Tempio di via Eupili – Milano
Le Parashiot di Vayakhel e Pekude sono le ultime del libro di Shemot e hanno come punto centrale il Mishkan. La parola Pekude significa “conteggi” e si riferisce al conteggio dell’oro, dell’argento e dell’ottone donati per il Santuario e all’inventario di tutti i suoi utensili per i quali avevano contribuito tutti gli ebrei. La domanda che si pongono i Chachamim è: Per quale motivo la Torà dedichi così tanto spazio alla descrizione del Mishkan e della sua costruzione, di quella che è definita la dimora di D-o, quando D-o è ovunque? Perché dovremmo “racchiudere” D-o all’interno di un Mishkan, quando il messaggio stesso della teologia ebraica è che D-o è infinito e non può essere limitato a nessuno spazio o tempo? Per estensione, potremmo chiederci perché dovremmo andare al Bet haKenesset. Se D-o è ovunque, allora possiamo anche pregare a casa.
Il Midrash nella Parashà di Teruma presenta un affascinante dialogo tra Moshè e D-o, relativo a queste domande: “Nel momento in cui D-o gli disse (a Moshè): ‘E farai per Me un luogo santo (il Mishkan): Moshè rispose: ‘Padrone dell’Universo, ecco, i cieli non possono contenerTi, eppure Tu mi dici ‘Fai per Me un luogo santo’?’ Come possiamo dire che la presenza di D-o è più immanente qui, o in qualsiasi altro luogo, di quanto lo sia altrove sulla terra? “D-o rispose: ‘Non è come pensi, Moshè, ma [posiziona] venti assi a nord e venti assi a sud e otto a ovest, e Io scenderò e stringerò la mia presenza in mezzo a voi.'”
Quello che il Midrash sembra voler insegnare è che è vero, filosoficamente è impossibile dire che la presenza di D-o possa essere contenuta all’interno di un qualsiasi spazio, anche quello di un Mishkan, ma D-o ci esorta in ogni caso a portare la Sua presenza sulla terra, dandoci le istruzione su come farlo. Questa è la ragione per la costruzione del Mishkan, di un Bet Mikdash, di un Bet haKenesset – di un luogo in cui la comunità può riunirsi ed essere unita dall’essenza della nostra unità con D-o. Il Mishkan era essenzialmente l’elemento più sacro di tutto l’accampamento. Tutte le persone erano situate in una posizione direttamente correlata al Mishkan stesso, intorno ad esso. Il Mishkan univa il popolo, tuttavia, come vedremo, solo un popolo unito merita il Mishkan. Era essenziale che quell’elemento, così centrale nella vita del popolo ebraico, fosse costruito con i mezzi più puri possibili. Ogni donazione, ogni dono doveva essere assoluto, senza ombra di dubbio su come fosse stato ottenuto. Doveva essere chiaro che qualsiasi donazione doveva appartenere totalmente al donatore, senza alcuna contestazione al riguardo. Fu solo quando tutto fu chiarito, quando ci fu la pace tra la gente, che si poté costruire il Mishkan. Moshè, quindi, non radunò fisicamente le persone, ma fece sì che il popolo stesso si unisse riconciliando tutte le controversie che erano in corso in quel momento. Mettendo in parallelo la costruzione del Mishkan con il dono della Tora, proprio come c’era un requisito che il popolo fosse unito prima del dono della Tora, così lo stesso requisito era necessario prima della costruzione del Mishkan.
La Tora descrive come immediatamente prima del dono della Tora, il popolo si accampò di fronte alla montagna. Tuttavia, la parola usata dalla Tora è scritta nella forma singolare, “vayichan”, si accampò, e non nella forma plurale, “vayachanù”. Rashi commenta in loco che in quel momento di fronte a D-o gli ebrei si presentavano come un popolo unico, con un solo cuore.
L’unità è un prerequisito per la santità. Proprio come non potrebbe esserci alcuna rivelazione iniziale di D-o senza unità, non può esserci la costruzione di un Mishkan che rifletta la continuazione di quella rivelazione senza unità. Come sappiamo fin troppo bene il Bet haMikdash è andato distrutto per colpa della “sinat chinam”, l’odio gratuito. Moshe quindi riunì le persone prima di spiegare come bisognava costruire il Mishkan non semplicemente in senso fisico ma anche in senso reale, unendo le persone. Nelle parole del tachanun che recitiamo quotidianamente, “shomer am echad” – “custodisci un popolo”, precede “shomer am kadosh” – “custodisci il popolo santo”. L’unità precede la santità. Tuttavia, sebbene l’importanza dell’unità sia chiara, perché è così centrale per il nostro esistere come nazione e per la nostra santità?
L’unità richiede che ci consideriamo parte intrinseca di qualcosa di molto più grande. L’unità esige da noi che dedichiamo noi stessi per il bene degli altri, perché non saranno solo gli altri a beneficiare del nostro aiuto, ne beneficieremo anche noi. La nostra unità vede D-o nel mezzo. Rav Yaakov Kaminetsky osserva in modo molto bello che l’infrastruttura del campo degli ebrei non è mai stata creata fino a quando il Mishkan non è stato posto al centro.
Il popolo ebraico non avrebbe mai potuto avere successo fino a quando uno scopo comune non diventasse l’obiettivo comune. Dobbiamo però porre attenzione. Unità non vuole dire uniformità. Ognuno di noi è diverso, ha peculiarità, carattere, capacità che ci rendono unici. Queste caratteristiche devono essere usate per la nostra crescita personale, ma anche per contribuire al bene del prossimo e allo sviluppo in positivo per il bene comune. Finché ciascuno di noi è interessato esclusivamente ai propri problemi, mentre ognuno si preoccupa per se stesso e non per il prossimo, per la sua comunità, i suoi cari, le sue amicizie nel suo insieme, il pericolo che dovremo affrontare non ha eguali. D’altra parte, un popolo unito nella sua causa, un popolo guidato da un credo unitario, dalle mitzvot e dagli atti di chesed, è un popolo forte.