David Zebuloni
Conduce in prima serata il Tg più seguito del Paese. Ambiziosa, piena di talento, in carriera. Giornalista, mamma e moglie “ultraortodossa”, è oggi un’icona e il simbolo di un fenomeno che sta lentamente cambiando lo Stato Ebraico: quello degli haredim che cercano la luce dei riflettori. Soprattutto le donne, harediot, come Sivan Rahav Meir, che rivendicano “un posto al sole”. Un’intervista esclusiva
Sivan Rahav Meir, in Israele, è un nome in codice. Pronunciando questo suo nome, infatti, si intende un nuovo modo di fare giornalismo, nonché un nuovo fenomeno che sta lentamente cambiando la storia dello Stato Ebraico: quello degli ultraortodossi che, stufi di vivere nel “dietro le quinte” del paese, cercano la luce dei riflettori e trovano posto proprio al centro del palcoscenico. Una rinascita che vede come protagonisti gli haredim, ma soprattutto le harediot (ultraortodosse, in ebraico). Donne ambiziose e talentuose che crescono sei, sette e talvolta otto o nove figli, senza rinunciare a una carriera sfavillante nel campo del cinema, della musica, della politica, del giornalismo. Wonder woman, con l’aiuto dell’Onnipotente. Così è accaduto a Rahav Meir che, nata in una famiglia laica e diventata ultraortodossa per scelta all’età di quindici anni, riveste oggi uno dei ruoli più prestigiosi nel panorama giornalistico israeliano, conducendo in prima serata il telegiornale più seguito del paese. Ma non solo, Sivan è anche un’acclamata relatrice, che tiene lezioni e conferenze di fronte a migliaia di persone in Israele e nel mondo, e una altrettanto acclamata scrittrice. Quattro sono i libri a sfondo religioso che ha pubblicato fino ad oggi, tutti diventati best seller e tradotti in svariate lingue. Fissare con lei un’intervista è stato quasi impossibile. Dopo aver accettato con entusiasmo di incontrarci, si è accorta di non avere un minuto libero da dedicarmi. Poi, per pura coincidenza, ci siamo incrociati a un matrimonio. «Vedi come Dio si prende sempre cura di noi? È lui che ha voluto che ci incontrassimo qui oggi», mi ha detto entusiasta e ha subito aggiunto: «Prima di tornare a ballare con la sposa, ho qualche minuto libero. Ti va di intervistarmi adesso?». Così è stato.
Sivan, c’è stato un momento specifico nel quale hai deciso di diventare religiosa? Una scintilla che si è accesa tutta d’un tratto? Un episodio che ha stravolto per sempre la tua vita?
So che i laici che diventano ortodossi hanno sempre delle storie straordinarie da raccontare, un momento di rivelazione divina che segna il prima e il dopo, ma questo non è proprio il mio caso. In realtà, da me è avvenuto tutto in maniera semplice e naturale, quasi razionale. Per esempio, quando ho scoperto le benedizioni mi sono domandata, cosa c’è di più giusto e razionale di ringraziare per ciò che si mangia? Quando ho scoperto lo shabbat mi sono domandata, cosa c’è di più logico di dedicare un giorno della settimana al riposo? E così con gli altri precetti, uno ad uno, mi sembravano tutti tasselli di un grande puzzle che si incastravano alla perfezione.
Non ti manca un po’ il mondo laico?
No, mai. Provo piuttosto una forte nostalgia per il primo periodo nel quale diventai religiosa, quando ogni singolo precetto rispettato mi regalava un’emozione incredibile. Oggi che sono mamma e moglie a tempo pieno, che lavoro tutto il giorno, non riesco più a provare lo stesso entusiasmo nelle cose che faccio. Vorrei rivivere la magia della prima volta che ho mangiato la matzà di Pesach, o la prima volta che sono entrata in una sukkah: tutti momenti che non torneranno più.
Conoscendo da vicino le due realtà, cosa credi che il mondo ortodosso debba imparare dal mondo laico, e cosa il mondo laico da quello ortodosso?
In un mondo ideale, queste definizioni non esisterebbero. Prima di dividerci in categorie, facevamo tutti parte dello stesso popolo, eravamo tutti uguali. Oggi ho come la sensazione che laici e ortodossi giochino ad allontanarsi sempre di più, convincendosi del proprio estremismo in modo irreversibile. Detto ciò, credo che l’ortodosso debba imparare dal laico l’autenticità e la sincerità, talvolta così diretta e cruda, mentre credo che il laico debba rinunciare a parte del proprio individualismo per imparare dall’ortodosso cosa sia la condivisione, cosa voglia dire vivere in una comunità.
Sei consapevole del cambiamento storico che ti vede protagonista? Una donna ultraortodossa, con la parrucca e la gonna lunga, che conduce in prima serata il telegiornale più seguito del paese, non si era mai vista prima.
Io faccio solamente ciò che so e che amo fare. Non credo di abbattere alcuna barriera, non credo di essere parte di una qualche rivoluzione.
Non vi è alcuna tensione tra le due identità che vivono in te? Quella di navigata giornalista e quella di donna di fede devota solo a Dio?
Credo di essere molto cambiata negli ultimi anni. Un tempo mi battevo per ogni singolo scoop, mi rivolgevo agli spettatori dicendo “buonasera” e poi, per un’ora intera di telegiornale, non facevo altro che dimostrare quanto quella sera fosse in realtà pessima, trasmettendo solo notizie negative. Oggi sono diversa, non sono più disposta a far parte di questo gioco sporco, non voglio cercare solo ciò che non va bene nel paese. Oggi mi occupo di argomenti più profondi, di tematiche che abbiano un contenuto nel quale credo, notizie positive che diano un po’ di serenità allo spettatore.
Le reazioni come sono? Il “Dio rating” cosa dice? I tuoi colleghi?
Il pubblico ha sete di contenuti positivi. I miei colleghi, invece, ogni tanto mi prendono in giro. Sento che dicono: “Questo è una tipica notizia alla Sivan Rahav Meir, ottimista e ingenua”. Ma io ne vado fiera. Non dico che non ci siano problemi nel paese, ma credo che il problema più grande sia quello di cercare sempre solo e soltanto i problemi stessi.
Quand’è l’ultima volta che ti sei trovata davanti a un bivio? Quando hai dovuto decidere tra i tuoi valori e la tua professione?
Qualche tempo fa mi avevano chiesto di intervistare un cantante israeliano la cui figlia si era sposata con un personaggio di fama internazionale, ma non ebreo. In Israele erano tutti estasiati da questa unione, e il tono dell’intervista doveva essere in linea con l’entusiasmo collettivo. Io mi sono rifiutata e sono stata fortemente criticata. Mi hanno detto che sono razzista, che l’amore deve sempre trionfare. Io non mi reputo razzista, credo nell’amore, ma credo anche che l’assimilazione sia la più grande minaccia del popolo ebraico oggi. Questo è il messaggio che volevo trasmettere a chi mi segue.
Un messaggio personale, in veste di Sivan Rahav Meir, o il messaggio dell’ortodossia che rappresenti sul piccolo schermo?
Ogni uomo rappresenta qualcosa. Persino l’ebreo laico, che non crede assolutamente in Dio, rappresenta l’ebraismo agli occhi di chi non è ebreo. Siamo tutti ambasciatori e mentirei se dicessi che non sento un po’ il peso di questa responsabilità, ma credo che vivere in nome di qualcosa sia estremamente importante. Siamo stati mandati in questo mondo per dare significato alle nostre vite e alle nostre azioni; non solo davanti agli occhi di milioni di spettatori, ma anche nell’intimità delle nostre case.
Negli ultimi anni avverto una sorta di rivalsa del mondo ebraico ortodosso. Serie tv che raccontano il mondo haredi e spopolano in tutto il mondo, cantautori che conquistano le stazioni radiofoniche israeliane, giornalisti che appaiono in prima serata. A cosa credi che sia dovuta questa renaissance?
Credo che gli israeliani stiano diventando più tradizionalisti, ma in un modo diverso da come lo erano i nostri nonni. Oggi la religione è una cosa cool, al passo con i tempi. Parlare di anima non è più un tabù, al contrario. I giovani vogliono studiare e riscoprire le proprie origini, incontrarsi il sabato al tempio, sposarsi e mettere su famiglia.
Parlando di famiglia, è possibile essere una madre presente nella vita dei propri figli quando si ha una routine lavorativa del tuo calibro?
Tutti mi chiedono come sia possibile unire il tutto, io invece mi domando come sia possibile separare il tutto. Voglio dire, quando lavoro, devo essere a lavoro al cento per cento, senza sensi di colpa e pensieri su ciò che sta succedendo in casa. Quando sono con i miei figli, invece, voglio esserci con il corpo e con la testa, senza rispondere ogni minuto al telefono. Credo che ogni madre in carriera debba porsi proprio questa domanda: non come combino il tutto, ma come divido il tutto. Per questo motivo amo tanto lo shabbat, poiché mi permette di lasciare tutto il mondo al di fuori delle mura di casa e concentrarmi solo su ciò che conta veramente. La mia famiglia.