Samuele Rocca
Rivista di Diritto Romano – X – 2010
Questo articolo trova la sua origine in una conferenza che ho avuto l’onore di tenere in occasione della presentazione di Ebraismo e Diritto [1], organizzata dalla Facoltà di Giurisprudenza, all’Università Ebraica di Gerusalemme, il 28 aprile 2010[2]. Il doppio volume consiste in una serie di articoli di Alfredo Mordechai Rabello: in questa recensione, vorrei tuttavia discutere solamente una piccola parte dell’immenso contributo di Rabello allo studio della storia del popolo ebraico, del diritto romano e di vari argomenti giuridici contemporanei nell’Israele di oggi, analizzati in profondità e discussi nel volume. In questa recensione verranno quindi esaminati solamente alcuni articoli, che ho utilizzato durante le mie ricerche. Come spiegherò in seguito, ciascuno di questi articoli rappresenta un contributo molto importante non solamente per lo studio della storia del popolo ebraico nell’antichità classica, ma anche per lo studio e la comprensione di varie sfaccettature del diritto romano.
Innanzitutto mi sembra necessario presentare in breve Alfredo Mordechai Rabello. Egli è nato a Bologna nel 1940. Nel 1943, non appena i nazisti invasero l’Italia, il giovane Alfredo e la sua famiglia trovarono rifugio in Svizzera, dopo una fortunata fuga. Non pochi membri della sua comunità, e non meno di ottomila ebrei italiani, hanno subito la tragica sorte del resto degli ebrei nell’Europa occupata dalla Germania nazionalsocialista. Nel 1945 la famiglia Rabello poteva ritornare a Bologna, ormai liberata dagli Alleati, i cui eserciti annoveravano la Brigata Ebraica, composta da ebrei provenienti dalla Terra di Israele, allora sotto mandato britannico. Nel 1964 il giovane Alfredo si laureava in Giurisprudenza con una tesi il cui titolo era Problemi relativi alla «Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum», sotto la supervisione di Giuseppe Ignazio Luzzatto, uno dei massimi esperti di diritto romano nell’Italia di allora. Nel 1965 il giovane dottore in giurisprudenza lasciava l’Italia alle sue spalle per immigrare in Israele: lì si è sposato con Shoshana Lifshitz ed ha subito iniziato a lavorare come assistente alla Facoltà di Giurisprudenza, presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. È stato direttore dell’Istituto di Diritto Ebraico (1982-1988) e di quello di Diritto Comparato (1990-1999). La sua brillante carriera accademica è stata coronata nel 2003 con la nomina a professore emeritus nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Durante la sua carriera accademica Rabello ha pubblicato numerosi articoli dedicati a vari soggetti, come diritto e giurisprudenza ebraica, storia ebraica, epigrafia ebraica, diritto romano, diritto di Israele odierna e diritto internazionale. Egli è è membro di varie accademie e società dedicate allo studio del diritto in tutto il mondo, dal 1983 è membro dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, dal 1975 della Societé Internationale «Fernand De Visscher» pour l’Histoire des Droits de l’Antiquité («SIHDA.»), dal 1994, dell’International Academy of Comparative Law, sempre dal 1994, dell’Accademia Romanistica Costantiniana di Perugia, dal 1996 della Societé de Législation Comparée. Nel 2007 il governo italiano ha ritenuto giusto nominarlo Commendatore dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana.
Uno dei primi contributi di Rabello, incluso in questa raccolta, da cui ho tratto gran beneficio mentre ero alle prese con il mio dottorato, in seguito pubblicato con il titolo Herod’s Judaea – A Mediterranean State in the Classical World [3], è un articolo dedicato alla giurisdizione civile in Palestina tra il 63 a.C. ed il 70 d.C., pubblicato in italiano ed in inglese[4]. Questo contributo mi è stato di estrema utilità durante la mia ricerca sulla divisione amministrativa della Giudea in epoca erodiana e le sue origini nelle precedenti amministrazioni asmonee e seleucidi. In questo articolo Rabello esamina lo sviluppo della giurisdizione civile dalla conquista del regno asmoneo di Giudea da parte di Pompeo nel 63 a.C. fino alla distruzione del Tempio nel 70 d.C. L’articolo è diviso in varie parti. Nella prima, egli analizza le conseguenze della conquista di Pompeo nel 63 a.C., sottolineando come, nonostante i Romani fossero senza dubbio i conquistatori, gli ebrei avessero potuto mantenere l’autonomia territoriale. Se la Giudea fu alquanto ridotta dal punto di vista territoriale, pur tuttavia Ircano II venne mantenuto nella funzione di Gran Sacerdote. La situazione politica peggiorò in seguito all’intervento di Gabinio nel 57 a.C.: questa volta lo stato asmoneo viene diviso in cinque regioni, separate dal punto di vista giuridico, ed indipendenti l’una dall’altra dal punto di vista amministrativo: queste regioni erano governate ciascuna da synedria o synodoi, organi di governo che includevano i più importanti membri delle élite locali; tuttavia, la giurisdizione civile di questi organi seguiva la tradizione giuridica ebraica, e non quella romana. Rabello quindi analizza la situazione nel 47 a.C., quando Giulio Cesare nomina Ircano II etnarca della Giudea e lo conferma nella sua funzione di Gran Sacerdote. In questo periodo, la Giudea mantiene una giurisdizione interna completamente autonoma: perciò è possibile affermare che il sovrano asmoneo godeva di una completa autonomia interna; la legge ebraica poteva quindi essere osservata senza alcun ostacolo esterno. Più importante ancora è, agli occhi di Rabello, il periodo caratterizzato dal governo assoluto di Erode, dal 47 a.C., quando Erode sconfigge l’ultimo sovrano asmoneo, Antigono, fino alla sua morte nel 4 a.C. Egli fa presente che, nonostante che il governo di Erode fosse caratterizzato da varie tendenze ellenizzanti, tuttavia la tradizione legale ebraica è ancora la norma giuridica, e inoltre che la più completa autonomia legislativa interna era temperata da leggi speciali, volute da Erode, che tuttavia seguono una direzione chiaramente divergente da quella della legge ebraica tradizionale, come la Legge contro i Ladroni, o le varie azioni intraprese da Erode, di dubbia legalità, per intimidire il Sinedrio. Quale conseguenza della dura tirannia di Erode, egli sottolinea lo sviluppo di un sistema di arbitrato, all’interno del quale la tradizione legale ebraica è vincolante, e questo in opposizione all’uso di tribunali reali, nei quali l’applicazione della legge è molto influenzata da tendenze legali provenienti dal circostante mondo ellenistico-romano.
Nella parte successiva, Rabello analizza l’evoluzione della giurisprudenza civile in Giudea a partire dal 6 d.C., quando Archelao, figlio di Erode, viene deposto da Augusto e il territorio da lui governato passa sotto il dominio romano diretto. Il dominio romano è durato fino al 66 d.C., ad eccezione di un breve periodo tra gli anni 41-44 d.C., quando Agrippa I venne nominato Re di Giudea dall’imperatore Claudio. Negli anni tra il 6 ed il 41 d.C. la Giudea passò sotto l’autorità del governatore romano di Siria, di rango senatorio, ma veniva amministrata da un governatore di rango equestre, legatus Augusti pro praetore. La Giudea era così classificata come provincia imperiale. Il titolo del governatore era quello di praefectus, il quale, va ricordato, era tuttavia subordinato al governatore di Siria, di rango senatorio. Dopo il 44 d.C., la maggior parte dei territori che componevano il regno di Agrippa I passò ancora una volta sotto l’autorità di un governatore romano, sempre di rango equestre, ma questa volta caratterizzato dal titolo di ‘procurator’. Rabello sottolinea che il governatore romano era la suprema autorità nel campo della giurisdizione civile e penale: egli aveva la funzione di giudice tra cittadini romani, assistito da un conventus o consilium. Il governatore romano aveva perciò la stessa posizione e funzione giuridica del praetor urbanus a Roma. Tuttavia la giurisdizione civile era ancora nel potere delle autorità ebraiche locali, ‘peregrini qui suis legibus utuntur’. Gli ebrei in Giudea vivevano ancora secundum propriae civitatis iura. Vi erano pur tuttavia alcune eccezioni: l’uso della legge ebraica non era assoluto. Perciò, nonostante che in una procedura tra due ebrei, e tra un ebreo ed uno straniero, le autorità civili avessero la possibilità di applicare la legge locale, tuttavia il iudex peregrinus era mandato, o nominato dal governatore. In una procedura tra un ebreo ed un cittadino romano, invece il governatore aveva il diritto di applicare la legge romana e non quella ebraica, provinciale, così come nel caso che l’imputato fosse un cittadino roma no. Questo secondo la Lex Rupilia del 111 a.C.: tuttavia la legge ebraica veniva applicata in una procedura civile tra un ebreo ed un cittadino romano nel caso in cui il cittadino romano fosse l’accusatore o il querelante.
Nell’ultima parte dell’articolo, Rabello cerca di trovare risposte ad una delle domande più importanti, e cioè di quale potere potessero fruire le corti ebraiche tra il 70 ed il 132 d.C., quando, in seguito alla distruzione del Secondo Tempio e di Gerusalemme, la Giudea venne posta sotto l’autorità di un governatore romano di rango senatorio. Egli sostiene che indubbiamente esistevano tribunali civili ebraici, che avevano l’autorità di giudicare una causa tra due ebrei. Tuttavia questa autorità era oramai concorrenziale con quella delle autorità romane e non più assoluta come nel passato: i tribunali romani potevano pronunciare un giudizio seguendo sia la legge romana che quella ebraica; dunque, ormai, gli ebrei avevano un autonomia giuridica ben più limitata che nel periodo precedente.
Personalmente ero molto interessato, riguardo al mio dottorato, a due considerazioni fatte da Rabello nel suo articolo. Il primo argomento discusso all’inizio dell’articolo verte sulle condizioni della Giudea in seguito alla repressione di Gabinio del 57 a.C.; secondo l’autore, la divisione dello stato degli Asmonei in cinque entità giuridiche differenti ed indipendenti l’una dall’altra, riflette senza dubbio il trattamento da parte dei romani degli stati, già ridotti in soggezione, che si erano ribellati: un esempio è la Macedonia divisa nel 166 a.C. in quattro differenti repubbliche; perciò, secondo lo studioso, la Giudea Asmonea non venne trasformata dai romani in una provincia, o in uno stato alleato, socius et amicus, ma la Giudea ha condiviso la sorte della Macedonia Antigonide[5]. Oltretutto anche la giurisdizione interna della Giudea Asmonea rifletteva quella della Macedonia Antigoni de: così come in Macedonia ciascuna regione era governata da un synedrion – un organismo che possedeva autorità politica e giuridica – Gabinio decise dunque di dividere la Giudea in cinque regioni, synedria o synodoi, ciascuna governata da un consiglio formato dall’élite locale[6]. Quindi l’erudizione e le conoscenze ebraiche e romanistiche di Rabello sono in questo caso molto utili per capire nei particolari cosa è successo in Giudea in conseguenza dell’intervento di Gabinio; i Roma ni, dunque, non hanno applicato tale metodo ex novo in Giudea, ma hanno applicato concetti amministrativi già sperimentati nel passato, come in Macedonia: uno stato che si è ribellato ai vincitori Romani, in conseguenza della sconfitta, viene così smembrato in una serie di entità territoriali, molto più ridotte, che non sono perciò più viste come una possibile minaccia dalla Repubblica Romana, anche se tuttavia, non vengono annesse e trasformate in provincia. Rabello dunque dimostra chiaramente l’importanza fondamentale della conoscenza del circostante mondo mediterraneo ellenisti co-romano per poter meglio interpretare e capire gli avvenimenti storici: in questo caso, le condizioni giuridiche nella Giudea contemporanea: per tal verso, l’autore dimostra qui come la giurisprudenza civile ebraica possa essere meglio capita alla luce del diritto romano contemporaneo. Un altro soggetto innovativo, quando l’articolo venne scritto, è l’analisi dettagliata della giurisdizione autonoma ebraica in Giudea tra il 70 ed il 132 d.C. Oltretutto il contributo di Rabello allo studio della giurisprudenza civile è fondamentale per capire l’applicazione della lex provincialis nelle nuove province di Arabia (annessa nel 106 d.C.) e della Giudea all’inizio del secondo secolo d.C. Qui lo studioso, poiché le fonti classiche non sono in questo caso d’ausilio alcuno, fa uso della letteratura rabbinica e degli archivi di Babatha: perciò egli esamina in dettaglio non solo letteratura rabbinica legale, ma anche gli archivi di Babatha, che, nei papiri datati tra il 124 ed il 125 d.C. – come per esempio la decisione presa dal tribunale locale sulla tutela del figlio di Babatha –, riflettono le varie leggi sulla tutela dei minorenni così come sono esposte in Gai., inst. 4.7, e non nel relativo corpus di giurisprudenza rabbinica, che si occupa della tutela dei minorenni. Nella sua analisi degli archivi legali di Babatha, inoltre, Rabello discute la presenza di diverse tradizioni giuridiche nella Provincia dell’Arabia Petrea, annessa nel 106 d.C., e sottolinea l’importanza del fatto che, nonostante i papiri fossero stati scritti in aramaico, la lingua locale, essi tuttavia riflettono il diritto vigente nella vicina provincia dell’Egitto. In questo caso lo studioso utilizza con successo letteratura legale rabbinica e l’archivio legale di Babatha per chiarificare e rispondere a varie domande su come la lex provincialis funzionasse in Giudea ed in Arabia: perciò l’uso della lex provincialis, la sua essenza e composizione, sono questa volta spiegati dal punto di vista dei provinciali stessi, e non riflette la posizione di Roma, il centro del potere dell’Impero.
Un altro contributo di Rabello che ho potuto proficuamente utilizzare durante la mia ricerca sullo stato giuridico del Tempio a Gerusalemme durante il regno d’Erode il Grande, è l’articolo dedicato alla legge che proibisce ai gentili di entrare nei cortili interiori del Tempio di Gerusalemme, a rischio della pena di morte[7]. Questa legge è stata attribuita da vari studiosi ad Erode stesso, o ai successivi governatori romani. Di fatto, negli ultimi decenni dell’esistenza del Secondo Tempio, i gentili ave
vano indubbiamente il permesso di visitare il cortile esterno del Tempio erodiano e di offrire sacrifici, se ciò era il loro desiderio. Tuttavia, secondo la cosiddetta Lex de Templo Hierosolymitano, ai gentili era proibito di entrare all’interno del Santuario vero e proprio, e perciò non potevano oltre passare una cancellata o ‘soreg’ , che divideva il cortile esterno da quelli interni, sotto la minaccia della pena di morte. Una iscrizione di avvertimento, in greco, posta sulla cancellata, è menzionata dettagliatamente da Giuseppe Flavio, ed inoltre due frammenti dell’iscrizione sono stati trovati in passato durante scavi archeologici[8]. Bickerman è stato tra i primi studiosi che hanno studiato ed approfondito la problematicità dell’iscrizione, anche se l’argomento principale della ricerca di Bickerman era il decreto molto più antico, emesso da Antioco III il Grande, che imponeva una severissima pena pecuniaria agli stranieri che si azzardassero ad oltrepassare «i limiti del Tempio». Bickerman, tuttavia, non si era occupato particolareggiatamente della pena di morte decretata nell’iscrizione datata al periodo erodiano e successivo[9]. Il contributo più significativo di questo articolo è che Rabello, contrariamente alla maggiorità degli studiosi che si sono occupati del medesimo soggetto, dimostra che tale legge va indubbiamente datata al regno di Erode, e non al periodo successivo, in cui la Giudea era assoggettata a governatori romani.
Nella prima parte del contributo, l’autore dimostra che già nella Bibbia sono stabilite chiare limitazioni all’accesso di estranei al santuario, così come nel mangiare cibi consacrati, proibiti proprio in quanto tali: solamente ai sacerdoti è permesso l’accesso al santuario ed il consumo di cibi consacrati[10]. Tuttavia lo studioso fa presente che nella Bibbia, nei casi in cui è prevista la pena di morte, questa è sanzionata ed eseguita solamente dalla Divinità, e non da autorità umana. In seguito l’autore analizza due ulteriori passaggi della Bibbia[11], in apparente contrasto l’uno dall’altro, che si occupano dell’argomento all’epoca del Primo Tempio (1000-586 a.C.).
Nella seconda parte del contributo Rabello si occupa dell’epoca del Secondo Tempio, ed analizza quindi il decreto di Antioco III che proibisce agli stranieri di entrare nel Tempio, minacciando una pesante pena pecuniaria. Ancora una volta l’autore sottolinea che questo decreto mette in rilievo l’esclusione dei gentili dalle parte interna del Tempio.
Solamente nella terza parte del contributo, Rabello affronta il periodo erodiano, e l’ultima par te del periodo del Secondo Tempio, quando la Giudea era sottomessa al dominio romano: egli mette in evidenza che la legge menzionata da Giuseppe Flavio va datata al regno di Erode, e non al periodo successivo; quindi l’autore discute in dettaglio il problema della pena di morte menzionata nella Lex de Templo Hierosolymitano, utilizzando letteratura legale rabbinica, e dimostra così che nella Mishna[12] è scritto che vi è il divieto più assoluto per stranieri di oltrepassare il ‘soreg ’, ma tuttavia nessuna pena è ivi menzionata. Inoltre egli cita un aneddoto, menzionato nel Talmud Babilonese, su Yehudah Ben Batyra, un saggio che è vissuto in Giudea durante il regno d’Erode[13]: il passo riporta il caso curioso di un Siriano che voleva a tutti i costi mangiare del cibo consacrato; questo atto, come abbiamo in precedenza ricordato, è punito nella Bibbia con il ‘Karth ’ o «recisione»: tuttavia questo siriano, accusato di bestemmia, venne in seguito punito con la pena di morte a Gerusalemme. Poiché questo caso legale presenta varie similitudini con quello dello sconfinamento oltre il ‘soeg ’, menzionato nell’iscrizione discussa da Giuseppe Flavio e trovata durante scavi archeologici, è probabile che la giurisprudenza rabbinica ritenga questo caso, come il precedente, passibile della pena di morte.
È perciò molto importante non solamente il contributo di Rabello al soggetto per sé, e cioè riguardo alla datazione della legge, ma anche per la metodologia da lui utilizzata. Infatti l’autore rintraccia le origini della legge nella Bibbia stessa, e ne segue il suo naturale sviluppo negli ultimi anni in cui il Secondo Tempio fu in esistenza, attraverso un’attenta analisi non soltanto di Giuseppe Flavio, la nostra principale fonte letteraria, ma anche attraverso uno scrutinio del materiale archeologico e della letteratura legale rabbinica, di cui egli ha ampia conoscenza: per tal verso, utilizzando diverse e ben disparate fonti, letterarie ed archeologiche, lo studioso riesce con pieno successo a datare la Lex de Templo Hierosolymitano al regno di Erode, un re giudeo, e non al successivo dominio romano. Per la mia ricerca, i risultati ottenuti da Rabello sono molto importanti poiché dimostrano che Erode, nonostante fosse rex-cliens, e quindi socius et amicus populi Romani, tuttavia poteva dimostrare una totale indipendenza nei confronti di Roma per quanto riguarda l’amministrazione interna: non solo, ma i tribunali erodiani potevano condannare a morte uno straniero, fosse anche egli cittadino romano; Erode era chiaramente al corrente che vi era la possibilità, e non totalmente remota, che un cittadino romano fosse potuto essere trovato colpevole di violazione, e, nonostante ciò, fece promulgare questa legge che sanciva la pena di morte per il reo: e questo anche se fino ad allora la pena prevista dalla legge era solo pecuniaria, e la Bibbia stessa, inoltre, non prescrive l’estrema pena, quantomeno eseguita da autorità umane.
Un altro contributo degno di nota dello studioso che per me è stato in sostanza fondamentale per poter capire la classe dominante della Giudea erodiana, e soprattutto la corte reale di Erode, è l’articolo consacrato al tribunale domestico di Erode[14]. Questi godeva dell’autonomia più completa per quanto riguarda la giurisdizione del suo regno, in quanto socius et amicus populi Romani : tuttavia è importante tenere presente che la giustizia civile nella Giudea durante il regno d’Erode era molto influenzata dalla giurisprudenza e dalla legislazione romana contemporanea. Sia da Giuseppe Flavio che da fonti legali rabbiniche siamo a conoscenza di vari tribunali civili, secolari e religiosi, che erano attivi in Giudea negli ultimi anni del periodo del Secondo Tempio; innanzitutto vi era il tribunale reale, o corte di giustizia: Giuseppe Flavio chiama questo organismo synedrion o dykasterion: i membri della famiglia reale, syngeneis, e i philoi, gli amici e consiglieri del re e della famiglia reale, componevano questo tipo di tribunale; a questi due gruppi, re Erode poteva aggiungere dei rappresentanti dello stato Romano. Gli unici casi che venivano giudicati in tale sede erano quelli in cui erano implicati i membri della famiglia reale: per quello che è possibile appurare dalle fonti letterarie, non vi sono altri casi che venissero giudicati da questo tribunale. Giuseppe Flavio narra dei vari processi a cui furono sottoposti Marianne l’Asmonea, la seconda moglie di Erode, Alessandro ed Aristobulo, suoi figli, e Antipatro, figlio di Doris, la prima moglie di Erode. Come venivano giudicati questi casi, e secondo quale legge? Rabello sostiene che la moglie ed i figli di Erode non sono stati giudicati e condannati secondo la Legge Biblica, e nemmeno secondo la legge romana, che riconosceva l’assoluta patria potestas di re Erode nella sua qualità di pater familias, ‘ius proprium civium Romanorum’[15]: è infatti importante fare presente che Erode, come suo padre Antipatro, e come i suoi figli, era cittadino romano, ed aveva quindi la possibilità di applicare la legge romano in questo tribunale domestico. Probabilmente Erode dette ordine al tribunale di emettere sentenze secondo la tradizione legale ellenistica, e non quella romana: il synedrion radunato da re Erode era un organismo legale ellenistico, chiamato dal re ad assisterlo nel suo verdetto in un tribunale, presieduto dallo stesso re, e non un consilium romano, o addirittura un tribunale domestico, che persino a Roma non godeva di tale autorità. La ricerca di Rabello è dunque molto importante per capire la forte influenza che ha avuto l’uso di un codice legale molto simile, o addirittura quasi identico a varie leggi di provenienza greco-ellenistica sul synedrion o il dykasterion erodiano: infatti leggi simili sono note agli studiosi soprattutto da papiri provenienti dall’Egitto tolemaico e, per quanto riguarda la Siria seleucide, attraverso fonti letterarie ed iscrizioni. Perciò secondo l’autore tutti questi processi si svolsero seguendo la tradizione legale ellenistica: dunque Mariamne venne giudicata da un tribunale composto da syngeneis e da philoi[16], Alessandro ed Aristobulo vennero giudicati a Berytus da un tribunale composto non solo da syngeneis, da philoi, ma anche da Archelao, re di Cappadocia, e da vari funzionari romani, ivi compreso Saturnino, il governatore della Provincia di Siria[17]; Archelao venne giudicato a Berytus da un tribunale composto non solamente da syngeneis, da philoi, ma anche da Varo, governatore della Siria[18].
Ancora una volta il contributo di Rabello alla ricerca relativa al periodo erodiano, anche in relazione alle fonti giuridiche romane, è stato per me fondamentale per meglio capire lo status giuridico di re Erode in Giudea verso la fine del periodo del Secondo Tempio. Perciò mi sembra che sulla base della ricerca più che esaustiva dello studioso, basata sulla sua solida conoscenza della giurisprudenza ebraica e romana, sia possibile assumere che i tribunali reali, radunati dal sovrano erodiano, fossero un mezzo per mostrare la sua posizione di basileus, o re ellenistico, non solamente nei riguardi dei suoi propri sudditi ebrei, ma anche nei riguardi di Roma, di cui Erode era rex-cliens[19].
Negli ultimi quattro anni ho cominciato ad approfondire la storia degli ebrei in Italia in epoca romana, ospite del Pontifico Istituto Biblico a Roma[20]. Uno dei problemi più importanti che ho dovuto affrontare durante la mia ricerca è la definizione dello stato giuridico degli ebrei che vivevano a Roma ed in Italia durante il regno di Adriano. Come è ben noto, verso la fine del suo regno, Adriano ha emesso un decreto che proibiva la circoncisione[21]: le conseguenze di questo editto in Giudea sono ben note, e vengono considerate dagli storici come le cause, o la conseguenza, della Rivolta di Bar Kochba. Ma questo decreto è stato applicato anche in altre province dell’impero romano? Questa legge era applicabile a tutte le province dell’Impero Romano? E naturalmente – fondamentale per la mia ricerca – vi è altresì la domanda se questo decreto fosse applicabile alla città di Roma, l’urbs, e all’Italia circostante. E’ probabile che la legge o non sia stata applicata, o l’applicazione si sia rivelata alquanto problematica, poiché non vi è alcuna fonte letteraria, giudaica o classica, o archeologica che attesti scontri tra le autorità romane e le comunità locali a Roma ed in Italia: in ogni caso è importante tenere presente che, se il decreto venne applicato, lo fu solamente negli ultimi anni di regno di Adriano, e che in ogni caso il suo successore, Antonino Pio, abolì tale decreto, permettendo nuovamente agli ebrei di praticare la circoncisione; tuttavia la nuova legge di Antonino Pio, se permetteva agli ebrei di circoncidere i propri correligionari, proibiva loro tuttavia la circoncisione di gentili, in teoria limitando possibili conversioni all’ebraismo. Nel complesso, le conseguenze del decreto adrianeo sulle comunità ebraiche nell’Italia romana sarebbero state minime: quanti ebrei sono nati a Roma ed in Italia tra il 132 ed il 138 d.C.? centinaia, ma non migliaia! Ed in ogni caso, mi sembra che per lo Stato romano, con i mezzi di allora, sarebbe stato molto complicato, se non impossibile, controllare in una città affollata e sovrappopolata come Roma, che raggiungeva un milione di abitanti, quanti bambini siano stati circoncisi. Tuttavia, l’effetto psicologico del nuovo decreto doveva essere stato enorme.
Rimane tuttavia il problema del perché e di quando Adriano ha emesso questo decreto. Il noto contributo di Rabello, The Edict on Circumcision as a Cause in the Bar – Kokhba Revolt, pubblicata in inglese ed in ebraico, è stato per me fondamentale per capire come Adriano sia riuscito con successo a modificare una legge esistente, emessa in precedenza, sulla castrazione, a cui egli equiparò la circoncisione, e naturalmente, in una più vasta cornice, come un decreto o legge emessa dall’imperatore venisse applicato nella prima parte del secondo secolo d.C.[22].
Innanzitutto è importante sottolineare che Rabello analizza a fondo il soggetto fin dalle origini, e cioè non si limita ad analizzare i dati solamente dal regno di Adriano come la maggior parte degli studiosi: egli inizia l’articolo con un esame dettagliato di una tipologia disparata di fonti letterarie classiche, storici greci e geografi come Erodoto, Diodoro Siculo e Strabone, storici romani tra cui Tacito e gli alquanto problematici Scriptores Historiae Augustae, fonti di giurisprudenza romana come Ulpiano, e la ben nota legge Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, naturalmente Giuseppe Flavio, letteratura legale rabbinica, e opere patristiche come Gerolamo.
L’autore all’inizio dell’articolo dimostra che nel periodo classico ed ellenistico Erodoto, Diodoro Siculo, e Strabone si riferiscono alla circoncisione come ad un fenomeno vasto, diffuso tra gli Egizi ed altri popoli orientali, e non solamente caratteristico dei Giudei: tuttavia egli fa presente che il sovrano seleucide Antioco IV si rese responsabile, ben prima di Adriano, di un editto in cui proibiva la circoncisione ai suoi sudditi, tra cui gli ebrei che vivono nel suo regno; questi ultimi tuttavia si ribellarono sotto la guida dei Maccabei, e si mostrarono pronti ad affrontare il martirio, pur di non violare la legge ancestrale. Invece, vari scrittori romani, tra cui Petronio, considerano la circoncisione come un attributo caratteristico dei Giudei e del Giudaismo. Inoltre lo studioso dimostra che la circoncisione come tale non era proibita nell’Impero Romano: come esempio viene fornito il caso di Silleo, il potente ministro nabateo, al quale Erode ordina di circoncidersi, se vuole procedere a nozze con la propria sorella Salomé. Alla fine del primo secolo d.C. l’imperatore Domiziano puniva la castrazione, in riferimento alla preesistente legge Lex Cornelia de sicariis, ma non la circoncisione[23]. Rabello inoltre dimostra che Gerolamo narra che in questo periodo i Cristiani perseguitati potevano scampare alla furia imperiale, se circoncisi, facendosi passare come Giudei; Nerva, che successe a Domiziano, proibì ad un padrone di castrare i propri schiavi con un decreto, anch’esso basato sulla Lex Cornelia de Sicariis ; Tacito, che scrisse prima dell’avvento al trono di Adriano, narra che gli ebrei circoncidevano sia se stessi che i loro proseliti. Soltanto a questo punto Rabello inizia la discussione sul decreto di Adriano che proibisce la circoncisione: le due domande principali, alle quali l’autore si sforza di rispondere, sono naturalmente se Adriano abbia veramente proibito la circoncisione e quando, e cioè se il decreto adrianeo sia la causa ovvero la conseguenza della rivolta di Bar Kochba. Lo studioso si avvale di una vasta tipologia di fonti; innanzitutto un passaggio di Ulpiano, che può essere interpretato per dimostrare che Adriano abbia esteso la precedente norma che proibiva la castrazione (‘excidere’) alla circoncisione (‘circumcidere’), dimostra così come in latino l’azione della circoncisione, espressa con il verbo ‘circumcidere’, sia inclusa nell’azione di tagliare, espressa con il verbo ‘excidere’: dunque il concetto di ‘excidere’ può indicare sia circoncisione sia castrazione. Perciò Adriano non fece altro che estendere la Lex Cornelia de sicariis includendo nella proibizione la circoncisione, e non solamente la castrazione; quindi lo studioso mostra che lo pseudo Spartianus, uno degli autori della Historia Augusta, narra che l’editto adrianeo che proibiva la circoncisione era la causa e non la conseguenza della Rivolta di Bar Kochba: egli dunque data l’editto tra gli anni 129-130 d.C., e infine conclude l’articolo con un’analisi di due passi tratti dalla letteratura rabbinica, il cui soggetto è la circoncisione come fonte di persecuzione. Dunque i due passaggi contenuti, il primo nella Mechilta de Rabbi Ishmael, ed il secondo nella Tosefta Shabbath, sono fonti complementari.
Avanzando nella mia ricerca, ho avuto un estremo bisogno di un libro o articolo, da utilizzare come base per il mio nuovo campo di studio, al fine di procedere ad uno studio dettagliato dello stato giuridico degli ebrei nell’Italia romana dalla tarda Repubblica fino all’invasione longobarda, che ha definitivamente portato l’Italia alle ombre ed all’oscurità del Medio Evo. L’articolo di Rabello, pubblicato in origine in inglese su «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt», è per me certamente il miglior contributo dedicato allo stato giuridico degli ebrei nell’Impero Romano, ed è stato da me utilizzato come base per studiare la condizione legale degli ebrei nell’Italia romana[24].
Tale articolo ha ovviamente le sue lontane origini nel libro che lo studioso francese Jean Juster pubblicò alla vigilia della prima guerra mondiale, sessantacinque anni prima della pubblicazione del l’importante contributo di Rabello. Il libro di Juster ancora oggi è probabilmente uno degli studi più importanti mai scritti sulla condizione giuridica degli ebrei nel mondo romano. Di fatto, lo stesso Rabello, sempre modesto, fa presente nella sua introduzione al suo novello contributo che in questo articolo viene seguito lo stesso impianto analitico del libro scritto dallo studioso francese caduto sul fronte all’inizio della Grande Guerra[25]. Perciò Rabello utilizza l’opus magnum di Juster sia come struttura portante del testo, peraltro molto conciso, che come scenario contestuale; ovviamente il suo contributo differisce dalle conclusioni dello studioso francese, che dopo più di mezzo secolo di successiva ricerca erano oramai divenute obsolete: tuttavia, per mostrare il suo debito di gratitudine verso lo studioso d’Oltralpe, e soprattutto per dare al lettore la possibilità di studiare il materiale in profondità, Rabello riporta alla fine di ogni capitolo, e se necessario paragrafo, vicino al titolo da lui utilizzato, il titolo del relativo paragrafo (e non nelle note) come è apparso nell’enorme libro di Juster. Così Rabello riesce con pieno successo ad illustrare e spiegare la condizione giuridica degli e brei nell’Impero Romano, non attraverso un esposizione di dati basata su un impianto cronologico, ma attraverso una discussione concisa e nello stesso tempo analitica di ciascun soggetto. Un interessante confronto può e deve essere fatto con l’impressionante contributo di Amnon Linder, anch’esso dedicato allo stato giuridico degli ebrei nell’Impero Romano: Linder ha pubblicato due studi, il primo che segue un impianto cronologico, ed il secondo che segue, come nel caso di Rabello, un impianto analitico[26]. Tuttavia Rabello, contrariamente a Linder, non si limita allo studio della condizione giuridica degli ebrei nel tardo impero, usando come fonti principali il Codice Teodosiano ed il successivo Codice di Giustiniano, ma come Juster, si sforza con estremo successo di analizzare la condizione giuridica degli ebrei durante i primi secoli dell’Impero Romano, la cui principale fonte giuridico-legale sono le Antiquitates Judaeorum scritte da Giuseppe Flavio: perciò il contributo di Rabello ha il vantaggio di essere molto più conciso del libro di Juster, nonostante che l’autore sia sempre attento a riportare nelle relative note il testo discusso, sia che esso provenga da Giuseppe Flavio, sia che esso sia parte di un codice legale databile al tardo impero; infatti, contrariamente a Linder, il contributo di Rabello include cronologicamente sia lo stato legale degli ebrei durante la tarda Repubblica e l’alto Impero, sia la situazione del basso Impero. Perciò, nel suo contributo, Rabello inizia con un’analisi preliminare delle varie fonti letterarie, giudaiche, greco-romane, patristiche, seguita da fonti non letterarie come quelle archeologiche, epigrafiche, papirologiche e numismatiche; egli conclude la parte introduttiva dedicata alla discussioni delle varie fonti con un brevissimo studio del primo libro dei Maccabei e di Giuseppe Flavio: queste due fonti letterarie sono presentate dall’autore come fondamentali per lo studio della condizione giuridica degli ebrei del periodo a cavallo tra la media e la tarda Repubblica ed il primo secolo del l’Impero, definito cronologicamente dalle dinastie Giulio-Claudia e Flavia. Invece, come fonti fondamentali per lo studio della condizione giuridica degli ebrei durante il tardo impero, Rabello propone la Lettera dell’Imperatore Giuliano agli ebrei, il Codice Teodosiano e il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano. Ed è in questo capitolo introduttivo che l’originalità del contributo di Rabello si fa molto sentire: egli esamina le nuove norme discriminatorie promulgate in conseguenza della Prima Rivolta, come il fiscus Iudaicus, introdotto da Vespasiano, fondatore della dinastia Flavia, e il decreto che proibisce la circoncisione promulgato da Adriano, che è stato una delle cause della rivolta di Bar Kochba. Rabello sottolinea che il decreto adrianeo venne immediatamente modificato dal suo successore, Antonino Pio, in «un nuovo spirito di riappacificazione e di tolleranza», e conclude questo capitolo introduttivo con una analisi del Codice Teodosiano e del successivo Codice di Giustiniano; il primo include leggi promulgate da Costantino I fino al 438 d.C., da Teodosio II nell’Impero d’Oriente, e da Valentiano III nell’Impero d’Occidente, e il secondo una scelta di legislazione da Augusto fino a Giustiniano: fra le successive Novellae particolare importanza assume la Novella 146. Questo capitolo introduttivo è anche l’occasione per Rabello per analizzare in breve la Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum, datata da Juster a questo periodo[27]. Nel secondo capitolo, Rabello esamina i privilegia degli ebrei sullo sfondo della legislazione imperiale romana: è importante fare presente che Rabello mette in chiara evidenza la differenza tra lo stato legale, di cui gli ebrei fruivano all’epoca degli imperatori pagani, e il loro successivo stato legale nel periodo dominato dagli imperatori cristiani, iniziato da Costantino. Rabello poi passa ad esaminare i privilegia in profondità: innanzitutto vengono analizzati i privilegia legati allo statuto giuridico della religione ebraica; quindi egli esamina come la legislazione imperiale romana ha affrontato il proselitismo ebraico. All’interno della legislazione imperiale, Rabello sottolinea la differenza tra le differenti condizioni legali del proselitismo ebraico: la circoncisione – cioè la conversione completa dell’individuo all’ebraismo, che gli dà diritto a entrare a far parte come membro a pieno diritto della comunità – e la condizione di theosebei o semi-proseliti, e cioè simpatizzanti dell’ebraismo in varie forme, la cui identificazione con il popolo d’Israele è solamente parziale. In seguito l’autore esamina la protezione legale che le autorità romane davano alla religione ebraica: in questa parte, egli discute la legislazione imperiale di fronte a vari aspetti della religione ebraica, e cioè il Sabato e le feste, i pellegrinaggi al Tempio di Gerusalemme, l’esenzione dalla celebrazione di festività pagane, le regole alimentari peculiari degli ebrei, le preghiere sinagogali, la Novella 146 di Giustiniano, il mezzo siclo, pagato dagli ebrei della Giudea e della Diaspora annualmente al tesoro del Tempio di Gerusalemme, l’aurum coronarium, o il successivo tributo pagato al Patriarca nella tarda antichità, e lo stato legale degli apostoloi, o gli inviati speciali del Patriarca alle Comunità della Diaspora all’interno dell’Impero Romano. Peculiare è l’atteggiamento degli ebrei di fronte al culto imperiale. Di fatto gli ebrei offrono sacrifici per la salvezza dell’imperatore nel Tempio, ed in seguito pregano per l’imperatore nelle sinagoghe.
L’analisi dello stato giuridico del Patriarca è parte della più vasta discussione sulla posizione della religione ebraica all’interno della legislazione imperiale, e porta Rabello ad analizzare, nel capitolo successivo, l’organizzazione centralizzata degli ebrei durante il tardo impero; questa organizzazione è dominata dalla figura del Patriarca, la cui posizione legale era riconosciuta dalle autorità romane: Rabello fa presente che gli apostoloi, gli inviati del Patriarca, godevano dei privilegi legali come del resto altri funzionari ebrei, e che questi privilegi erano all’epoca assimilati a quelli goduti dal clero cristiano. Una parte consistente di questo capitolo verte sulla discussione del Sinedrio, la cui esistenza durante il periodo tardo antico è oggi però accolta con scetticismo dagli studiosi[28].
Il capitolo successivo, logicamente, si occupa dell’organizzazione delle comunità ebraiche sparpagliate all’interno dell’Impero romano: Rabello innanzitutto esamina le comunità ebraiche dal punto di vista della loro personalità giuridica, e quindi analizza l’organizzazione della comunità e le varie istituzioni comunitarie, tra cui la sinagoga.
Una volta analizzata la condizione legale degli ebrei come parte di un ente corporativo, la comunità, Rabello passa ad esaminare la condizione legale degli ebrei come singoli all’interno della legislazione imperiale: lo studioso analizza così lo status civitatis, o la condizione giuridica degli ebrei in quanto cittadini romani, e si sofferma su tre principali fasi, la prima anteriore al 70 d.C., la seconda dal 70 d.C. fino al regno di Caracalla e la terza da Caracalla in poi. Egli analizza quindi lo stato personale, il matrimonio, il divorzio, la capacità giuridica, la materia patrimoniale, incluso il possesso di schiavi, la normazione testamentaria degli ebrei come individui alla luce della norma giuridica romana; in seguito l’autore analizza le funzioni pubbliche che gli ebrei potevano e dovevano occupare all’interno dell’amministrazione municipale, come la posizione dei curiales, o membri del consiglio municipale, e naturalmente il servizio militare; Rabello conclude il capitolo con un breve studio della tassazione discriminatoria, il fiscus Iudaicus, imposto agli ebrei in conseguenza della Prima Rivolta e della distruzione del Tempio, e l’aurum coronarium, la tassa pagata al Patriarca, che venne riscossa dallo stato romano come tassa discriminatoria dopo la destituzione del Patriarcato all’inizio del quinto secolo d.C.
L’articolo di Rabello è stato per la mia ricerca molto importante soprattutto per capire la condizione legale degli ebrei durante il regno degli imperatori Antonini e Severi, e nel successivo terzo secolo, fino al regno di Diocleziano; questo periodo è relativamente poco studiato, in quanto situato tra il precedente alto Impero, nel cui la situazione giuridica degli ebrei può essere studiata attraverso gli scritti di Giuseppe Flavio (la fonte principale sullo stato legale degli ebrei nel periodo che va dalla tarda Repubblica fino ai Flavi) e la legislazione imperiale varata durante il tardo impero, articolata all’interno dei successivi codici di Teodosio II e di Giustiniano. L’autore sostiene che le collezioni di testi di giurisprudenza sono di grande aiuto per definire lo stato giuridico degli ebrei che vivevano nell’Italia e nel resto delle province dell’Impero Romano durante questo periodo: in linea generale si può affermare che, dal regno di Antonino Pio in poi, la situazione giuridica degli ebrei, dominata fino ad allora dal pagamento discriminante ed umiliante del fiscus Iudaicus e dalle leggi vessatorie di Adriano, è cambiata in meglio: egli fa dunque presente che Antonino Pio ha revocato il divieto di Adriano che proibiva la circoncisione e probabilmente ha restaurato la maggior parte dei privilegi concessi che definivano l’autonomia giuridica delle comunità ebraiche[29]. Tuttavia, solamente durante il regno degli ultimi membri della dinastia degli Antonini, Marco Aurelio e Commodo, e successivamente sotto il regno della dinastia dei Severi, lo stato giuridico degli ebrei è stato nettamente modificato: quindi Marco Aurelio e Commodo hanno permesso agli ebrei che godevano del diritto di cittadinanza romana di essere eletti nei concili municipali – il decurionato – senza dover prendere parte alle cerimonie religiose pagane, cosa proibita agli ebrei osservanti della religione dei padri. Rabello indica che Modestino, il cui «floruit» va situato intorno al 250 d.C., scrisse nel suo de excusationibus che vi sono alcune leggi, confermate da Marco Aurelio e da Commodo, il cui fine era quello di regolamentare la partecipazione degli ebrei alle cariche pubbliche, ed in particolare la tutela dei non ebrei[30]. Più tardi Settimio Severo e Caracalla hanno confermato le leggi il cui scopo era regolamentare la partecipazione degli ebrei alle funzioni pubbliche. Rabello indica che Ulpiano, mancato nel 218 d.C., nel suo terzo libro de officio proconsulis, dedicato inter alia alla posizione di decuriones, cita in breve lo stato giuridico degli ebrei nel campo delle funzioni pubbliche[31]. Settimio Severo ed i successivi imperatori che hanno regnato durante il terzo secolo hanno tuttavia mantenuto alcune discriminazioni legali: gli ebrei infatti continuano a pagare il fiscus Iudaicus, il proselitismo è vietato, e gli schiavi acquistati o in possesso degli ebrei non possono essere circoncisi[32]. Lo studioso quindi sostiene che nelle contemporanee Pauli Sententiae, un testo legale attribuito a Giulio Paulo, prefetto pretorio durante il regno di Alessandro Severo, nel capitolo dal titolo ‘de seditionis ’, viene citata una legge sulla circoncisione[33]; inoltre, Erennio Modestino, nel commento alla Lex Cornelia de sicariis, nel VI libro delle sue regulae, riporta la legge che proibisce agli ebrei di circoncidere i loro schiavi[34]: tuttavia, secondo la Historia Augusta, Alessandro Severo confermò i privilegia degli ebrei[35].
Marco Aurelio Antonino, conosciuto come Caracalla, nel 212 d.C. fece promulgare la Constitutio Antoniniana de Civitate. Secondo questo editto veniva concessa la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero Romano organizzati in civitates che possedevano un autonomia locale, con l’eccezione dei cosiddetti peregrini dediticii. Ma chi erano i peregrini dediticii? Erano gli ebrei considerati come tali? Ancora una volta il contributo di Rabello è fondamentale: secondo l’autore, prima della promulgazione della Constitutio Antoniniana, solamente gli ebrei che possedevano la cittadinanza romana erano soggetti alla legge romana; tuttavia, una volta che la cittadinanza romana venne estesa a tutti i peregrini, una concessione mai riconosciuta de iure venne fatta a favore degli ebrei che vivevano nell’Impero Romano, cui veniva permesso di potere applicare in alcuni casi la legge ebraica per regolare casi legali legati all’autonomia interna delle comunità; così, probabilmente veniva concessa la cittadinanza romana alla maggior parte degli ebrei che viveva nell’Italia Romana e che possedeva lo stato giuridico di peregrini, migliorando nettamente il loro stato giuridico. Rabello conclude questo capitolo con una discussione relativa alla prima raccolta di leges, che non ci è pervenuta, il Codex Gregorianus, datato al 294 d.C., ed al successivo Codex Hermogenianus, i quali contenevano una sezione dedicata allo stato giuridico degli ebrei. Queste collezioni legali, se sopravvissute, avrebbero potuto illuminare lo stato giuridico degli ebrei nel terzo secolo[36]. I contributi di Rabello dedicati alla relazione tra Diocleziano e gli ebrei[37], così come alla Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum[38], datata da Rabello al regno di Diocleziano, che illuminano lo stato legale degli ebrei tra la fine del terzo secolo e l’inizio del quarto secolo d.C., non sono discussi nella presente recensione.
In guisa di conclusione, si può ribadire come l’approccio di Rabello alla storia degli ebrei in epoca classica, filtrata dalla visione di un giurista che possiede una profonda conoscenza della giurisprudenza romana, ha portato un contributo notevole all’interpretazione e comprensione della natura della relazione tra gli ebrei e la circostante civilizzazione greco-romana.
[1] A.M. RABELLO, Ebraismo e Diritto. Studi sul Diritto Ebraico e gli Ebrei nell’Impero Romano scelti e raccolti da F. Lucrezi, Soveria Mannelli, Rubbettino («Collana dell’Università degli Studi di Salerno»), 2009, I-II, p. 556, 572.
[2] I miei ringraziamenti al professor Francesco Lucrezi, Università di Salerno.
[3] S. ROCCA, Herod’s Judaea – A Mediterranean State in the Classical World, Tübingen, 2008.
[4] Si veda A.M. RABELLO, La giurisdizione civile in Palestina fra il 63 a.E.V. ed il 70 E.V., in «Studi T. Carnacini», Milano, III, 1984, p. 815-831. Cfr. anche ID, Civil Justice in Palestine from 63 BCE to 70 CE, in «Classical Studies in Honor of David Sohlberg» (ed. R. Katzoff, Y. Petroff, D. Shaps), Ramat Gan, 1996, p. 293-306, La giurisdizione civile nella Iudea romana fra il 63 a.E.V. ed il 70 E.V., in «Zakhor», II, 1998, p. 9- 19, The Jews in the Roman Empire. Legal Problems: from Herod to Justinian, Aldershot, 2000, p. 374, e La giurisdizione civile in ‘Iudaea’ fra il 63 a.e.v ed il 135 e.v. (in «Iuris Vincula. Studi M. Talamanca», VI, Napoli, 2002, p. 505-558), ora in Ebraismo e Diritto, cit., I, p. 89-142.
[5] Dopo la battaglia di Pydna nel 168 a.C., la Macedonia venne divisa in quattro regni indipendenti. I residenti di ciascuna repubblica non potevano neppure usufruire persino del diritto di commercio (commercium ) o di matrimonio (connubium ) tra di loro.
[6] Su i synedria si veda Jos. Fl., ant. Jud. 14.90-91, e, sui synodoi, 1.170. Cfr. H.D. MANTEL, The High Priesthood and the Sanhedrin in the Time of the Second Temple, in «The World History of the Jewish People», VII. «The Herodian Period», New Brunswick, 1975, p. 274, nonché E. SCHÜRER, History of the Jewish People, II, Edinburgh, 1987, p. 205-206, e ROCCA, Herod’s Judaea, cit., p. 262. Il primo consiglio o assemblea ristretta si trovava a Gerusalemme, gli altri a Gerico in Giudea, Amathus in Idumea, e Sepphoris in Galilea. Giuseppe Flavio fa presente che i Giudei erano oramai liberi dalla tirannide monarchica ed erano governati dall’elite aristocratica. Due cose sono chiare: la prima è che i membri della classe dominante della società locale compongono questi consigli, e la seconda che questi consigli hanno solamente un autorità giuridica e non politica.
[7] Si veda A.M. RABELLO, The Lex de Templo Hierosolymitano Prohibiting Gentiles from Entering Jerusalem’s Sanctuary, in The Jews in the Roman Empire: Legal Problems, From Herod to Justinian, Aldershot, 2000, IIIa-IIIb, e La Lex De Templo Hierosolymitano: sul divieto ai Gentili di penetrare nel Santuario di Jerushalaim, in «Studi D. Disegni», Torino, 1969, p.199-218, ora in Ebraismo e Diritto, cit., I, p. 39-63. Cfr. altresì ROCCA, He rod’s Judaea, cit., p. 304.
[8] «Questa era la prima corte, all’interno della quale, e, non lontana da essa, vi era la seconda corte, recintata da un muro di pietra, usato come partizione, con un iscrizione che proibiva a qualunque straniero di oltrepassare la partizione sotto pena di morte»: Jos. Fl., ant. Jud. 15.417-418. Frammenti di una copia dell’iscrizione si trovano nel Rockefeller Museum a Gerusalemme, mentre l’altra copia, relativamente in buone condizioni, si trova al Museo Archeologico di Istanbul. Il testo dell’iscrizione riporta che «nessuno straniero potrà oltrepassare la balaustrata del Tempio, o il precinto, e chiunque sarà colto in atto flagrante, sarà lui stesso responsabile della morte che seguirà in conseguenza della sua intrusione»: cfr. H. GEVA, Jerusalem, the Second Temple Period, in «The New Encyclopaedia of Archaeological Excavations in the Holy Land», II, Jerusalem, 1992, p. 344.
[9] Si veda Jos. Fl., ant. Jud. 12.145-146. Secondo il decreto di Antioco III, «sarà legalmente vietato ad ogni straniero di oltrepassare i limiti del Tempio … e colui che trasgredirà questo decreto, pagherà ai sacerdoti tremila dracme d’argento». La pena è dunque una multa, anche se molto alta. Secondo E. BICKERMAN, The Warning Inscription of Herod’s Temple, in «Jewish Quarterly Review», XXXVII, 1947, p. 387-405, un viaggiatore pagano non aveva alcun motivo di offendersi per essere escluso da sacro terreno: di fatto vi sono altre iscrizioni dell’Oriente ellenistico che proibiscono l’entrata ai non iniziati nei temenoi pagani; i gentili non potevano entrare nel cortile interno del Tempio di Gerusalemme poiché erano alieni, e quindi impuri.
[10] Si veda Lev. 12.10 ss.
[11] Si veda Reg. I.8.43: ma cfr. anche Ez. 44.9-10.
[12] Si veda «Mishna», Kelim 1.8.
[13] Si veda «Talmud Babilonese», Pesachim 3b.
[14] Cfr. A.M. Rabello, ‘Tribunale domestico’ in casa di Erode il Grande? (1979), in Ebraismo e Diritto, cit., I, p. 65-88.
[15] Si veda Gai., inst. 1.55. Su questo argomento, Rabello ha scritto la sua tesi di dottorato, pubblicata dall’Università di Milano (Effetti personali della «Patria Potestas»: dalle origini al periodo degli Antonini, Milano, 1979).
[16] Si veda Jos. Fl., ant. Jud. 15. 228-231.
[17] Si veda Jos. Fl., ant. Jud. 16.356-357 e bell. Jud. 1.538.
[18] Si veda Jos. Fl., ant. Jud. 17.89 s. e bell. Jud. 1.564-589.
[19] Cfr. anche ROCCA, Herod’s Judaea, cit., p. 273 s. e, sulla composizione dei tribunali erodiani, p. 72-95.
[20] I miei più sentiti ringraziamenti al professor Joseph Sievers, del Pontificio Istituto Biblico di Roma.
[21] Sul decreto di Adriano che proibisce la circoncisione si veda, nell’Historia Augusta, Spart., Hadr. 14.2, nonché Dio Cass., hist. Rom. 69.12. Vi è una legge datata all’imperatore Adriano che proibisce la castrazione, ma non la circoncisione: cfr D. 48.8.4.2. Si vedano J. JUSTER, Les Juifs dans l’Empire Romain, Leur condition juridique, économique et sociale, Paris 1914, I, p. V, e B. ISAAC, Roman Religious Policy and the Bar Kokhba War, in «The Bar Kokhba War Reconsidered, Texts and Studies in Ancient Judaism» (ed. P. Schäfer), Tübingen 2003, p. 36- 54: secondo Benjamin Isaac non ci fu mai alcun editto che proibisse la circoncisione come tale; Adriano proibì agli ebrei di circoncidere gentili, ma gli ebrei potevano continuare a circoncidere i loro propri correligionari. Si veda an che A. OPPENHEIMER, The Ban on Circumcision as a Cause of the Revolt, A Reconsideration, in «The Bar Kokhba War Reconsidered», cit., p. 55-69: secondo quest’ultimo, il decreto era una conseguenza e non una causa della ribellione di Bar Kochba.
[22] Si veda A.M. RABELLO, The Edicts on Circumcision as a Cause in the Bar – Kokhba Revolt, in «Israel Law Review», XXIX, 1995, p. 176-241, e Il problema della ‘Circumcisio’ in diritto romano fino ad Antonino Pio, in «Studi A. Biscardi», II, Milano 1982, p. 187-214 (= Ebraismo e Diritto, cit., I, p. 171-198).
[23] Altrimenti come avrebbe potuto raccogliere il fiscus Iudaicus?
[24] Si veda A.M. RABELLO, The Legal Condition of the Jews in the Roman Empire, in «ANRW.», II.13, Berlin – New York, 1980, p. 662-762 ( = Ebraismo e Diritto, cit., I, p. 249-349), e The Jews in Roman Empire in the Light of the Legislation, Jerusalem, 1987, p. 120 (in ebraico: l’articolo era stato dedicato in origine a Giuseppe Ignazio Luzzatto, professore di diritto romano all’Università di Bologna, che era stato il docente di Rabello. Luzzatto è mancato nel 1978), La situazione giuridica degli ebrei nell’impero romano, in «Gli ebrei nell’impero romano. Saggi vari» (cur. A. Lewin), Firenze, 2001, p. 125-142, e più recentemente Justinian and the Revision of Jewish Legal Status, in «The Cambridge History of Judaism» IV. «The Late Roman – Rabbinic Period» (ed. S.T. Katz), Cambridge, 2006, p. 1073-1076.
[25] JUSTER, Les Juifs dans l’Empire Romain, cit.
[26] Si veda A. LINDER, The Jews in Roman Imperial Legislation, Detroit, 1987, e The Legal Status of the Jews in the Roman Empire, in «The Cambridge History of Judaism», IV, cit., p. 128-174.
[27] Si vedano gli studi di A.M. Rabello sulla Collatio legum Mosaicarum et Romanarum ripubblicati in Ebraismo e Diritto, cit., I, p. 501-551. Cfr. infra, nt. 36.
[28] Si veda D.M. GOODBLATT, The Monarchic Principle, Texte und Studien zum Antiken Judentum, Tübingen, 1994.
[29] Si veda A.M., RABELLO, The Legal Condition of the Jews in the Roman Empire, cit., p. 686.
[30] Cfr. D. 27.1.15.6: si veda A.M., Rabello, op. ult. cit., p. 686.
[31] Cfr. D. 50.2.3.3: sullo stato giuridico degli ebrei come cittadini romani, si veda RABELLO, op. ult. cit., p. 687 e 725-727.
[32] Si veda nella Historia Augusta la legge di Settimio Severo contro il proselitismo in Spart., Sev. 17.1. Cfr. anche M. STERN, Greek and Roman Authors on Jews and Judaism, II, Jerusalem, 1976, n. 515, p. 625.
[33] Cfr. Paul. sent. 5.22.3-4. Si veda anche A.M. RABELLO, op. ult. cit., p. 687.
[34] Si veda D. 48.8.11.pr.
[35] Cfr. Lampr., Al. Sev. 22.4: si vedano RABELLO, op. ult. cit., p. 685, e STERN, op. cit., n. 520, p. 629- 630.
[36] Cfr. RABELLO, op. ult. cit., p. 686.
[37] Si veda A.M. RABELLO, Sui rapporti fra Diocleziano e gli Ebrei, in «AARC.», II, Perugia, 1976, pp. 157-197, e On the Relations between Diocletian and the Jews, in «Journal of Jewish Studies», XXXV, 1984, p. 147-162.
[38] Su tale opera si veda A.M. RABELLO, Alcune note sulla Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum e sul suo luogo d’origine, in «Scritti sull’Ebraismo in memoria di G. Bedarida», Firenze, 1966, p. 177-186, Sull’ebraicità dell’autore della Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, in «La Rassegna mensile di Israel», XXXIII, 1967, p. 339-349, On the Collatio Legum Mosaicarum et Romanarum, in «Annual for Jewish Law. Shenaton ha-Mishpat ha-Ivri», I, 1974, p. 231-262 (in ebraico), Sul decalogo «cristianizzato» e l’autore della Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, in «La Rassegna mensile di Israel», LV, 1989, p. 133-135, La datazione della Collatio legum Mosaicarum et Romanarum e il problema di una sua seconda redazione o del suo uso nel corso del quarto secolo, in «Humana Sapit. Études d’Antiquité Tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini» (ed. J.M. Carré e R. Lizzi Testa), Turnhout, 2002, p. 411-422, Determining the Date of Collatio legum Mosaicarum et Romanarum: the Problem of its Second Recension or its Use in the Fourth Century”, in «For Uriel. Studies in the History of Israel in Antiquity Presented to Professor Uriel Rappaport» (ed. M. Mor et alii, in ebraico), Jerusalem, 2005, p. 385-414 (si veda, per gli articoli in italiano, Ebraismo e Diritto, cit., I, p. 501-551); cfr. supra, nt. 36. Sulla Collatio si vedano anche le pubblicazioni di Francesco Lucrezi (L’uccisione dello schiavo in diritto ebraico e romano. Studi sulla «Collatio» I, Tori no, 2001; La violenza sessuale in diritto ebraico e romano. Studi sulla «Collatio» II, Torino, 2004; La successione intestata in diritto ebraico e romano. Studi sulla «Collatio» III, Torino, 2005).