro prima presso la radio degli Alleati, in seguito nell’ufficio diritti della Bompiani. Tornato a Milano, forte della sua agenda, viene assunto alla Ali: a Linder spettano gli autori anglosassoni, a Foà i francesi. Nel 1951, dopo il passaggio di Foà all’Einaudi, Linder assume il controllo della società.
“L’agente non può limitarsi alla scelta dell’editore più adatto e agli aspetti contrattuali o economici, …] occorre un suo intervento anche su copertine, caratteri, tipi di edizione, veste, pubblicità, eccetera”; “bisogna riuscire o a trovare il miglior editore per una certa opera o per tutte le opere di un certo autore”; “gli editori sono spesso degli ingenui e credo che abbiano bisogno di qualcuno che sappia vedere le cose con cinismo”; “credo che l’autore sia vittima dell’editore”; “l’autore deve solo pensare a scrivere. A fare i suoi affari ci pensa l’agente”, erano questi i suoi paradigmi. In un’epoca nella quale l’editoria si trasformava in industria, Linder si pone monoliticamente a difesa dell’autorialità: “Per un editore un libro che va male è solo un incidente, per un autore può essere una rovina”.
La maggior parte dei suoi autori diventava linderdipendente, ricorda Giordano Bruno Guerri, “al punto di non saper iniziare un romanzo, parlare con un editore, accordarsi con un giornale o concedere un’intervista senza prima consultarsi con lui. […] Aveva tre teste, come Cerbero: quella dell’autore, quella dell’editore e quella del lettore”; Calvinogli sottopone trepidante la struttura delle Città invisibili.
Luigi Bernabò e Marco Vigevani, due dei suoi migliori allievi, hanno spesso ricordato che, dietro al “magnifico mostro”, Linder era una persona sensibile, timida e forse po’ insicura: un dio di carta come lo definisce Dario Biagi nella sua appassionata biografia. Un luminoso despota anarchico, l'”agenz-io”. Dopo la sua morte, allo smembramento della Ali e alla “liberalizzazione” del mercato è seguita una spersonalizzazione dei marchi editoriali. Se Linder lo sapesse, di sicuro gli dispiacerebbe, ma si limiterebbe a borbottare: “Pazienza”, con gli occhi sbarrati, il volto teso appena stemperato da un ghigno.