Shalom – 21.10.2000
Circa trentacinque anni fa, in un inverno romano, Rav Elia Samuele Artom saliva verso il suo mondo. Giorni prima, durante una lezione di torah, si era bloccato con le labbra viola, per un dolore al petto. Dopo qualche secondo aveva ripreso, rifiutando di interrompere l’insegnamento. Dopo Moshè Chaim Luzzatto, è stato il maestro italiano i cui scritti sono stati più studiati in tutto il mondo. Decine di migliaia, e forse più, di cosiddetti laici e di cosiddetti religiosi hanno letto e capito il Tanàkh, appoggiandosi sul suo commento.
Non ho i titoli per fare una valutazione critica del suo pensiero, ma sento il bisogno di ricordarne qualche frammento che ho conservato nel tempo. Rav E. S. Artom era un uomo di Halachàh: rigoroso con se stesso e facilitante, fin dove possibile, con gli altri. Aveva raccontato, sotto forma di domanda, che una volta era rimasto per tutto il giorno nella cabina della sua nave, per non trasgredire lo Shabbat, a causa di un banale problema con la luce elettrica. Da lui ho sentito, per la prima volta, il concetto che i quattro libri dello Shulchàn Arùkh non possono essere compresi se non si ha dentro di sé il quinto libro, che non è mai stato scritto: la capacità di identificarsi con la vera situazione umana, che si discute con ogni quesito halakhico. Con la stessa intensità era evidente da ogni sua parola che lo studio della torah è uno studio per praticare; che senza la pratica è impossibile capire la teoria; che la torah fornisce delle risposte soltanto quando si cerca, in profondità, il pensiero autentico della torah e non una conferma a posteriori di qualche propria idea preconcetta.
Questa posizione era faticosa e, sempre, problematica. Rav E. S. Artom non era un apologeta della torah. Per lui era senza senso pensare di abbellire la torah o di renderla più accettabile, secondo le mode dei tempi. La torah è, seguendo il suo pensiero, il principale fattore dei cambiamenti umani e non la materia su cui vengono rimodellati i cambiamenti.
Rav E.S. Artom, per dare un esempio, non approvava che si baciasse il sefer torah, anche se non contestava chi lo faceva: dal gesto di rispetto allo svuotamento di contenuti ed all’idolatria, secondo lui, il passo era breve. Suppongo che da questa idea nasca l’uso di accompagnare il sefer torah per qualche metro, per ricordarci appunto che la torah va seguita e non adorata. In fondo, per quale motivo Moshè ha rotto le Tavole della Legge come risposta al vitello d’oro?
Come Shmuel David Luzzatto, Rav E.S. Artom non correva dietro la Qabbalah e, come Moshè Chaim Luzzatto, parlava di responsabilità umane quotidiane e non di teorie etiche astratte.
Le norme della torah trovano la loro giustificazione nella volontà divina e nella relazione con D-o. Questa intenzionalità dovrebbe animare l’osservanza delle mizvot. La ricerca di altre motivazioni è importante ma può diventare fuorviante e sterile. La ricerca dell’estasi religiosa può diventare una fuga etica. L’agnosticismo può diventare una compiaciuta ed onnipotente contemplazione dei propri dubbi. Parlare troppo su D-o può diventare un modo di nascondersi dalla torah.
Curiosamente, questo indirizzo poco mistico e poco filosofico è fortemente umanistico. La pratica della torah, con le mizvot, è il modo degli ebrei per essere uomini per diventare e rimanere umani. La torah è una pressante domanda per ogni azione dell’esistenza umana e non una facile risposta per piccole e grandi paure.
La domanda con cui tutto il pensiero ebraico cerca di confrontarsi è il problema del male nel mondo, l’incomprensibilità della sofferenza umana e la difficoltà di cogliere, all’interno dell’esperienza religiosa, la giustizia e la pietà divine. Penso che Rav E.S. Artom amasse il libro di Giobbe in una dimensione molto diretta: aveva avuto una vita molto dolorosa e non ne parlava mai, neppure per accenni. Tutti coloro che hanno ascoltato le sue lezioni sul libro di Giobbe hanno sperimentato alcuni concetti molto densi, emotivamente:
1) il rifiuto di speculare sulle regole con cui D-o attraversa la storia e le vicende degli uomini e dei popoli;
2) la fiducia che la giustizia assoluta e l’amore incondizionato sono, nella concezione ebraica di D-o, la stessa realtà;
3) la convinzione che il silenzio dell’uomo è più terribile del silenzio di D-o, anche verso D-o;
4) l’intuizione che accettare di non comprendere D-o non costituisce una resa della ragione, ma una spinta a ragionare con la forza dell’umiltà.
Chi pensa che l’esperienza religiosa ebraica sia tranquillizzante non ha riflettuto sulle parole della torah: “Ed il buio era sulla faccia dell’abisso e lo spirito di D-o era sulla faccia dell’acqua“.
Chi ha sentito Rav E. S. Artom ha potuto capire che queste parole sono la sostanza delle mizvot.
Alla domanda se D-o possa essere denominato come una volontà infinita, Rav E.S. Artom rispose che questa idea era molto antropomorfica.
Rav E.S. Artom ha scritto, in ebraico ed in italiano, un piccolo volume sulla “Nuova vita di Israele“, in cui discute la necessità ed i dilemmi di uno Stato ebraico secondo la torah. La consapevolezza che molti ebrei vogliono essere ebrei senza praticare la torah con le mizvot, è un dato di fatto. Questa realtà non diminuisce in alcun modo l’ebraicità di ogni singolo ebreo e non esime tutti gli ebrei dal cercare di costruire una società ebraica, secondo la torah. Gli ebrei cosiddetti religiosi e gli ebrei cosiddetti laici non possono costituirsi gli uni contro gli altri, come due alibi reciproci.
Non so valutare quanto delle proposte concrete di Rav E.S. Artom, in questo suo grande sogno, siano politicamente percorribili. La problematica da lui sollevata è sempre più, giorno dopo giorno, il terreno su cui gli ebrei sapranno incontrarsi per costruire un futuro comune e positivo, davanti al mondo. Nel Talmud è detto che la caratteristica fondamentale degli ebrei è il pudore. Dopo Rav E.S. Artom non ho conosciuto nessuno che avesse tanto pudore nell’essere ebreo.