INTERVISTA. L’artista anglo-indiano si racconta in occasione delle mostre che lo hanno visto protagonista a Venezia. Domani su Sky Arte il documentario alle 21,15. «Nel meraviglioso dialogo che si instaura tra lo spettatore e l’oggetto d’arte, può scaturire un atto poetico quando l’opera non trasmette semplicemente un messaggio, ma coinvolge il corpo con la sua fragilità e sessualità»
«Sono convinto che gli artisti parlino la lingua della mitologia e non quella fattuale. Essere indiano o ebreo è un retaggio del mio passato, non mi catalogo come tale. Ogni artista intraprende un viaggio poetico che conduce al di là dei luoghi delle proprie origini».
Anish Kapoor, britannico, è nato a Mumbai nel 1954, da padre indiano e madre ebrea-irachena. Dentro di sé intreccia più radici che lo rendono una sorta di esule sentimentale. Per coltivare l’appartenenza, è sufficiente riportare alla memoria un rito magico: mettere un mucchietto di terra del suo paese sotto il letto. Almeno così consigliò a sua madre una zia pratica di sciamanesimo, per permettere a quel malinconico nipote Anish «di sentirsi e sognare meglio».
Quest’anno Kapoor è stato il grande protagonista in Laguna, parallelamente alla Biennale, con due mostre dislocate fra le Gallerie dell’Accademia e Palazzo Manfrin, che non a caso si trova nel ghetto, territorio simbolico per le sue radici. Lì si insedierà la sua Fondazione e centro espositivo, al termine dei lavori di ristrutturazione, nel 2024. «Non l’ho scelto io, è stato il Palazzo a scegliere me. Ha svolto un ruolo importante e ha una lunga storia nell’arte di Venezia: alcune delle migliori opere delle Gallerie dell’Accademia erano custodite proprio qui».
Tendenzialmente schivo e poco propenso a raccontare frammenti di sé, l’artista si svela intimamente e fa luce su alcune sue opere iconiche in Anish Kapoor. Rosso veneziano, che andrà in onda in prima visione su Sky Arte domani (ore 21.15, una produzione Sky Original, in streaming solo su Now e disponibile anche on demand).
Venezia è caratterizzata da una forte nota di ambiguità. È una città dai vasti orizzonti, mutevole e fluida, le sue fondamenta sono sull’acqua e, allo stesso tempo, è ancorata al suo passato e patrimonio. Può spiegare meglio il suo rapporto con l’ambiente lagunare?
Frequento Venezia da moltissimi anni. È un luogo cosmopolita e questo è uno dei motivi per cui subisco il suo fascino. Le sue scure acque materne riverberano un riflesso costante su diversi aspetti della nostra esistenza. Il mistero, e persino la morte, sono elementi costitutivi della sua eredità.
La sua arte – con specchi, pigmenti, inganni percettivi in bilico tra «vuoto» e «pieno» – vuole ribaltare una visione del mondo. È così?
Lo spero. Credo che come artisti il nostro compito sia quello di offrire visioni mitologiche. Non mi interessa realizzare opere più o meno belle. Il nostro è un perenne confronto con l’enigma dell’essere e del non essere. Le domande che aleggiano dentro ognuno di noi sono: «Dove ero prima di nascere? dove vado dopo la morte?
Le opere veneziane richiamano sanguinosi scenari di guerra («Shooting into the Corner» è un cannone vero che spara blocchi di cera violentemente rossi) e riecheggiano la lotta fra Thanatos ed Eros…
Nel meraviglioso dialogo che si instaura tra lo spettatore e l’oggetto d’arte, può scaturire un atto poetico quando l’opera non trasmette semplicemente un messaggio, ma coinvolge il corpo con la sua fragilità e sessualità. Come ha osservato Freud, tutto ciò è fondamentale per l’ordine simbolico del nostro linguaggio psichico. Il corpo è sempre il vero teatro, il luogo degli accadimenti.
In molti suoi lavori, la terra – materia fisica e insieme metaforica – è il soggetto principale….
Il colonialismo e il capitalismo hanno vampirizzato noi esseri umani e la nostra stessa terra, trasformandola in merce a buon mercato per il profitto di pochi, mentre la maggior parte delle persone rimane nella morsa della povertà. Dobbiamo trovare i mezzi per resistere, protestare, disobbedire, dissentire e rinnegare Rifiutare l’agenda che ci impone un’educazione forzata e non permettere che i nostri figli siano trasformati in schiavi utili alla macchina capitalista globale. L’arte ha un significato solo se alimenta la sua radicalità e non si lascia consumare dal capitalismo. Oggi versiamo in un profondo stato di crisi poiché tutta la cultura è diventata vittima del denaro e gli artisti devono porre un’attenzione particolare, un argine a questa deriva.
Scorrendo la sua storia artistica, ci si imbatte in una serie di colori emblematici. Non solo il rosso, anche il nero. Nel tempo, abbiamo ammirato il rosso Tiziano, il blu Klein e ora c’è il «nero Kapoor». Può dirci qualcosa di più su quello che definisce un «non colore» ma una tecnologia?
La storia della pittura è racchiusa nel tentativo di creare un’apparenza per gli oggetti. Nel Rinascimento ci furono due grandi scoperte. Una è la prospettiva, di origine islamica se non sbaglio; l’altra è la piega: il tessuto che vediamo nei dipinti racconta la biografia di un corpo che esiste sotto quegli abiti. Si tratta di un segno che testimonia la presenza umana. Se il nero viene steso su una piega, quest’ultima scompare. È quindi mia opinione che ciò conduca l’oggetto oltre l’essere. Oltre il corpo, oltre il visibile. Il nero agisce in modo contrario alla pittura, non conferisce una forma agli oggetti, li cancella e li proietta in un’altra dimensione. È sia un’illusione che una realtà metafisica… In fondo, questa è anche la natura dell’arte in sé.
India, Israele, Inghilterra: questa è la geografia che le appartiene. Dove – nella sua produzione creativa – si incontrano?
In me, suppongo. Credo profondamente nella modernità cosmopolita. Il nazionalismo, in tutte le sue manifestazioni, è veleno.
Infine, data la sua consuetudine appassionata con Venezia, chi sceglie fra Tiziano e Tintoretto?
Senza dubbio Tiziano. Per me, è l’artista più grande.