“Free Ebrei”, V, 2, ottobre 2016
“Se il Signore non edifica la casa, invano si affaticheranno gli edificatori;
se il Signore non guarda la città invano vegliano le guardie”
(Salmo 127.1)
Le origini dell’opposizione ultra-ortodossa al Sionismo
Il verso di questo Salmo condensa in sé le ragioni dell’opposizione all’impresa del Sionismo (restaurare un’entità politica ebraica in Palestina) fin da quando la sua portata rivoluzionaria venne compresa dagli ultra-ortodossi e dal rabbinato chassidico, nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento. Sebbene oggi, a un secolo e mezzo di distanza alcuni degli eredi del filone critico-religioso di allora partecipino al governo dello Stato d’Israele, una virulenta, seppur marginale corrente ultra-ortodossa in contrasto allo Stato Ebraico, persiste tuttora.[1]
L’origine dei primi movimenti a matrice messianica di opposizione al ritorno a Sion può essere rintracciata nell’area tra gli imperi centrali e quello zarista dell’epoca e trova una differente articolazione a seconda del contesto geografico-culturale nel quale si svilupparono: nell’Europa occidentale, l’opposizione ortodossa al nascente nazionalismo ebraico faceva leva sul timore di compromettere gli elevati standard di integrazione che gli ebrei stessi avevano faticosamente raggiunto, nel corso dei secoli, nei diversi paesi di residenza. Da un punto di vista più propriamente dottrinario poi, il timore era che un movimento nazionalista laico potesse distogliere i fedeli dalla “retta via”.
La situazione nell’Europa orientale era peraltro più composita e sfumata: in effetti, a causa dell’isolamento e della relativa arretratezza in cui versavano le comunità ebraiche ivi residenti (se non altro rispetto ai correligionari occidentali), il Sionismo qui si diffuse più tardi e con specificità proprie rispetto alla Prussia o all’Austria-Ungheria.[2] Come afferma Shmuel Almong (1998): “Le idee nazionalistiche cominciarono ad attecchire come reazione alle riforme e all’assimilazionismo. Vennero determinate dai pogrom e veicolate principalmente da giornalisti”. In effetti furono proprio i pogrom che periodicamente divampavano nell’impero zarista contro gli ebrei (e che si moltiplicarono durante la seconda metà del secolo) a spingere molti leader della comunità ad abbracciare l’idea di un ritorno alla “Terra Promessa”. A partire dal 1880, uno sparuto gruppo di idealisti ebrei dell’Europa orientale decise di partire per la Palestina con lo scopo di insediarvisi e vivere di agricoltura e preghiera. Erano formazioni spontanee (detti Biluim), non coordinanti fra loro e prive ancora di una vera coscienza politica.
La prima reale opposizione a questo “proto-Sionismo” emerse quando si apprese che, tra i nuovi emigrati, alcuni vivevano non rispettando i precetti dell’Halakhah. Anche all’interno del movimento degli Hovevei Zion ( “gli “Amanti di Sion” il gruppo che gradualmente riunì i vari movimenti che si insediavano in Terra di Israele /Eretz Israel ) si realizzò una grave frattura in seguito alla conferenza di Katowice (1884, nell’omonima cittadina della Polonia) allorquando la leadership del movimento venne assegnata a Leon Pinsker e Moshe Lilienblum, due personalità molto prestigiose – ma non osservanti. Di conseguenza molti rabbini abbandonarono il movimento (salvo poi ritornare –alcuni- tra le sue fila alla successiva conferenza di Druzkieniki.)[3]
L’oggetto del contenzioso
L’accusa che tradizionalmente viene rivolta da parte degli ultra-ortodossi al Sionismo consiste nel “voler forzare la mano di Dio nel ricondurre il Popolo di Dio alla sua Terra Promessa.” Da un punto di vista messianico tale intenzione rappresenta un’intollerabile tradimento dei piani divini. Soltanto alla fine dei tempi, secondo tale concezione, il popolo ebraico sarà ricondotto da Dio nella sua terra santa sancendo la redenzione dell’umanità intera.[4]
La fede messianica dei movimenti chassidici attende il ritorno del Messia, a cui solo è affidato il compito di realizzare il disegno celeste: ne consegue che ogni intervento umano interferente in tale progetto è macchiato di empietà e condannato alla dannazione. Come è stato sottolineato da Aviezer Ravitsky (1996) le sette chassidiche propugnano la conservazione dello status-quo ribadendo, in quest’ambito, l’immutabile dicotomia tra umano e divino.
È interessante notare come molti dei rabbini chassidici che ritirarono il loro appoggio a Hovevei Zion (come Joseph Ber Soloveitchik ed Eliezer Gordon) non si opponevano agli insediamenti in Eretz Israel per se, ma in quanto questi – in una gestione della vita quotidiana fondamentalmente laica – si allontanavano dalla retta via imposta dalle scritture.[5]
Altra figura emblematica di reazione chassidica al Sionismo è rappresentata da Rabbi Haymin Elazar Shapira di Munkaczer (1872-1937): la sua opposizione era squisitamente dottrinaria, tutta basata sul rispetto dell’Halakhah di cui era esimio studioso. Essendo la Terra di Israele intrisa di santità all’ennesima potenza solo i più pii tra i suoi figli potevano stanziarvisi senza commettere empietà. Ne deriverebbe che ogni peccato commesso al suo interno sarebbe per così dire “amplificato”. Solo l’ebreo timorato di Dio, dedito allo studio della Torah e astenuto dal lavoro manuale, è degno di vivere in Eretz Israel. Gli “empi” sionisti, con la loro impresa “blasfema” di ritorno a Sion stanno non solo ribellandosi all’esilio voluto da Dio ma, così facendo, creano le premesse per un nuovo, più tragico esilio nella loro stessa Terra Promessa.[6]
I “precursori di Sion”: contesto storico e culturale
In questa stessa temperie culturale uno sparuto gruppo di rabbini si distinse per un’originale soluzione teologica in grado di uscire dall’impasse creata dai critici religiosi del Sionismo. Sono Rabbi Judah Alkalai e Zevi Hirsh Kalischer, passati alla storia come i “precursori di Sion”.[7] L’opera di questi due studiosi, che si trovarono ad agire in un clima intellettuale e culturale simile (il primo in Prussia, il secondo in Austria-Ungheria) era infatti a favore della fine dell’esilio (Galut) del popolo ebraico e del loro ritorno (aliyah) in Eretz Israel.
Al fine di comprendere appieno la portata “rivoluzionaria” che questi due rabbini ebbero nel movimento “proto-Sionista” è necessario collocarli nello Zeitgeist dell’Europa del XIX secolo: i riflessi dell’illuminismo di matrice francese stavano già per spegnersi, lasciando il campo alla forza accecante del nazionalismo che, in Germania, aveva tra i suoi ideologi il filosofo Gottfried von Herder. Allo stesso modo le comunità ebraiche in Europa erano sottoposte al fascino e alle sollecitazioni dei due movimenti, ma già l’attrazione esercitata della seconda appariva preponderante. In un certo modo è corretto affermare che il nazionalismo ebraico (che più tardi verrà nominato Sionismo) si fosse sviluppato anche come forma di reazione all’Illuminismo ebraico, l’Haskalah, che nelle sue forme più avanzate aveva condotto al cosmopolitismo e all’assimilazione coinvolgendo molto ebrei, specie nell’Europa centrale e orientale.[8]
Judah Alkalai
Ciò è particolarmente vero per il Rabbino Judah Alkalai (1798 – Ottobre 1878), che visse la maggior parte della vita come suddito austro-ungarico e rabbino della comunità di Semlin, nei pressi di Belgrado. Qui fu testimone dei moti indipendentisti dei serbi contro l’impero Ottomano, a cui erano formalmente assoggettati. Pochi anni prima i greci erano usciti vittoriosi da una guerra d’indipendenza contro i turchi che aveva galvanizzato le popolazioni limitrofe e i popoli dell’Europa intera, incoraggiandoli a ribellarsi contro i loro imperi tutori. La stessa Austria-Ungheria tremava sotto i colpi delle baionette dei ribelli, da sud a ovest del suo vasto territorio. Gli ideali di libertà e auto-determinazione influenzarono anche gli ebrei sudditi degli imperi multi-nazionali, soggetti alle angherie del potere e ai pogrom che periodicamente li colpivano.
L’Affaire di Damasco (1840) fu l’episodio propellente per lo sviluppo della teologia di Alkalai in senso “proto-Sionista”(proprio come cinquantacinque anni dopo l’affaire Dreyfus avrebbe segnato il Sionismo di Theodor Herzl) . A Damasco infatti un gruppo di notabili ebrei venne accusato di omicidio rituale di due monaci cristiani, il cui sangue sarebbe stato bevuto in una cerimonia religiosa. Una classica accusa anti-giudaica, quella dell’”accusa del sangue”, che è sempre riapparsa nel corso della storia e che ha giustificato violenze e messe al bando ai danni degli ebrei.
Questo episodio non solo convinse Rabbi Alkalai che unicamente tornando in Palestina gli ebrei sarebbero stati al sicuro dalle persecuzioni, ma lo persuase che tale ritorno avrebbe potuto realizzarsi con l’effettivo contributo di influenti personalità del mondo dell’establishment europeo, sia tra gli ebrei che tra i gentili. A rafforzare questa convinzione fu il felice esito dell’affaire di Damasco, che vide gli imputati prosciolti dall’accusa anche grazie all’interessamento dell’inglese Sir Moses Montefiore e del filantropo francese Alfred Cremieux.[9] Inoltre, Alkalai rimase positivamente impressionato dalla simpatia raccolta in Europa dai movimenti di indipendenza dei greci e pensò che lo stesso aiuto potesse suscitare uno sforzo teso a ricondurre il popolo ebraico nella sue terre bibliche.
Date queste premesse, sarebbe tuttavia erroneo catalogare Alkalai come un fautore del sionismo, almeno nella sua accezione politica. Infatti, rimase sempre dedito allo studio del Talmud e della Kabalà e della propria visione escatologica da esse derivante: il Messia farà ritorno sulla terra una volta che il Suo popolo sarà tornato alla Terra Promessa.
È nello strumento di realizzazione dell’esito finale che emerge la differenza fondamentale tra Alkalai e i suoi colleghi ultra-ortodossi. Per il primo, infatti secondo l’interpretazione dei testi sacri, non vi sarebbe alcuna contraddizione tra il fine divino –l’avvento del Messia- e l’opera umana tesa a creare le pre-condizioni di tale arrivo: e cioè l’insediamento degli ebrei in Palestina.
Sebbene tale impostazione dottrinaria – che accomuna in un unico fine l’umano e il divino – sia apparsa sospetta a molti (in primis agli stessi rabbini chassidici che accusarono Alkalai di blasfemia) lo schema da lui elaborato resta privo di qualsiasi fine politico o semplicemente utilitaristico: rientra all’interno di un piano escatologico, in cui ogni impresa umana annulla se stessa nella realizzazione del piano divino. [10]
La fede nella bontà degli sforzi dell’uomo per la sua realizzazione servì da carburante per l’incrollabile opera di divulgazione che Alkalai condusse fino alla fine dei suoi giorni. Viaggiò in lungo e in largo per l’Europa nel tentativo di convincere ebrei influenti della giustezza della propria visione, che nel frattempo si era trasformata in progetto. Ipotizzò la creazione di una “società per le colonie” che fondasse scuole agrarie al fine di incoraggiare lo sfruttamento della terra in quanto fonte di sussistenza e produzione locale, arrivando a concepire l’istituzione di una banca ad hoc per realizzare queste ed altre infrastrutture.[11] Infine riteneva plausibile che il Sultano ottomano accettasse di vendere terre in Palestina a coloni ebrei, citando – a puntellare tale speranza – l’episodio biblico in cui Efron l’hittita vendette la Cava dei Patriarchi ad Abramo.
Per Alkalai rimaneva tuttavia un preliminare ostacolo alla realizzazione del suo piano: per il rabbino di Semlin precondizione al re-insediamento degli ebrei in Palestina era un impegno solenne della diaspora all’unità. Popolo tuttora diviso, lamenta Alkalai, in mille correnti teologiche spesso invise le une alle altre. Come scritto nel suo saggio “Minhat Yehuda” era fondamentale che la comunità ebraica mettesse in sordina le proprie divergenze teologiche (per quanto lo stesso Alkalai fosse uno strenuo oppositore del Giudaismo Riformato) e si dotasse – elemento significativo – di una stessa lingua “nazionale”, l’ebraico. [12]
Malgrado il suo instancabile attivismo, scarsi furono i risultati che ottenne: una “società delle colonie” vide in effetti la luce, grazie soprattutto alle sovvenzioni di facoltosi Cristiani evangelici, ma ebbe vita breve. In generale Alkalai non riuscì ad ottenere un sostanziale sostegno dai suoi contemporanei. In parte ciò fu dettato dai limiti della lingua: Alkalai scrisse e divulgò in Ladino e questo non gli consentì di uscire fuori dalla cerchia delle comunità sefardite. In secondo luogo, la sua visione, tutta intrisa di misticismo e riferimenti biblici, non riuscì a scaldare il cuore di quei circoli ebraici dell’Europa occidentale, laici e benestanti, da cui Alkalai sperava arrivassero i fondi per realizzare il suo progetto. D’altro canto, egli fu ostracizzato dalla maggioranza della comunità ortodossa, tanto sefardita quanto askenazita, che lo tacciò di eresia.
Zevi Hirsh Kalischer
Maggior successo raccolse invece l’opera di un altro rabbino, contemporaneo di Alkalai, Zevi Hirsh Kalischer (1795-1874). Visse in Prussia, a Posen, una regione precedentemente appartenuta alla Polonia. Come per Alkalai, il fatto che Kalischer vivesse in quel dato territorio in quel preciso momento rappresentò un propellente alla propria opera e pensiero. La regione di Posen, anche grazie alla sua forte identità polacca, era particolarmente recettiva alla forza trainante del nazionalismo dell’epoca. La sua posizione strategica, tra est e ovest e la sua alta concentrazione ebraica fece sì che la comunità fosse scossa al suo interno dalle forze centripete e assimilazioniste provenienti dalla Prussia da un lato e dalla “conservazione” e dall’isolamento delle comunità ultra-ortodosse dell’Est dall’altro.[13] Fu in questa temperie culturale che il Rabbino Kalischer sviluppò il proprio “impianto” di ritorno a Sion. Sebbene si possa desumere che tale presa di posizione denoti una sua adesione ai richiami del nazionalismo, in realtà il suo intento primario era quello di contenere le forze dell’assimilazione di stampo illuministico – occidentale, fornendo al contempo una soluzione pratica all’indigenza economica che attanagliava gran parte degli ebrei dell’est.[14]
Come Alkalai anche Kalischer si convince che l’opera di redenzione del popolo eletto potesse essere “facilitato” dall’intervento umano, cioè attraverso un lento e costante processo di immigrazione dell’ebraismo mondiale in Palestina. E di nuovo tentò di raccogliere il sostegno delle personalità più influenti dell’ebraismo europeo per la realizzazione pratica di tale disegno. Come ebbe a dire: “L’inizio della redenzione avrà luogo quando il filantropismo ebraico unito alla buona volontà dei governanti gentili consentirà il ritorno degli ebrei dispersi nell’esilio alla Terra Santa.” In tal senso Kalischer si rivolse al ramo berlinese della famiglia Rothschild senza tuttavia ottenere risultati significativi. L’approccio tentato con Chaim Lorje, il fondatore della Società per la Colonizzazione della Palestina sortì se non altro la pubblicazione di un suo pamphlet Drishat Zion a cui Kalischer affida il proprio pensiero. Qui egli afferma che il ritorno del Popolo del Libro a Eretz Israel, oltre a rispondere ad un imperativo divino, avrebbe, come significativo effetto collaterale anche quello di redimere le sorti materiali degli ebrei della Galut. L’ebreo in Palestina lavorerà la terra (cosa considerata blasfema per la maggior parte dei colleghi charedim) e apposite scuole agrarie verranno aperte all’uopo, sia in Europa che in Palestina. Inoltre Kalischer previde una tassazione da applicare a ogni individuo emigrante al fine di realizzare compiutamente l’ emigrazione. [15]
Il problema della sicurezza appare pure tra gli scritti di Kalischer: al fine di salvaguardare le graduali conquiste della colonizzazione in Palestina egli concepisce delle speciali forze di sicurezza ebraiche, la cui formazione avrebbe ottenuto il beneplacito del Sultano.
Parte del suo progetto vide effettivamente la luce attraverso la fondazione di una scuola agraria, che si realizzò non tanto grazie alla Società della Colonizzazione (che ebbe vita breve) ma grazie all’Alliance Israelite Universelle che in virtù delle sollecitazioni del rabbino aprì una scuola agraria (la Mikvé Israel) a Jaffo nel 1870.
Proto-Sionisti o tradizionalisti religiosi?
“Le motivazioni di Kalischer e Alkalai erano già nazionalistici ma il loro universo concettuale era necessariamente tradizionalista.”[16] Così Gideon Shimoni sintetizza il senso e l’orizzonte dell’azione dei due rabbini. In effetti, per quanto alcuni tratti del loro pensiero possano definirsi chiaramente nazionalisti -o per lo meno nazionali- (il ruolo svolto da una lingua unificante, l’importanza di auto-rigenerazione dell’ebreo “nuovo”) lo scopo ultimo rimaneva quello della realizzazione della volontà divina. [17]Sì, il ritorno del popolo ebraico in Israele avrebbe alleviato le condizioni delle masse diseredate degli ebrei europei (se non altro quelle indigente negli imperi centrali e zarista) ma la visione di base rimaneva teologica e la necessità da espletare escatologica: la redenzione dell’umanità tutta, realizzata attraverso il ritorno del popolo ebraico alla Terra Promessa.[18]
Come per i charedim la Galut era accettata in quanto manifestazione della volontà divina, così il ritorno a Sion da ricercarsi attivamente qui e ora, era anch’essa, per Kalischer e Alkalai espressione della volontà di Dio.[19] È una svolta teologica radicale rispetto alla quiescenza della teologia ultra-ortodossa, che avrà delle ripercussioni importanti specie nel sionismo religioso degli anni a venire.
Nella loro formulazione, i “precursori di Sion” fanno riferimento ad altri testi rispetto a quelli tradizionalmente usati dagli studiosi chassidici nella loro interpretazione attendista della storia degli ebrei. Kalischer e Alkalai sono i primi religiosi che rompono con la concezione quietistica privilegiata fino ad allora dell’ortodossia ebraica.
La reinterpretazione delle scritture
Da un punto di vista teologico, come abbiamo visto, i due rabbini rifiutano l’immagine di un Messia che, come dalle scritture, discenderebbe fisicamente sulla terra per redimere l’umanità. Come ricordato, secondo i testi talmudici la venuta del Messia sarà il risultato di un processo graduale, compiuto dagli uomini. Un’opera più umana che divina.[20]
Anche il lessico usato da Alkalai e Kalischer è imbevuto di una semiotica nuova, quasi uno spirito “attivistico”: concetti come “redenzione” e “espiazione” sono usati in funzione più mondana che spirituale, al servizio di un ritorno a Sion nella sua dimensione umana di catarsi collettiva.[21]
L’originalità dei “precursori di Sion” giace non solo nell’universo lessicale ma in quello dell’interpretazione e dell’esegesi: da questo punto di vista è interessante notare come affrontino il problema dei “tre giuramenti” che sono alla base dell’opposizione chassidica all’intervento umano nel ritorno a Sion. I tre giuramenti, derivanti dal Midrash e dal Talmud affermano: “non varcare i muri (dell’esilio); “non ribellarti alle nazioni del mondo”; “non precipitare la fine dei tempi”.[22]
Alkalai e Kalischer non eludono i precetti, ma li affrontano alla luce più ampia della loro interpretazione più ampia delle scritture.[23] Riguardo al primo punto (“non varcare i muri dell’esilio”) Alkalai sottolinea l’approccio lento e graduale del ritorno a Sion. In tal senso il rabbino di Belgrado spera di riconciliarsi con lo spirito della prescrizione biblica, evitando l’accusa di eresia derivante dall’interpretazione chassidica. Per quanto concerne il secondo punto (non ribellarti alle nazioni del mondo) Kalischer e Alkalai affermano che la loro visione è in armonia con questo precetto. In effetti entrambi credono nell’approvazione dei leader mondiali per il ritorno degli ebrei nella loro Terra Promessa, quasi un disco verde da parte delle nazioni del mondo all’opera di colonizzazione della Palestina. Allo stesso modo, “non forzerai la fine dei tempi” trova una riconciliazione tra umano e divino nell’approccio concepito dai due rabbini: infatti, afferma Alkalai, l’impresa umana si realizza solo nella fase preliminare del continuum che va verso il disegno divino, cioè la “Fine dei Tempi”. Fine dei tempi che rimane esclusivamente nelle mani di Dio. È un’elaborazione che, separando la fase dell’inizio dalla conclusione, concede un ampio margine di manovra all’iniziativa umana. (È interessante come queste stesse premesse verranno poi raccolte e rielaborate per giustificare e legittimare la partecipazione degli ortodossi alla vita politica di Israele).[24]
Conclusione
I due rabbini, con le loro interpretazioni originali ed elaborazioni concettuali, hanno aperto la strada a quello che successivamente sarebbe emerso come Sionismo religioso. E tuttavia bisogna ribadire ancora una volta, a scanso di equivoci, come il loro orizzonte sia rimasto esclusivamente e necessariamente messianico: non quindi un’impresa nazionale ante-litteram, ma un’adesione squisitamente religiosa, per quanto innovativa, delle divine scritture rispetto all’accettazione passiva della Galut. Il contesto storico nel quale i due Rabbini vissero fu senza dubbio segnato dall’emergere dei nazionalismi, ma qui i motivi religiosi non vengono obliterati a favore di un’interpretazione storicistica dei destini del mondo. Coerentemente a questa visione Kalischer resta convinto che il ritorno alla Terra d’Israele (Eretz Moshevet) resti prerogativa solo degli ebrei pii, cui grava la responsabilità della redenzione della terra santa (sebbene la loro opera possa essere coadiuvata dal sostegno dei gentili sensibili alla causa). Di conseguenza, una volta in Palestina, i nuovi coloni devono comportarsi in accordo con i precetti biblici e con le Mitzvot.
Se Alkalai e Kalischer debbono trovare una collocazione tra le temperie culturali e intellettuali che caratterizzarono la seconda metà del XIX secolo, non potrebbe essere che una “terza via” nella lotta tra tradizione e modernità, secolo e millennio. Lotta che aveva già diviso l’ebraismo europeo tra “integrazionisti” (che derivano la loro fiera appartenenza alla modernità dischiusasi grazie all’illuminismo ebraico dell’ Haskalah) e gli “isolazionisti” (che si oppongono a ogni deviazione rispetto all’Ortodossia religiosa). Una posizione difficile, quella di Alkalai e Kalischer, che attirò loro gli opposti criticismi dei due schieramenti appena citati, incapaci di cogliere – ma non poteva essere altrimenti – la novità esegetica e la portata rivoluzionaria dell’opera dei due “precursori di Sion”.
Bibliografia
– Attias, J. and Benbassa, E. (2003) Israel, the Impossible Land. Stanford: Stanford University Press.
– Almong, S., Reinharz, J. and Shapira, A. (1998) Zionism and Religion. Hanover: University Press of New England.
– Avineri, S. (1981) The Making of Modern Zionism. New York: Basic Books, Inc.
– Gilbert, M. (1978) Exile and Return, the struggle for the Jewish Homeland. New York: J.B. Lippincott Company.
– Goldberg, D.J. (1996) To the Promised Land. A History of Zionist Thought from its Origins to the Modern State of Israel. London: Penguin Books.
– Ravitzky, A. (1996) Messianism, Zionism, and Jewish Religious Radicalism. Chicago: The University Chicago Press.
– Schwartz, D. (2002) Faith and Crossroads, A Theological Profile of Religious Zionism. Boston: Brill Academic Publisher.
– Schiff, G.S. (1977) Tradition and Politics: the Religious Parties of Israel. Detroit: Wayne State University Press.
– Shimoni, G. (1995) The Zionist Ideology. Hannover: University Press of New England.
– Tirosh, Y. (1975) Religious Zionism, an anthology. Jerusalem: Department of the Jewish Agency.
– Vidal, D. (1999) A People Apart: The Jews in Europe 1789-1939. Oxford: Oxford University Press.
Note
[1] L’opposizione più radicale di origine messianica al Sionismo è oggi rappresentata dal gruppo degli Charedim del “Neturei Karta”.
[2] Vedi al riguardo Israel Bartal, “Response to Modernity”, in Shmuel Almong, Jehdua Reinharz and Anita Shapira, eds., Zionism and Religion (Hanover: University Press of New England, 1998),pp. 13-24.
[3] Yosef Salmon, “Zionism and Anti-Zionism in Eastern Europe”, in Zionism and Religion, p. 27.
[4] Aviezer Ravitzky, Messianism, Zionism, and Jewish Religious Radicalism (Chicago: The University Chicago Press, 1996), p.173.
[5] Gideon Shimoni, The Zionist Ideology, (Hannover: University Press of New England, 1995), p.44.
[6] Aviezer Ravitzky, “Ultra-Orthodox Opposition to Zionism and Agudaism” in Zionism and Religion,pp.68-83.
[7] Vedi Ravitzky, Messianism, Zionism and the Jewish Religious Radicalism, p. 14.
[8] Per lo sviluppo del nazionalismo ebraico in Europa e le reazioni all’ Haskalah vedi David Vidal, A People Apart: The Jews in Europe 1789-1939 (Oxford: Oxford University Press, 1999).
[9] Judah Alkalai in Encyclopaedia Judaica, Vol.2 (Jerusalem: Macmillan Edition), p.638.
[10] Ravitzky, Messianism, Zionism and the Jewish Religious Radicalism, p.27.
[11] Vedi Shlomo Avineri, The Making of Modern Zionism (New York: Basic Books, Inc., 1981), p.50.
[12] Ibid.
[13] Vedi Shimoni, The Zionist Ideology, p.73.
[14] Vedi David J. Goldberg, To the Promised Land. A History of Zionist Thought from its Origins to the Modern State of Israel, (London: Penguin Books, 1996).
[15] Vedi Zevi Hirsch Kalishcer in the Encyclopaedia Judaica, Vol.10 (Jerusalem: Macmillan Edition), p. 710.
[16] Shimoni, the Zionist ideology, p.76.
[17] Ibid.,p.73.
[18] Vedi Dov Schwartz, Faith and Crossroads, A Theological Profile of Religious Zionism (Leiden; Boston, Brill, 2002), p.163.
[19] Circa il dibattito sull’accettazione della Galut vedi Jean-Christophe Attias and Esther Benbassa, Israel, the Impossible Land (Stanford: Stanford University Press, 2003), p. 101.
[20] Vedi “The Essence of Religion Zionism”, in Yosef Tirosh, Religious Zionism, an anthology, (Jerusalem: Department of the Jewish Agency, 1975), p.22.
[21] Vedi Kalishcer in the Encyclopaedia Judaica, vol.10 (Jerusalem: Macmillan Edition), p.638.
[22] Ibid. p.22
[23] Per un’interpretazione dei tre giuramenti vedi Ravitzky, Messianism, Zionism and the Jewish Religious Radicalism, p.31.
[24] Per conoscere il contesto ideologico e politico del Sionismo religioso vedi Gary S. Schiff, Tradition and Politics: the Religious Parties of Israel (Detroit: Wayne State University Press, 1977).