Nella città dove gli ucraini muoiono per guadagnare tempo, i nazisti sterminarono 1.124 ebrei. Il luogo, e il memoriale che vi fu eretto, sono stati lasciati il 1° febbraio scorso dalle forze ucraine in ritirata. Prima dell’invasione russa, a Bakhmut erano tornati a vivere 300 ebrei
Odessa, dal nostro inviato. Leggo di Bakhmut, fra angoscia e disagio. Angoscia, perché è di nuovo un luogo in cui si chiede a migliaia di uomini di resistere e morire per guadagnare tempo, prima che arrivino le risorse promesse dal resto del mondo. Come a Mariupol, come a Severodonetsk. Di sacrificarsi, letteralmente. Disagio, perché da Odessa, almeno per ora, Bakhmut è lontana come da Roma o da Parigi. Aveva più di 70 mila residenti Bakhmut, ora ne ha circa 6 mila, che non se ne vanno, stretti in un pezzo di città che i nostri inviati, Coletti, Angieri, Sceresini, raccontano come in un ritratto di gruppo ripreso da più angolature.
Mi piace leggere sinotticamente, per così dire, le cronache di giornalisti che si trovano nello stesso posto e incontrano le stesse persone e per giunta sono amiche: si capisce com’è il posto e le persone, e come sono loro, i giornalisti amici, specialmente quando hanno il budget modesto.
Ieri, per coincidenza, Giuliano mi ha inoltrato un saggio di Christopher Miller, 37 anni, inviato del Financial Times, sulla Bakhmut in cui aveva soggiornato dal 2010 e in cui è tornato con la guerra. Si intitola: “Voleva un’avventura. E’ andato a finire nella zona di guerra più brutale dell’Ucraina”. Bel pezzo, col merito di mostrare una comunità singolare, di frontiera, nel suo farsi e nel suo disfarsi. Spiritoso, anche. Nel 2012, ricorda, “abbiamo visto una clip televisiva in cui Zelensky interpreta un vigile urbano che ferma un automobilista la notte di Capodanno. Entrambi sono ubriachi e passano quasi 10 minuti a barcollare. Anni dopo, mi ritrovai seduto su una poltrona a sacco verde fluorescente di fronte al vigile urbano ubriaco. Era appena stato eletto presidente dell’Ucraina”. Ogni volta questa stravagante storia di transizione mi riporta in mente, nonostante tutte le differenze, la sindrome di Pugacëv.
Un paio di giorni fa era stato Haaretz a pubblicare un saggio su Bakhmut, “in memoriam”. L’autore è Shimon Briman, storico e giornalista israeliano. Si intitola: “Sul fronte ucraino, la Russia sta radendo al suolo la storia ebraica di Bakhmut”. Fino al 2016 la città si chiamava Artemivsk, il cambio di nome è uno dei casi di “decomunistizzazione”: il “compagno Artem” era stato un dirigente comunista ucraino. Tra gli ebrei di Bakhmut ci furono alcuni comunisti, altri perseguitati dai comunisti, come dovunque, soprattutto al tempo delle grandi purghe contro “sionisti, cosmopoliti”. Il nome di Bakhmut può designare, secondo qualcuno, i Khazari convertiti al giudaismo, la “tredicesima tribù” di uno splendido libro di Arthur Koestler.
Nel 1950, in tempo sovietico, ad Artemivsk fu costruita la più grande fabbrica di champagne dell’Ucraina. Si valeva per cantina dei sotterranei freschi, preziosi alla conservazione, di miniere di alabastro smesse. In una di quelle miniere in due giorni di gennaio 1942 i nazisti sterminarono 1.124 membri della comunità ebraica cittadina. Il luogo, e il memoriale che vi fu eretto, sono stati lasciati il 1° febbraio scorso dalle forze ucraine in ritirata. Insieme al resto della città, sinagoghe – compresa la meravigliosa “sinagoga di corallo” – e siti legati allo sterminio degli ebrei cittadini nel 1942-43, sono stati rasi al suolo dai bombardamenti russi.
Prima dell’invasione russa, a Bakhmut erano tornati a vivere 300 ebrei. Si dice che siano rimaste una donna e sua figlia, ma non se ne hanno notizie.