Lo scenario politico del Dopoguerra e i traumi di chi era scampata all’orrore hanno limitato la diffusione di alcuni racconti sull’Olocausto. In “Figlie della resistenza” (Mondadori) Judy Batalion analizza le cause di questo oblio
Sono molti i motivi per i quali le vicende delle donne ebree nella resistenza sono passate sotto silenzio. La maggioranza delle combattenti e delle staffette sono state uccise – Tosia, Frumka, Hantze, Rivka, Leah, Lonka – e non hanno potuto raccontare la propria storia. Ma anche quando sono sopravvissute, i racconti delle donne sono stati messi a tacere per ragioni sia politiche sia personali che differiscono da un paese all’altro e da una comunità all’altra. La politica dei primi anni in cui Israele diventava una nazione influì sulla diffusione delle storie relative all’Olocausto.
Quando i sopravvissuti giunsero nell’Yishuv (l’insediamento ebraico in Palestina) a metà e sul finire degli anni Quaranta del Novecento, i racconti dei combattenti del ghetto facevano presa sui partiti politici di sinistra non soltanto perché le attività antinaziste erano più gradevoli della rievocazione delle orrende torture subite dagli ebrei, ma perché quelle storie di battaglie favorivano l’immagine del partito e l’appello a combattere per un nuovo paese. Come a Renia, a diverse combattenti del ghetto furono offerte tribune da dove parlare – e lo fecero prolificamente – ma, a volte, le loro parole venivano conformate alle direttive del partito.
Alcuni sopravvissuti accusavano l’Yishuv di passività e di scarso sostegno agli ebrei in Polonia. Fu allora che Hannah Senesh divenne un’icona. Benché non avesse mai portato a termine la sua missione, se non per aver risollevato il morale, il fatto che avesse lasciato la Palestina per andare a combattere in Ungheria dimostrava che l’Yishuv aveva avuto un ruolo attivo nell’aiutare gli ebrei europei. Subito dopo, spiegano gli studiosi, i primi politici israeliani cercarono di creare una dicotomia tra ebrei europei ed ebrei israeliani. Gli europei, dicevano gli israeliani, erano fisicamente deboli, ingenui e passivi. Alcuni sabra, o nativi d’Israele, chiamavano i nuovi arrivati «saponette», dalla voce che i nazisti facessero il sapone con i corpi degli ebrei assassinati. Gli ebrei israeliani, viceversa, si consideravano la forte ondata successiva.
Israele era il futuro; l’Europa, che per più di un millennio era stata una culla della civiltà ebraica, era il passato. Il ricordo dei combattenti della resistenza – gli ebrei d’Europa che erano tutt’altro che deboli – fu cancellato per rafforzare lo stereotipo negativo. Le vicende della resistenza caddero sempre più nell’oblio. Un decennio dopo la guerra, la gente era pronta a sentir parlare dei campi di concentramento e fu il trauma ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Negli anni Settanta, lo scenario politico cambiò e i racconti di singoli ribelli furono sostituiti dalle storie di «resistenza quotidiana».
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Negli Stati Uniti è un’altra storia. L’idea che circola è che gli ebrei americani non discussero l’Olocausto negli anni Quaranta e Cinquanta presumibilmente per paura e senso di colpa e perché si stavano facendo una vita in provincia e volevano inserirsi nei loro quartieri popolati da borghesi non ebrei. Ma come dimostra Hasia Diner nel suo innovativo libro “We Remember with Reverence and Love: American Jews and the Myth of Silence After the Holocaust, 1945-1962”, questa spiegazione è infondata.
Semmai, nel dopoguerra gli scritti e le discussioni sull’Olocausto proliferarono. Un leader ebreo si preoccupava che l’attenzione sulla guerra fosse troppa, citando a esempio perfino il libro di Renia. Come fa notare Diner, gli ebrei americani – nella loro nuova identità di maggiore comunità ebraica del mondo – s’interrogarono su come parlare del genocidio, non sull’opportunità di farlo. Col tempo le storie cambiarono. Nechama Tec, autrice di “Resistance: Jews and Christians Who Defied the Nazi Terror e di Defiance. Gli ebrei che sfidarono Hitler” (da cui è stato tratto il film “Defiance – I giorni del coraggio”), sostiene che nel mondo accademico americano dei primi anni Sessanta c’era la tendenza a sposare la tesi della remissività degli ebrei e perfino a dare la colpa alle vittime. Questo «mito della passività», incoraggiato in parte dalla filosofa politica Hannah Arendt, non era obiettivo né suffragato dai fatti. Diner afferma che alla fine degli anni Sessanta la comunità ebraica americana era ormai consolidata e nota a tutti; un’esplosione di pubblicazioni successive sull’Olocausto aveva sepolto le opere precedenti, ed è forse per questo che il libro di Renia è scomparso dalla memoria collettiva. Perfino oggi, proporre questo materiale negli Stati Uniti presenta complicazioni etiche. Scrivere delle combattenti potrebbe dare l’impressione che l’Olocausto non sia stato poi «così terribile», una cosa rischiosa in un contesto in cui si sta perdendo il ricordo del genocidio.
Molti scrittori temono che glorificare chi resistette concentri troppo l’attenzione sulla capacità di agire, implicando che la sopravvivenza non dipese soltanto dalla fortuna, giudicando negativamente coloro che non imbracciarono le armi e, in fondo, biasimando le vittime. Inoltre, questa è una storia che rende obsoleto il tropo vittima-aggressore e svela sottili complessità, mettendo in primo piano il profondo disaccordo in seno alla comunità ebraica circa il modo di confrontarsi con l’occupazione nazista. Il racconto include inevitabilmente i collaborazionisti ebrei e i ribelli ebrei che rubarono denaro per comprare armi: un’etica traballante a ogni piè sospinto. La rabbia e la retorica violenta contenute in queste memorie di donne ebree lasciano interdetti. E così pure il fatto che molte di quelle combattenti per la resistenza fossero borghesi e urbane, più moderne e sofisticate, più «simili a noi» di quanto faccia comodo pensare. Tutti questi fattori dissuadono da una discussione. E poi c’è il genere. Di solito le donne scompaiono dalle storie nelle quali svolsero ruoli chiave, le loro vicende cancellate dalla Storia. Anche in questo caso, il silenzio è calato soprattutto sulle storie delle donne. Secondo il figlio di Chajka Klinger, lo studioso dell’Olocausto Avihu Ronen, ciò è dovuto in parte al ruolo delle donne nel movimento giovanile. In genere le donne erano quelle a cui veniva ordinato di fuggire con «la missione di raccontare». Dovevano documentare e divenire storiche di prima mano.
Molte delle cronache iniziali della resistenza furono scritte da donne. Come autrici, sostiene Ronen, riferirono le attività altrui – di solito degli uomini – anziché le proprie. Le loro esperienze personali finirono in secondo piano. Lenore Weitzman, autrice di studi fondamentali sulle donne e sull’Olocausto, spiega che, subito dopo la pubblicazione delle opere di queste donne, le storie principali furono scritte da uomini, i quali si concentrarono sugli uomini e non sulle staffette, che per prime minimizzarono la propria attività. Weitzman suggerisce che soltanto il combattimento fisico – che era organizzato e sotto gli occhi di tutti – fosse tenuto in grande considerazione, mentre altri compiti sotto copertura erano reputati banali. (Se anche così fosse, molte ebree combatterono nella rivolta e impugnarono le armi, e non dovrebbero scomparire nemmeno da quel racconto.) Anche quando le donne cercarono di raccontare le proprie storie, spesso vennero deliberatamente messe a tacere. Gli scritti di alcune sono stati censurati per convenienza politica, altre si sono trovate di fronte a una palese indifferenza e altre ancora sono state trattate con incredulità, accusate di essersi inventate tutto.
Dopo la liberazione, un reporter dell’esercito americano avvertì le partigiane Fruma e Motke Berger, del gruppo Bielski, di non ripetere la loro storia perché la gente le avrebbe prese per bugiarde o pazze. Molte donne furono schernite e rimproverate dai parenti di essere fuggite a combattere anziché rimanere a occuparsi dei genitori; altre furono accusate di «aver usato il letto per salvarsi». Le donne si sentirono giudicate in base alla persistente convinzione che, mentre i puri morivano, gli sleali sopravvivevano. E così, quando i loro vulnerabili sfoghi non erano accolti con empatia o comprensione, spesso le donne si ritiravano in se stesse e reprimevano le proprie esperienze, ricacciandole ben sotto la superficie.
E poi c’erano le strategie di adattamento. Erano le donne stesse a imporsi il silenzio. Molte avvertivano il «dovere sacro» e d’«importanza universale» di crescere una nuova generazione di ebrei e tennero per sé il proprio passato nel desiderio disperato di dare ai figli – e a se stesse – una vita «normale». Molte di quelle donne avevano circa venticinque anni quando la guerra finì; avevano tutta la vita davanti e dovevano trovare modi per andare oltre. Non tutte volevano essere «sopravvissute professioniste».
Gli stessi famigliari le invitavano al silenzio, preoccupati che affrontare i loro ricordi potesse essere troppo difficile, che incidere vecchie ferite le avrebbe annientate. Molte donne soffrivano dell’opprimente senso di colpa del sopravvissuto. Quando la staffetta di Białystok Chasia si sentì pronta a condividere il suo passato di furti d’armi e sabotaggi, gli ebrei si stavano ormai aprendo in merito alle loro esperienze nei campi di concentramento.
In confronto a quelle traversie, lei «aveva avuto vita facile». Il suo racconto apparve troppo «egoista». Altri hanno parlato della gerarchia della sofferenza nella comunità dei sopravvissuti. Una volta, il figlio di Fruma Berger si era sentito evitato a un evento per le seconde generazioni perché i suoi genitori erano stati partigiani. Alcuni combattenti e le loro famiglie si erano sentiti respinti dalle coese comunità di sopravvissuti, e si erano allontanati. E poi c’erano i tropi narrativi prevalenti sulle donne nel corso dei decenni. Hannah Senesh può essere stata un buon modello di ruolo perché dimostrava il coinvolgimento dell’Yishuv, ma gli studiosi dicono che divenne più famosa della sua compagna paracadutista Haviva Reich – che aveva convinto un pilota americano a consentirle di lanciarsi in segreto in Slovacchia, dove organizzò vitto e alloggio per migliaia di profughi, salvò militari alleati e aiutò bambini a fuggire – perché era una poetessa giovane, bella, nubile e ricca. Haviva, invece, era una divorziata bruna e sulla trentina, dal passato sentimentale con luci e ombre. Per gli ebrei nordamericani tutto ciò è storia passata, eppure la posta in gioco è alta. In Polonia, dove la gente risente ancora di anni di dominio sovietico, la collaborazione delle donne con l’Armata rossa assume un significato diverso.
Di recente il Senato polacco ha approvato una legge (poi emendata) che stabiliva che la Polonia non poteva essere accusata di nessun crimine commesso durante l’Olocausto. Oggi nel paese il ricordo della resistenza di Varsavia gode di un’enorme popolarità e la kotwica, il suo simbolo a forma di àncora, è inciso sugli edifici. Aver avuto in famiglia un combattente dell’Esercito nazionale è motivo di prestigio. La narrazione è tuttora in fieri, la resistenza e il suo ruolo sono esili. Il modo in cui la guerra è presentata – a se stessi e al mondo esterno – può spiegare chi si è, perché si agisce in un dato modo.
Copyright © 2020 by Judy Batalion © 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Per gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency.
Da “Figlie della resistenza” (Mondadori), di Judy Batalion, 576 pagine, 25 euro