* Il mio ringraziamento per aver contribuito con documentazione e suggerimenti alla redazione di questo testo va a David Bidussa, Liana Elda Funaro, Marco Grusovin, Laura Voghera, e agli amici del Cise di Pisa che mi hanno ospitato in un seminario critico dedicato al tema. Naturalmente la responsabilità di quel che ho scritto rimane mia.
Le religioni e il mondo moderno, Einaudi 2008 – II. Ebraismo – Parte quinta – Questioni
Gadi Luzzatto Voghera
Lo strumento educativo che venne maggiormente utilizzato nelle scuole ebraiche dell’Europa occidentale fra Settecento e Ottocento fu il cosiddetto «catechismo», un modello di testo nel quale venivano esposte le basi del credo religioso ebraico e le indicazioni per il corretto comportamento morale, sociale e politico che il giovane ebreo avrebbe dovuto tenere nella sua nuova posizione di cittadino emancipato. Si andarono così diffondendo alcuni volumi, i cui intenti pedagogici contribuivano a dare forma concreta al processo di «rigenerazione» che veniva proposto dai coevi provvedimenti di emancipazione civile. In questo saggio si analizzerà in forma sintetica il contesto politico culturale che accompagnò la nascita di tali testi e se ne esamineranno i contenuti e gli indirizzi pedagogici.
1. L’uomo nuovo e l’ebreo nuovo: gli israeliti di fronte alla rigenerazione.
Nel luglio 1789, durante il dibattito sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, il deputato Clermont-Tonnerre interpretava il pensiero dei più illuminati fra i pensatori francesi in materia di tolleranza religiosa affermando il principio che segnò in maniera definitiva il carattere dell’emancipazione accordata agli ebrei dalla Costituente solo due anni più tardi, il 27 settembre 1791:
Bisogna rifiutare tutto agli ebrei in quanto nazione: bisogna concedere tutto agli stessi in quanto individui; bisogna che essi non facciano nello Stato né un corpo politico, né un ordine; bisogna che essi siano individualmente cittadini[1].
Le istanze di emancipazione avanzate nel mondo occidentale sul finire del secolo XVIII e riprese con effettivi provvedimenti politici nel periodo rivoluzionario e in età napoleonica, comportarono un vero rivolgimento all’interno del mondo ebraico. All’adesione naturale e automatica di ogni ebreo alla «nazione» rinchiusa nei ghetti e regolata da norme particolari e immutabili, si venne sostituendo in tempi rapidi una sociabilità religiosa e culturale più vicina alle forme di associazionismo volontario. Se per quasi duemila anni di storia della diaspora ebraica l’appartenenza del singolo alla collettività religiosa era stata caratterizzata da un dato di nascita non negoziabile – che si poteva rifiutare solo con un esplicito atto di abiura e conversione – dall’epoca dell’emancipazione nel breve volgere di mezzo secolo l’adesione al gruppo ebraico diveniva per il cittadino nato da genitori ebrei una scelta personale e non scontata. Venivano difatti a cadere da un lato le costrizioni giuridiche restrittive e rigide proprie dell’Ancien régime, che legavano ogni uomo al gruppo sociale o religioso nel quale nasceva; un regime che aveva caratterizzato per secoli la vita dell’Europa moderna e che aveva imposto gravi ostacoli alle aspirazioni di mobilità sociale provenienti in special modo dal mondo borghese. E parallelamente crollavano anche le barriere interne del mondo ebraico, con il progressivo smantellamento del potere giurisdizionale nell’ambito delle singole comunità e una perdita verticale di controllo da parte delle autorità religiose sui comportamenti sociali dei singoli ebrei[2].
Il dibattito che aveva caratterizzato la letteratura e la produzione giuridica sulla prima emancipazione ebraica nel periodo che dall’Editto di Tolleranza adottato nei domini asburgici nel 1781 passò alla Rivoluzione francese per concludersi con la Restaurazione del 1815, si era incentrato attorno a due tesi opposte, e tuttavia concordi nel dare rilevanza al concetto di «rigenerazione». Una prima posizione, che costituiva un po’ la base teorica dei provvedimenti dell’imperatore d’Austria Giuseppe II, vedeva la progressiva rigenerazione morale e materiale degli ebrei come un processo necessario e propedeutico alla successiva concessione dei diritti di cittadinanza. Partendo dal presupposto che la civiltà cristiana fosse il punto massimo toccato sulla scala dell’evoluzione umana, si assumeva in qualche misura un’impostazione illuministica alla Rousseau nel prevedere un rapido processo di acculturazione dell’ebreo-tipo, inteso nella sua figura troppo spesso stereotipata del piccolo usuraio di ghetto, distinto per formazione culturale, lingua (lo yiddish per l’Europa centro-orientale e per le regioni renane) e tradizioni religiose dal resto della popolazione. Questa visione sottintendeva una sorta di «promessa» di integrazione, basata su una illimitata fiducia nelle facoltà livellatrici del progresso, che in poco tempo avrebbero annullato le differenze fra i diversi gruppi umani. Una fiducia, inutile dirlo, che andò in parte delusa. Quando nel corso del secolo XIX le comunità ebraiche dell’Europa centro-occidentale invece di scomparire – come auspicato – si trasformarono in differenti componenti legate comunque a una propria tradizione bimillenaria, in alcuni ambienti del liberalismo questo tenace attaccamento al proprio retaggio religioso e culturale suonò simile a un tradimento delle aspettative legate all’emancipazione, dando vita al riemergere di accuse di particolarismo e di estraneità al corpo nazionale che furono fra le basi portanti dell’antisemitismo moderno.
La seconda posizione rilevabile negli scritti sulla cittadinanza capovolge la prima impostazione: per avviare il processo di rigenerazione bisognerà farla precedere da concreti provvedimenti di legge che decretino l’equiparazione civile di ebrei e non ebrei. A fronte di questi due modelli, sopravviveva comunque il tradizionale atteggiamento assunto dalla chiesa nei suoi rapporti con l’ebraismo. La rigenerazione era in questo caso intesa come sinonimo di conversione religiosa, considerata come l’unica strada praticabile da un ebreo per poter accedere a un livello di parità con gli altri sudditi (e, poco dopo, «cittadini») cristiani.
La questione della rigenerazione divenne emergenza politica e culturale quando, nel 1806, Napoleone Bonaparte convocò l’Assemblea dei rabbini di Francia, Italia e regioni renane, e a seguire (1807) istituì il Gran Sinedrio per dare sanzione ufficiale ad alcune questioni aperte in materia di compatibilità fra dottrina ebraica e stato moderno, problemi che, a ben vedere, avevano come obiettivo primario le comunità ebraiche dell’Alsazia-Lorena che da decenni vivevano in tensione con la società locale[3].
Chi fino ad allora si era occupato di rigenerazione ebraica in Europa aveva preso le mosse dalla constatazione del degrado sociale e soprattutto spirituale degli ebrei; si dava cioè per acquisito il presupposto – niente affatto lusinghiero – che il complesso delle tradizioni ebraiche (specie il corpus degli scritti rabbinici post-biblici) fosse responsabile più di ogni altra cosa dello stato di abbrutimento spirituale e materiale nel quale era ridotta la maggior parte degli ebrei. La rigenerazione – che venisse adottata prima o dopo la formale concessione dei diritti civili – significava negli intenti pedagogici dei vari Dohm e Grégoire[4] un abbandono da parte degli ebrei per lo meno di parte dei loro costumi tradizionali, bollati quali «superstizioni» se non addirittura «vizi». Una richiesta di annullamento della propria specificità culturale che, nonostante gli intenti senz’altro benevoli dei promotori, finiva col cozzare frontalmente con i principî fondanti della Dichiarazione dei diritti dell’uomo[5].
L’Assemblea dei notabili e il Sinedrio furono il primo momento di autentico confronto pubblico della minoranza ebraica con le istanze di ri generazione che abbiamo visto sovrintendere al più complessivo progetto di emancipazione. I due consessi erano stati radunati per discutere e in seguito deliberare attorno a dodici quesiti posti da Napoleone, per fare chiarezza sui possibili contrasti fra le leggi della società civile e le leggi ebraiche; le autorità ebraiche si sarebbero dovute esprimere a questo proposito con decisioni definitive e universalmente valide. Le questioni riguardavano aspetti di diritto di famiglia e civile. Venivano posti quesiti a proposito della poligamia, del ripudio e del matrimonio in genere; ma venivano anche richiesti chiarimenti in rapporto alla fedeltà verso la patria e alla solidarietà e fraternità verso i propri concittadini; ed era infine sollecitata una risposta chiara in rapporto ai prestiti a interesse concessi ai non ebrei.
A prescindere forse dagli aspetti relativi alle regole matrimoniali, le questioni poste all’assemblea rappresentavano la sostanza stessa che faceva da fondamento all’idea di rigenerazione che doveva guidare il processo di emancipazione. Erano un vero e proprio specchio dei timori pregiudiziali e delle superstizioni che da secoli accompagnavano la figura dell’ebreo nell’immaginario dell’uomo europeo; un completo repertorio di dubbi e perplessità che veniva sottoposto pubblicamente ai notabili israeliti e che pretendeva risposte chiare e definitive. Era ben presente in questa iniziativa la quanto mai ottimistica convinzione da un lato che di fronte a spiegazioni esaurienti sarebbe venuta a cadere la pregiudiziale antiebraica; e dall’altro che simili questioni potessero essere risolte con semplici decreti, che avrebbero per legge eliminato ipotetiche distorsioni dei comportamenti sociali degli ebrei.
Il Grand Sanhédrin, convocato a Parigi nel febbraio 1807, finì con l’accogliere la filosofia della rigenerazione e promulgò delle vere e proprie decisioni dottrinali che avrebbero dovuto nell’intenzione degli estensori avere validità universale. Dopo aver – per esempio – espresso brevi considerazioni sui chiari riferimenti delle scritture al dovere di rispetto e fratellanza verso il prossimo, l’assemblea
ordina a tutti gli Israeliti dell’Impero Francese, del Regno d’Italia, e di tutti gli altri luoghi, di vivere con i soggetti di ciascuno Stato nei quali abitano, come con loro concittadini e loro fratelli, poiché essi riconoscono Dio creatore del cielo e della terra, perché così vuole la lettera e lo spirito della nostra santa Legge.
Alla stessa maniera si prescriveva il dovere di comportarsi con giustizia e carità verso il prossimo; si raccomandava di indirizzarsi verso l’esercizio di arti e mestieri e verso le professioni liberali, nonché di acquistare ove possibile proprietà fondiarie «comme un moyen de s’attacher davantage à leur patrie»; si vietava infine esplicitamente ogni forma di usura.
Erano tutti provvedimenti in linea con la tradizione ebraica biblica e post-biblica, e certamente la convocazione di un Sinedrio apposito per esprimere pareri così scontati può apparire forse un evento eccessivo. Ma dall’esame di altre risoluzioni appare invece più chiaro che la riunione di una solenne assemblea legislativa doveva assumere agli occhi dell’autorità imperiale una precisa funzione politica. Non era accettabile – in sostanza – la presenza di corpi estranei all’interno della collettività nazionale. E così i settantuno rabbini e laici componenti l’assemblea dovevano decretare (dopo non poche discussioni anche aspre) da una parte la norma del tutto pacifica di fedeltà alla patria di appartenenza, con obbligo di servirla e difenderla obbedendo a tutte le disposizioni del codice civile. Ma dall’altra si piegavano alle esigenze dello stato e introducevano modifiche fondamentali alle leggi tradizionali dell’ebraismo, forse il primo esempio ufficiale di riforma religiosa. Si dichiarava così che
ogni Israelita chiamato al servizio militare è dispensato dalla legge, per la durata di tale servizio, da tutte le osservanze religiose che non possono conciliarsi con esso[6].
2. I catechismi nella tradizione ebraica.
Uno dei mezzi indicati nelle decisioni del Sinedrio napoleonico per indirizzare correttamente il complesso percorso di rigenerazione venne individuato nel settimo articolo delle decisioni dottrinali: in esso si ordinava agli ebrei di
ricercare e adottare i mezzi più propri a infondere nella gioventù l’amore per il lavoro, e a indirizzarla verso l’esercizio delle arti e dei mestieri, così come delle professioni liberali[7].
Educare la gioventù diveniva una priorità, ed era scontata l’idea di fornire modelli di istruzione differenti rispetto a quelli tradizionali. Non più solo un’educazione indirizzata all’alfabetizzazione primaria per mettere in condizione il fanciullo di (almeno) seguire, se non di comprendere il formulario di preghiere in ebraico. Il programma di istruzione veniva arricchito di materie secolari imposte dalla necessità di rispondere positivamente alle istanze di rigenerazione; era introdotto progressivamente un approccio storico che collocava la comunità ebraica nel tempo e nello spazio; ma, soprattutto, venivano creati dei nuovi strumenti di elevazione morale e civile, quei «catechismi» che dovevano rappresentare l’esempio più visibile della svolta avvenuta in campo educativo al l’epoca dell’emancipazione[8].
Nella tradizione ebraica il catechismo così come venne prodotto e utilizzato in ambito cristiano per istruire i giovani, ma soprattutto i proseliti, era uno strumento praticamente sconosciuto. Una volta esclusa nel mondo ebraico la pratica del proselitismo, era venuta a cadere la necessità di produrre testi di istruzione elementare che schematizzassero e riassumessero i principî basilari dell’ebraismo. I giovani venivano generalmente istruiti nella lingua e nei principî seguendo i testi biblici e – più spesso – la Legge orale. Al più i maestri utilizzavano compendi che elencavano e spiegavano i 613 precetti, a cui aggiungevano brani esplicativi dello Shulchan Arukh[9] e istruzioni sull’uso e sul contenuto del formulario di preghiere. Il ciclo annuale di lettura sabbatica del Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia) provvedeva con la continua riproposizione degli stessi temi e della medesima narrazione storica a inculcare nei fedeli la sostanza degli insegnamenti dell’ebraismo, cosicché in definitiva risulta quasi del tutto assente una produzione di testi che si possano in qualche modo avvicinare al modello del catechismo cristiano.
I primi esempi di questo nuovo strumento sono molto rari e si incontrano a partire dalla fine del secolo XVI in Italia e nei Paesi Bassi. Sul modello di una rinnovata attenzione all’istruzione elementare religiosa introdotta dalla Riforma e – a seguire – dalla Controriforma, che vedeva come prodotto più importante il Summa doctrinae christianae[10] di Pietro Canisio, veniva pubblicato per la prima volta a Venezia per i tipi di Giovanni de Gara nel 1595 il Leqàkh Tòv di Abraham Jagel de Gallichi (cioè di origine galiziana) da Monselice[11]. Va detto che questo testo, sebbene strutturato secondo un rinnovato modo di intendere l’istruzione religiosa in una comunità ebraica, non si discostava granché dai precedenti testi di educazione, basandosi per la gran parte sui tredici articoli di fede di Moshe Ben Maimon (Maimonide); in questo senso, la scarsa influenza esercitata dal catechismo di Jagel sugli omonimi volumi ottocenteschi (nonostante l’ampia diffusione e fortuna che il volume di Jagel stesso ebbe, godendo di numerose traduzioni in yiddish, tedesco, latino e inglese) non pare sia da attribuire alle intrinseche qualità del testo, quanto piuttosto al fatto che nel secolo dell’emancipazione furono altre le esigenze che spinsero insegnanti e rabbini a cimentarsi nella composizione di nuovi e moderni testi di istruzione. D’altra parte, un destino simile ebbero altri volumi assimilabili in qualche modo al modello del catechismo cristiano prodotti in epoca precedente l’emancipazione[12].
Un capitolo a parte va al contrario riservato a quei manuali di istruzione religiosa per le donne scritti in volgare, la cui produzione comincia ad assumere una certa consistenza a partire dalla metà del secolo XVI. Questi testi, conosciuti come frauenbüchlein secondo la definizione assegnata da Moritz Steinschneider[13], fanno emergere una realtà per certi versi insospettata e quasi del tutto trascurata dalla storiografia ebraica: il lamentato oblio della lingua ebraica, che fino a tempi recenti era stato considerato uno dei frutti avvelenati della secolarizzazione e del l’emancipazione ottocentesca che avevano determinato il rapido allontanamento degli ebrei dal sicuro porto delle tradizioni, emerge in realtà come un dato strutturale almeno fra le donne ebree in area tedesca e italiana già in età tardo-rinascimentale[14]. Non si spiega altrimenti la diffusa produzione di veri e propri catechismi in yiddish e in italiano, concepiti per istruire le donne ebree ai fondamentali compiti di gestione corretta della casa e della famiglia ebraica, secondo la tradizione. Questi testi mi sembrano essere i veri antecedenti della ricca produzione catechistica esplosa nell’Ottocento: li precedono se non nei contenuti – ancora fortemente legati a un impianto tradizionale – certamente per la scelta di usare la lingua volgare per spiegare e commentare i testi sacri, un’azione di assoluto coraggio se teniamo conto che la prima traduzione in tedesco (ma con caratteri ebraici) del Pentateuco di Moses Mendelssohn verrà considerata sostanzialmente rivoluzionaria alla fine del Settecento, due secoli dopo l’apparizione di questi catechismi[15].
A prescindere dalla questione della lingua, i catechismi che iniziarono a essere prodotti a partire dalla fine del secolo XVIII e che accompagnavano il tormentato processo di emancipazione civile degli ebrei assumevano caratteristiche nuove e inedite. Gli intenti pedagogici programmaticamente perseguiti da questi testi si inserivano, e in qualche misura contribuivano a dare forma concreta a quel progetto di «rigenerazione» che veniva proposto dai piani di integrazione degli israeliti nella società maggioritaria. I riferimenti sono a volte espliciti, come nel caso dell’Esame o sia catechismo ad un giovane israelita istruito nella sua religione di Simone (Simcha) Calimani[16], che già nella dedica di introduzione dichiarava che il suo lavoro doveva essere utilizzato «nelle pubbliche scuole, le quali essendo istituite per supremo comando dalla Maestà di Cesare l’Augusto Giuseppe II, [hanno] ad oggetto di ridurre la Nazione [gli ebrei] utile a sé stessa ed alla civile società». Non era intenzione dell’autore modificare in alcun modo la tradizione ebraica, tanto che in maniera un po’ riduttiva egli affermava che la sua opera non conteneva nulla di nuovo, poiché «i divini comandi non dipendono da novità». Ma nella realtà, in questo come in altri casi coevi, le novità erano assai visibili. Se, come abbiamo visto, scrivere un testo di educazione in lingua volgare non era da ritenersi in senso stretto un inedito, il riferirsi a versi biblici, preghiere o passi della letteratura rabbinica senza utilizzare la lingua ebraica non poteva essere considerato un approccio tradizionale all’educazione ebraica. Se nei consueti modelli pedagogici praticati nel chéder l’apprendimento del testo del formulario di preghiera veniva affidato sostanzialmente alla memorizzazione, ora, con l’introduzione di testi in sola traduzione volgare, il giovane studente non si limitava ad assimilare incomprensibili formulazioni liturgiche, ma veniva avvicinato al la comprensione delle medesime attraverso un’ampia e complessa introduzione all’ebraismo e ai suoi fondamenti religiosi, filosofici e morali.
Si compiva tuttavia un passo ulteriore, nel tentativo di collocare il discepolo israelita nella nuova condizione di «cittadino» o «suddito» equiparato per condizione e non più soggetto a legislazioni speciali. In questo senso, una particolare attenzione veniva assegnata alla devozione verso il sovrano e alla sottomissione alle condizioni assegnate per legge o dalle dinamiche sociali. L’israelita doveva fin dalla prima educazione essere istruito all’amore verso la patria e verso i propri concittadini, una condizione dettata esplicitamente all’epoca del Sinedrio napoleonico. Ma, in aggiunta a ciò, doveva manifestare costantemente il proprio apprezzamento verso l’autorità regia (quale che fosse) che gli aveva concesso il privilegio dell’emancipazione. In questo spirito aveva assunto particolare importanza nella liturgia del sabato una benedizione speciale per il sovrano che veniva recitata in ebraico e in italiano subito prima di riporre il rotolo della Torà nell’Aròn ha-qòdesh, al termine della lettura della parashà settimanale[17].
Se la fedeltà al sovrano veniva ribadita settimanalmente nella preghiera e diveniva materia di insegnamento nei catechismi, secondo modelli che non si discostavano dal tradizionale dettato talmudico del cosiddetto dinà de-malkhutà dinà[18], costituivano al contrario un importante elemento di novità quei principî, dettati nei catechismi, relativi alle nuove relazioni sociali che si andavano affermando nella società borghese. Per ritornare al testo di Calimani, uno dei primi esempi europei, il capitolo dedicato all’uomo e al suo ruolo nella società delineava esplicitamente il comportamento che l’ebreo emancipato avrebbe dovuto assumere sia nel suo rapporto con la religione, sia nelle sue relazioni sociali: si registrava infatti un invito a non ribellarsi e ad accettare con sottomissione la propria condizione sociale, con formule che lasciavano poco spazio a speranze di riscatto. Così rispondeva l’allievo al maestro che ne chiedeva una definizione che si diversificasse dalla tradizionale formula del castigo:
La povertà è sempre un’occasione che ci presenta Iddio per esercitare le virtù dell’umiltà, della pazienza e della speranza in Lui, e per affezionarci sempre più al nostro prossimo ch’è in istato di darci o procurarci ajuto[19].
Da quanto abbiamo scritto risulta evidente che il modello educativo proposto dai nuovi catechismi si discostava in maniera sostanziale dalla precedente tradizione. Appariva evidente l’appannamento – specie nell’area dell’Europa centrale e occidentale – di un sistema di vita ebraica incentrato sull’applicazione e sullo studio della Halakhà, la normativa ebraica che aveva costituito per secoli il nerbo dell’apparato giuridico che regolamentava i rapporti sociali fra gli ebrei e la devozione religiosa di ogni singolo. I testi che venivano prodotti per l’istruzione dei giovani ebrei che si affacciavano sulla soglia della società borghese e in via di industrializzazione, forti di una nuova condizione di emancipazione giuridica, non trattavano se non assai marginalmente gli aspetti dell’ebraismo legati alla normativa tradizionale.
Se questo evidente allontanamento dai modelli precedenti non mancò di provocare anche aspre critiche[20], nella pratica dell’attività educativa proposta dalle comunità ebraiche a partire dal secolo XIX il modello del catechismo – basato sullo schema domanda-risposta, o sul dialogo maestro-allievo, oppure sull’elencazione di principî – prese rapidamente il sopravvento come strumento considerato generalmente più pratico e funzionale, rispondente per le sue caratteristiche alle esigenze imposte dalla nuova condizione. In particolare, divenivano sempre più centrali nell’insegnamento il ruolo della fede e della morale, due elementi scelti per le loro indubbie doti di funzionalità in quello che potremmo definire con termine anacronistico il marketing dei principî religiosi. A fronte di una società moderna che nelle sue istituzioni e nelle sue strutture diffuse chiedeva agli ebrei (a volte implicitamente, altre volte in maniera più esplicita come nel caso del Sinedrio) di rinunciare ad alcuni elementi della propria religiosità che venivano percepiti come fastidiosi quando non espressamente pericolosi per la convivenza civile, le comunità erano alla ricerca di strade per neutralizzare la via tradizionale allo studio e alla pratica dell’ebraismo.
Nessuna abiura del proprio passato venne intrapresa – almeno fino alla decisa svolta compiuta da alcune comunità in direzione di una visibile «riforma» dei principî dell’ebraismo[21] – ma certo lo strumento del catechismo e le scelte culturali in esso riscontrabili costituiscono un visibile slittamento rispetto ai principî educativi tradizionali. Si poneva fra parentesi ogni aspetto che potesse anche solo richiamare lontanamente il sospetto di un «particolarismo» ebraico legato all’antica promessa di elezione biblica e al formarsi attorno a essa di una complessa normativa relativa ai doveri comportamentali degli ebrei nei confronti di altri correligionari. Al contrario, veniva posta particolare enfasi al concetto di «fratellanza», che andava ormai a coniugare gli insegnamenti morali biblici, propri per lo più della letteratura profetica, con i principî di solidarietà umana figli della Rivoluzione francese e rapidamente convertiti in una più riduttiva fratellanza nazionale. Allo stesso modo, particolare enfasi veniva dedicata alla centralità della fede in Dio, curando di non esplicitare le modalità particolari proprie della devozione ebraica, ma ponendo l’accento sulla vicinanza con il resto dell’umanità proprio basata sulla comune fede in Dio.
È così che il catechismo maggiormente diffuso in Francia – Précis élémentaire d’instruction religieuse et morale di Samuel Cahen[22] – proiettava la prospettiva universalistica dei principî biblici e della tradizione ebraica fino a interpretare con il termine di «fratello» «ogni uomo che riconosce Dio», estendendo potenzialmente all’intera umanità i principî di Legge, culto e assistenza fraterna (in ebraico i concetti fondamentali per ogni ebreo di Torà, Avodà e Ghemilùth Chassadìm). In tal modo, gli obblighi morali di carità fraterna quali la visita ai malati, il seppellimento dei morti o l’aiuto ai poveri divenivano oggetto di un’etica universale basata sulla comune fede in Dio che non si discostava in alcun modo dagli insegnamenti tradizionali ebraici, ma allo stesso modo sottraeva ogni specificità ebraica ai medesimi principî. Nessuno spazio o quasi veniva dedicato alla complessità dei meccanismi che secoli di normativa ebraica avevano elaborato attorno al rispetto e alla pratica di quei medesimi principî morali che nei catechismi venivano portati alla loro forma essenziale – e neutrale – di principî universali.
3. Il «Bené-Zion»: un modello.
Nel 1812 il dotto ebreo praghese Naphtali Herz Homberg[23] dava alle stampe in lingua tedesca il Bené-Zion[24]. L’operetta, organizzata in 9 capitoli e 411 paragrafi, era stata commissionata dallo stato, che con decreto dell’«imperial regia aulica commissione degli Studj» del 14 dicembre 1810 (cioè due anni prima della sua pubblicazione) ordinava che il nuovo testo divenisse ufficiale «nelle scuole ebraiche degli Stati ereditarij della Germania» e divenisse libro di esame obbligatorio per gli sposi. Questa operazione editoriale e pedagogica, che interessava ora tutte le scuole ebraiche dei domini austriaci senza tener conto in alcun modo apparente delle enormi differenze di sensibilità, formazione e livello di integrazione che caratterizzavano le diverse realtà dell’impero, non era del tutto una novità. Il giurisdizionalismo austriaco si era da tempo impegnato a omologare la prassi di insegnamento della religione cattolica imponendo con il rescritto di Maria Teresa del 23 agosto 1777 l’introduzione di un nuovo catechismo unico nelle terre soggette alla corona asburgica, come simbolo e strumento di unità religiosa e politica[25]. Ma era stato con Giuseppe II che questa impostazione aveva sempre più accomunato tutte le realtà religiose presenti nei territori asburgici, le cui competenze in materia di istruzione e di educazione venivano sempre più limitate alla ritualistica religiosa, ponendo particolare attenzione a caratterizzare la propria opera in funzione di sostegno ai progetti di riforma dello stato. Se, quindi, nei secoli precedenti, lo strumento del catechismo poteva aver assunto anche nel mondo ebraico funzionalità disparate che, oltre l’istruzione, si ponessero come testi a volte di esplicita polemica religiosa, altre volte di apologetica, spesso (ma non è il caso dei catechismi ebraici) con obiettivi di proselitismo, ora il catechismo veniva imposto come strumento esplicitamente funzionale alla pedagogia statale.
Il caso del Bené-Zion, edito una prima volta nel 1812 e tradotto in italiano per iniziativa autonoma da Leon Vita Saraval nel 1815 a Trieste[26], è quindi solo l’ultimo caso in ordine di tempo di una vicenda che interessava prima e soprattutto la diffusione di testi catechistici cattolici. Un caso da leggere quindi nell’ottica delle vicende legate alla riorganizzazione degli stati austriaci, un complesso periodo che attraversa l’epoca rivoluzionaria e giunge agli anni della Restaurazione cogliendo le comunità ebraiche nel momento di più duro lavoro di integrazione e adattamento all’inedita condizione di emancipazione civile. Il quadro d’insieme è tuttavia quello detto, e sono più che evidenti i punti di contatto fra la storia delle diverse edizioni del Bené-Zion e la vicenda della sostituzione nella Lombardia di fine Settecento del catechismo di Bellarmino con un altro più conforme a una concezione della chiesa, della società e dei mutui rapporti propria del giurisdizionalismo austriaco[27]. Esemplare di questo parallelismo è il testo della risposta che Kaunitz dava nel 1781 al Firmian che gli presentava una bozza del nuovo catechismo:
A dirla sinceramente io non sono affatto contento dello spirito con cui si è stesa questa compilazione: pare che in essa non si sia avuto assai riguardo all’oggetto essenziale per la società, cioè di profittare dell’opportunità del catechismo con ispirare alla gioventù nella stessa spiegazione del dogma quei sentimenti di pratica morale, l’uso dei quali tende a render gli uomini migliori sotto ogni rapporto sociale, vaglia a dire veri cristiani[28].
Parole che, con le opportune sostituzioni di soggetto fra cristiani ed ebrei, rispecchiano per intero lo spirito del decreto che l’11 ottobre 1825 invitava i rabbini e i dirigenti delle comunità ebraiche (cioè le autorità religiose e i rappresentanti civili!) del Lombardo-Veneto a esaminare il testo del Bené-Zion e a modificarlo e migliorarlo per poi diffonderlo a tutte le scuole ebraiche del regno. E non si pensi che l’aspirazione di utilizzare uno strumento come il catechismo – sorto agli inizi come testo di diffusione della fede e della ritualità – per rafforzare l’autorità dello stato fosse prerogativa unica del giurisdizionalismo austriaco; nei fatti, lo stesso principio guidò la mano di Napoleone che nel 1806 riuscì a imporre (non è noto con quanto successo) un catechismo imperiale a tutti i sudditi cattolici[29]: era lo stesso anno di convocazione dell’Assemblea dei notabili ebrei a Parigi, e non era un caso.
Ma torniamo al Bené-Zion. Nella sua versione più diffusa in lingua italiana[30] si possono leggere con chiarezza le linee di una nuova pedagogia religiosa e secolare che si distaccava fortemente dai modelli di istruzione che avevano prevalso nelle comunità ebraiche nelle età precedenti. Fu esemplare a questo proposito la vicenda di Homberg, che fu costretto ad allontanarsi dalla Galizia dove aveva provato a introdurre nella sua qualità di ispettore imperiale i nuovi profili educativi. In un’area dove si erano radicati da secoli i modelli del chéder e della yeshivà, e dove nondimeno erano vivi i contrasti fra l’impostazione rabbinica dei mitnagghedìm e i mistici seguaci del chassidismo, il tentativo di introdurre un modello di istruzione religiosa fondato sulla centralità dello stato ponendo in secondo piano la complessità delle pratiche religiose non poteva che essere visto in modo assai negativo.
In Italia, al contrario, anche se la personalità di Homberg non aveva suscitato particolare entusiasmo, in piena Restaurazione i traduttori e curatori dell’opera (rabbini e notabili di rilievo delle comunità ebraiche lombardo-venete) aderivano in maniera sostanziale all’impostazione in dicata da Vienna. Scrivevano i curatori nella prefazione dell’edizione del 1828[31]:
Religione e morale sono dell’uomo i sentimenti sublimi che uniti valgono ad inalzarlo alla cognizione della Divinità, ed a fargli seguire le tracce del giusto e del l’onesto: né veramente disgiunti giammai cotali sentimenti potrebbero andare. Mentita infatti sarebbe la religion di colui che all’osservanza dei doveri verso Dio non accoppiasse l’esecuzione di quelli che lo obbligano riguardo alla civil società, e d’altronde la morale, sul solo raziocinio fondata, bastante non sarebbe a trattener l’uomo sul sentiero della virtù[32].
I nove capitoli che strutturavano la nuova versione italiana riveduta e corretta proponevano un modello pedagogico che si differenziava nella forma e nella sostanza dagli usuali testi di istruzione ebraica. Innanzitutto nella lingua: ancora nel 1806 il poligrafo Anania Coen di Reggio Emilia dava alle stampe in ebraico il suo Séfer Chanokh la-Na’ar[33], privo di traduzione italiana. Esisteva quindi ancora all’epoca almeno un settore di famiglie ebraiche che desiderava che i propri figli continuassero a studiare nella «lingua sacra», ed esistevano bambini in grado di leggerla e comprenderla, addirittura senza punteggiatura. Un’operazione del genere era già stata tentata nel 1802 dallo stesso Herz Homberg, che aveva dato alle stampe il suo Imre Shefer[34], un testo di istruzione scritto in ebraico ma tradotto in nota in tedesco (con caratteri ebraici); l’intento in questo caso era decisamente «modernizzante»: istruire il giovane ebreo che leggeva l’ebraico e parlava comunemente in yiddish, abituandolo all’uso della lingua volgare anche nel trattare di tradizione e di storia sacra.
Il Bené-Zion è ormai programmaticamente in lingua volgare, e le citazioni ebraiche che in esso compaiono sono pensate per essere il meno possibile invasive. Addirittura, nel testo originale tedesco l’ebraico viene decisamente omesso, e gli si preferisce direttamente la traduzione in volgare. L’edizione di Trieste del 1815 e quella di Venezia del 1828 ripristinano il testo ebraico affiancato dalla traduzione in volgare, compiendo in questo caso un’operazione di «restaurazione» culturale.
Ma era nella sostanza del programma di istruzione che il nuovo testo catechistico si differenziava dai modelli precedenti. Se Anania Coen dedicava l’intero volume a educare il giovane al corretto rispetto della minuta precettistica attraverso un excursus che passava dal formulario di orazioni quotidiane al complesso delle benedizioni che accompagnano ogni atto fondamentale della vita, per giungere a un esame sommario ma preciso dedicato al modo corretto di celebrare le ricorrenze annuali, nel Bené-Zion praticamente nessuno di questi aspetti (basilari per ogni elementare preparazione alla tradizione ebraica) veniva affrontato. I primi tre capitoli si occupavano della definizione di Dio:
1. Dell’uomo, della sua natura e della sua vocazione
2. Della cognizione di Dio per via delle cose create, e di ciò che possiamo sapere di Dio mediante l’ajuto della ragione
3. Della cognizione di Dio, de’ suoi attributi e de’ suoi voleri mediante la rivelazione, ossia mediante le istruzioni della sacra Scrittura.
Solo quest’ultimo capitolo utilizzava in forma discorsiva la narrazione storica del Pentateuco come fonte autorevole che inequivocabilmente fissava l’esistenza di Dio e il valore assoluto della sua autorità.
La fonte scritturistica viene decisamente privilegiata dall’intera opera, determinando anche in questo una decisa svolta culturale; probabilmente ci si poneva in tacita contrapposizione con la tradizionale formula educativa che individuava nella Legge orale, e in particolare nel Talmud, la base dell’istruzione ebraica. Nei fatti, i testi che vengono citati sono in grande maggioranza provenienti dalla Bibbia, e sono dotati di puntuale riferimento. Al contrario, i testi talmudici sono decisamente scarsi e non vengono mai citati in maniera precisa se non con un vago riferimento al Talmud stesso, ma senza mettere in condizione il lettore inesperto di risalire alla fonte in maniera precisa. Il rapporto con il Talmud appare in questo senso piuttosto conflittuale: non essendo possibile evitare di citarlo almeno un po’, l’autore e i suoi successivi traduttori preferiscono presentare una scelta generica di testi dall’elevato significato morale. Ne scaturisce una sorta di compilazione di formule certamente adatte all’educazione del buon israelita e dell’ottimo cittadino, ma che hanno una relazione solo occasionale con la complessa struttura del testo talmudico, che in generale non si presta alle estrapolazioni, ma è fortemente legato al contesto in cui i singoli brani si trovano[35].
Il quarto e il quinto capitolo sono dedicati ai doveri che Dio impone all’uomo secondo la tradizione ebraica, ed è anche in questo caso significativo il richiamo esplicito e puntuale ai dieci comandamenti biblici, ponendo in secondo piano la complessa elaborazione dei 613 precetti che la tradizione post-biblica aveva elaborato e che nelle epoche precedenti l’emancipazione ottocentesca costituiva il nucleo ineliminabile di ogni istruzione elementare, mentre nel Bené-Zion non vengono neppure nominati.
4. Dei dieci Comandamenti
5. Dei doveri che c’impone la cognizione di Dio e del suo volere
sono i titoli di questi due capitoli, e il quinto in particolare introduce alla seconda parte del volume, che costituisce in realtà in fulcro dell’intera opera e le dà senso.
6. Di ciò che l’uomo è in dovere di osservare verso se medesimo
7. Della reciproca dipendenza degli uomini l’uno dall’altro, e dei doveri che ne emergono
8. Delle più strette relazioni e dei vincoli degli uomini e dei doveri che ne emergono
9. Dei doveri dell’uomo come cittadino:
negli ultimi capitoli si va compiendo in maniera chiara il disegno pedagogico indirizzato a plasmare l’israelita come buon cittadino rispettoso dell’autorità terrena così come di quella celeste, solidale con il prossimo (ebreo e cristiano), pronto a intraprendere qualsivoglia attività lavorativa di tipo produttivo, attento alla cura del corpo e dello spirito. Siamo visibilmente di fronte a un testo paternalistico, la cui matrice «statale» è ripresentata in uno dei paragrafi conclusivi, dove si ripropone il testo e la traduzione della preghiera dedicata alla salute del sovrano[36]. Un catechismo governativo, decisamente riformatore negli intenti e nella sostanza, che dopo pochi decenni subirà l’inevitabile usura del tempo e verrà infine sostituito nei territori del Regno Lombardo-Veneto dalla traduzione di un nuovo testo tedesco[37], evidentemente più adatto alle esigenze dei tempi.
4. Appendici.
Nel suo storico articolo del 1964[38], Jacob Petuchowski affermava di aver censito circa 170 catechismi ebraici in Europa. Un numero certo notevole, ma che ci pare possa essere sottostimato se ci dobbiamo basare sulle sole edizioni in italiano che siamo riusciti a reperire e che qui di seguito elenchiamo, senza pretesa di completezza. L’elenco comprende anche opere in traduzione. Sono qui intesi con il termine di catechismo tutti i testi originali di istruzione alla storia e alla normativa religiosa ebraica prodotti in età di emancipazione e utilizzati nelle scuole ebraiche delle comunità italiane.
Bene-Zion. Libro d’istruzione religioso-morale per la gioventù israelitica del regno lom bardo-veneto, G. Molinari, Venezia 1828; 1ª ed. italiana, con testo tedesco a fronte, presso Weis, Trieste 1815, trad. it. di L. Vita Saraval.
S. Calimani, Catechismo ad un giovane israelita, s.e., Venezia 1782; varie altre ri stampe, e poi rist. anast. a cura di R. Calimani, Filippi, Venezia 1982.
D. Camerini, Lezioni di catechismo, ad uso delle classi inferiori e medie delle scuole israelitiche, Belforte, Livorno 1899.
L. Cantoni, Catechismo israelitico ad uso delle scuole elementari superiori israelitiche di Torino, F.lli Steffanone e C., Torino 1855.
Catechismo di religione e di morale per gl’Israeliti. Versione dal francese ad uso delle Pie Scuole Israelitiche di Livorno, s.e., Livorno 1861.
Chiesa Cattolica, Catechismo elementare ad uso dei fanciulli israeliti, Benvenuti, Mantova 1859.
A. Coen, Dottrina israelitica, Tip. Davolio, Reggio Emilia s.d.
Id., Sefer Chanokh la-Na’ar, s.e., Reggio Emilia 1806; riedito da G. Busi in Anania Coen Editore e letterato ebreo tra Sette e Ottocento, Fattoadarte, Bologna 1992, pp. 85-115. D. Coen, Catechismo religioso per gl’israeliti ad uso del collegio israelitico fiorentino, Soliani, Firenze 1857.
Id., Catechismo religioso per gl’israeliti con aggiunte di Angiolo Campagnano, Tip. I. Costa, Livorno 1888.
Compendio delle quotidiane orazioni e ringraziamenti a Dio, per ammaestramento delli discepoli, s.l., s.d. (1816?) (Bibl. R. Maestro, Comunità ebraica di Venezia, Coll. A 101). Dottrina normale e religiosa israelitica ad uso degli alunni delle scuole cittadine, s.e., Trieste 1895.
M. Ehrenreich, Sunto dei principi della fede israelitica ad uso dei giovanetti entrati nella maggiorità religiosa, Cecchini, Roma 1883.
Elementi di ebraica istruzione religioso morale. Traduzione con aggiunte di Marco Giuseppe Ancona per le prime classi della gioventù israelita, Minelli, Rovigo 1849. Esame sui doveri religiosi e morali per giovani israeliti giunti alla maggiorità religiosa e successiva professione di fede, Tip. Liviana, Padova 1846.
J. Fano, Professione di fede con domande e risposte ad uso della gioventù israelitica, G. Molinari, Venezia 1827.
A. Fornari, Catechismo Israelitico per la maggiorità religiosa compilato ad uso degli alunni del Pio Istituto Talmud Torà di Roma, s.e., Roma 1879.
A. Hasdà, Guida dell’israelita. Credenze e doveri, Tip. R. Gayet e C., Torino 1902. Id., Guida dell’isarelita. Rituario, s.e., Torino 1902.
Introduzione alla dottrina israelitica, sabbatica per le prime classi dei fanciulli, s.e., Pa dova 1843.
G. R. Levi, Catechismo israelitico di religione e di morale, Foa, Torino 1867.
Id., Catechismo israelitico ad uso dell’infanzia, s.e., Torino 1882 e 1887.
E. Lolli, Ristretto catechismo della religione israelitica ad uso della prima gioventù, Longo, Padova 1874; 2ª ed. 1895.
S. D. Luzzatto, Lezioni di teologia morale israelitica, tip. A. Bianchi, Padova 1862 (ma composto nel 1832).
Id., Lezioni di teologia dogmatica, Colombo Coen, Trieste 1863 (ma composto nel 1832). G. L. Morpurgo, Della educazione ed istruzione della gioventù e delle iniziazioni religiose, Lloyd austriaco, Trieste 1846.
M. Mortara, La religione israelitica compendiosamente esposta giusta i suoi dogmi, precetti, Beretta, Mantova 1853.
Id., Compendio della religione israelitica, metodicamente esposto ad uso della istruzione domestica e delle scuole, Beretta, Mantova 1855.
Id., Corso d’istruzione religiosa israelitica infantile ed elementare, 3 voll., Agazzi e Benvenuti, Mantova 1857-63.
A. Paggi, Compendio di tutte le dottrine israelitiche, cerimoniali, giudicali, morali e dogmatiche. Ad uso di catechismo, Paggi, Firenze 1861.
I. S. Reggio, Guida per l’istruzione religiosa della gioventù israelitica proposta ai maestri, G. B. Seitz, Gorizia 1853.
P. E. Sacchi e G. Lattes, Catechismo israelitico pratico, proposte per le scuole elementari religiose, Belforte, Livorno 1895.
L. Tedesco, Perché son io israelita? Osservazioni intorno l’istruzione religiosa dei fanciulli israeliti d’Italia, Colombo Coen, Trieste 1861.
G. Ulman, Catechismo di religione e di morale per gl’israeliti, Palagi e Belforte, Livorno 1846; 2ª ed. Colombo Coen, Trieste 1863.
W. Wessely, Catechismo biblico, ossia guida per l’insegnamento primario religioso della gioventù israelitica, Tip. Paternolli, Gorizia 1856.
M. Zilitz, Emunad Omen. Dottrina religiosa per la 1. e 2. classe delle scuole popolari israelitiche, Tip. Coen, Trieste 1861.
Id., Emunad Omen. Dottrina religiosa per la 3. e 4. classe delle scuole popolari israelitiche, Herrmanstorfer, Trieste 1863.
H. Adelman, The Literacy of Jewish Women in Early Modern Italy, in B. J. Whitehead (a cura di), Women Education in Early Modern Europe: A History, 1500-1800, Routledge, London 1999, pp. 133-58.
P. Braido, Lineamenti di storia della catechesi e dei catechismi, Elledici, Leumann 1991. M. M. Faierstein, Abraham Jagel’s “Leqah Tov” and its History, in «Jewish Quarterly Review», LXXXIX (gennaio-aprile 1999), pp. 319-50.
M. Grusovin (a cura di), Cultura ebraica nel goriziano, Forum, Udine 2007. G. Luzzatto Voghera, “Un certo ché, da noi chiamato anima”. I catechismi e il culto neli anni dell’emancipazione, in A. Dugulin (a cura di), Shalom Trieste. Gli itinerari dell’ebraismo, catalogo della mostra «Shalom Trieste», Comune di Trieste 1998, pp. 167-78. J. Petuchowski, Manuals and Cathechisms of the Jewish Religion in the Early Period of Emancipation, in A. Altmann (a cura di), Studies in Nineteenth-Century Intellectual Hisory, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1964, pp. 47-64.
D. B. Ruderman, Jewish Enlightenment in an English Key. Anglo-Jewry’s Construction of Modern Jewish Thought, Princeton University Press, Princeton N.J. 2000. S. Schreiber, «Catechisms», in Jewish Encyclopedia, sub voce (1903).
[1] Sulla Rivoluzione francese e gli ebrei la bibliografia è molto ampia. Per un’utile raccolta di documenti si veda Adresses, Memoires et Petitions des Juifs, 1789-1794, Edhis, Paris 1968. Cfr. anche Z. Szajkowski, The Emancipation of Jews During the French Revolution, Ktav, New York 1970. Importante anche la consultazione delle «Annales historiques de la Révolution française», gennaio-marzo 1976, dedicato a La Révolution Française et les Juifs, e S. Schwarzfuchs, Napoleon, the Jews and the Sanhedrin, Routledge & Kegan Paul, London 1979.
[2] Si veda il mio saggio su I rabbini in età moderna e contemporanea, in questo volume alle pp. 532-56.
[3] Cfr. il saggio di Francesca Sofia, Il tema del confronto e dell’inclusione. Il Sinedrio napoleonico, in questo volume alle pp. 103-24.
[4] H. B. Grégoire, Essai sur la régénération physique, morale et politique des juifs, Impr. de C. La mort, Metz 1789; ch. w. von dohm, Über die bürgerliche Verbesserung der Juden, F. Nicolai, Berlin 1781. Cfr. P. L. Bernardini, La questione ebraica nel tardo illuminismo tedesco. Studi intorno al lo “Über die bürgerliche Verbesserung der Juden” di C. W. Dohm (1781), Giuntina, Firenze 1992.
[5] Si vedano le considerazioni di G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Ot to e Novecento, in Storia d’Italia. Annali, XI/2. Gli ebrei in Italia. Dall’emancipazione a oggi, a cura di C. Vivanti, pp. 1371-574, in particolare pp. 1379 sgg.
[6] Per tutti i riferimenti alle decisioni del Sinedrio cfr. Décisions doctrinales du Grand Sanhédrin, L. P. Sétier Fils, Paris 1812.
[7] Ibid., p. 54.
[8] Cfr. J. Petuchowski, Manuals and Cathechisms of the Jewish Religion in the Early Period of Emancipation, in A. Altmann (a cura di), Studies in Nineteenth-Century Intellectual History, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1964, pp. 47-64; S. Schreiber, «Catechisms», in Jewish Encyclopedia, sub voce (1903); D. B. Ruderman, Jewish Enlightenment in an English Key. Anglo Jewry’s Construction of Modern Jewish Thought, Princeton University Press, Princeton N.J. 2000, pp. 249 sgg.; G. Luzzatto voghera, “Un certo ché, da noi chiamato anima”. I catechismi e il culto negli anni dell’emancipazione, in A. Dugulin (a cura di), Shalom Trieste. Gli itinerari dell’ebraismo, catalogo della mostra «Shalom Trieste», Comune di Trieste 1998, pp. 167-78.
[9] Lo Shulchan Arukh di Yosef Caro venne stampato per la prima volta in Italia a Venezia nel 1565 presso la tipografia di Aloise Bragadini. È il più completo e seguito testo compilativo di precettistica ebraica.
[10] P. Canisio, Summa Doctrinae Christianae, s.e., Wien 1554.
[11] Cfr. M. M. Faierstein, Abraham Jagel’s “Leqah Tov” and its History, in «Jewish Quarterly Review», LXXXIX (gennaio-aprile 1999), pp. 319-50.
[12] Cfr. ad esempio Isaac Aruvas, Emet ve-Emunà (Venezia 1654); Gedaliah Taikus, Elle ha Mitzwot (Amsterdam 1765); Jehuda Leon Perez, Fondamento solido de la Divina Ley (Amsterdam 1729).
[13] Cfr. M. Steinschneider, Catalogus librorum hebraeorum in Biblioteca Bodleiana, typis A. Friedlaender, Berlin 1852-60; A. Toaff, I precetti delle donne in Yiddish e in volgare. Una lettura imbarazzante, prefazione alla versione italiana del Mizwot Nashim di Alpron a cura di P. Settimi, in corso di pubblicazione (ringrazio l’autore che me ne ha anticipato cortesemente il contenuto); H. Adelman, The Literacy of Jewish Women in Early Modern Italy, in B. J. Whitehead (a cura di), Women Education in Early Modern Europe: A History, 1500-1800, Routledge, London 1999, pp. 133-58.
[14] Per la verità è probabile che anche gli uomini non fossero in generale molto periti di lingua ebraica, se dobbiamo prestare orecchio al rabbino Leon Modena che così si lamentava: «Pochi sono gl’Hebrei oggidì che sappiano parlar un ragionamento intiero Hebraico […] perché hanno appreso e sono allevati alla lingua del paese ove sono nati» (cfr. Historia de Riti Hebraici. Vita & osservanze degl’Hebrei di questi tempi di Leon Modena Rabì H.o da Venetia […], Gio. Calleoni, Venezia 1638).
[15] Cfr. Anonimo, Mitzwot Nashìm (Precetti per le donne), Giustinian, Venezia 1552 (in yiddish); anonimo, Séfer Mitzwot (Libro dei precetti), Marietti, Casale Monferrato 1986; B. Selnik (o Slonik) di Grodno, Séder mitzwot nashim (Ordine dei precetti per le donne), s.e., Kraków 1585. Anche in questo caso ringrazio Ariel Toaff per la segnalazione.
[16] S. Calimani, Esame o sia catechismo ad un giovane israelita istruito nella sua religione, s.e., Trieste 1783.
[17] «Colui che dona vittoria ai re e potere ai principi, e che regna per tutti i secoli […]. Egli benedica e guardi, e protegga e aiuti, innalzi ed esalti ed elevi sempre più il nostro signore [nome del sovrano] la cui gloria si accresca sempre. Amen». A queste parole seguivano preghiere per la salute del re e della sua famiglia, nell’augurio che questi continuasse a trattare benevolmente i «fratelli ebrei». Il testo è lo stesso in tutti i formulari del secolo XIX.
[18] Principio per cui si decretava che «la legge del sovrano è legge», nel senso che prevale in presenza di un contrasto insanabile con la Halakhà (in tema di relazioni fra ebrei e non ebrei) la legge tradizionale ebraica; cfr. Talmud Bab., Ghittin 10b.
[19] S. Calimani, Esame osia catechismo cit., p. 174.
[20] 20 Cfr. J. R. Berkovitz, The Shaping of Jewish Identity in Nineteenth-century France, Wayne State University Press, Detroit Mich. 1989, pp. 183-84.
[21] Si veda il mio saggio su La riforma ebraica e le sue articolazioni fra Otto e Novecento, in questo volume alle pp. 125-44.
[22] S. Cahen, Précis élémentaire d’instruction religieuse et morale pour les jeunes français israélites, s.e., Paris 1829, citato in j. r. berkovitz, The Shaping of Jewish Identity cit., p. 184.
[23] Naphtali Herz Homberg (1749-1841) fu esponente dell’Haskalà (Illuminismo ebraico). Precettore del figlio di Moses Mendelssohn a Berlino, si occupò di istruzione e di divulgazione ricoprendo anche incarichi ufficiali per conto delle autorità statali. In particolare fu ispettore per l’attuazione della riforma scolastica presso le comunità ebraiche della Galizia e a Trieste e Gorizia (dove sposò Galle Morpurgo). Cfr. B. Poli, Naphtali Herz Homberg: l’attività di un “maskil” nella Gorizia degli anni ’80 del Settecento, in M. Grusovin (a cura di), Cultura ebraica nel goriziano, Forum, Udine 2007, pp. 75-101.
[24] H. Homberg, Bne Zion, Mathais Rieger, Augsburg 1812.
[25] Cfr. P. Braido, Lineamenti di storia della catechesi e dei catechismi, Elledici, Leumann 1991, p. 3.
[26] “Bne-Zion” Figli di Sion. Libro d’istruzione morale e religiosa per la gioventù della nazione israelita, Weis, Trieste 1815, in italiano con testo tedesco a fronte.
[27] Cfr. P. Braido, Lineamenti di storia della catechesi cit., p. 334.
[28] Ibid., p. 335, dove cita il saggio di p. vismara chiappa, Il “buon cristiano”. Dibattito e contese sul catechismo nella Lombardia di fine Settecento, La Nuova Italia, Firenze 1984.
[29] Catéchisme à l’usage de toutes les Églises de l’Empire français, chez la veuve Noyon, 1806.
[30] Bene-Zion. Libro d’istruzione religioso-morale per la gioventù israelitica del regno lombardo-ve neto, dalla tipografia ebraico-greco-italiana di Giuseppe Molinari editore, Venezia 1828.
[31] L’edizione italiana del 1828, come quella del 1815, omette di citare l’autore Homberg.
[32] Ibid., p. 3.
[33] A. Coen, Séfer Chanokh la-Na’ar, s.e., Reggio Emilia 1806; riedito da G. Busi in Anania Coen Editore e letterato ebreo tra Sette e Ottocento, Fattoadarte, Bologna 1992, pp. 85-115.
[34] H. Homberg, Imre Shefer (in ebraico), s.e., Wien 1802. Io ho potuto consultare la riedizione Wien 1816.
[35] Per fare qualche esempio: «Ama il prossimo tuo come te stesso. Ciò che a te non piace ad altri non fare» (p. 24); «Tutto sta nelle mani di Dio eccetto il timor di Dio» (p. 29); «I virtuosi di tutte le nazioni del mondo avranno parte nella vita eterna» (p. 123); «Sii santo, sobrio anche nel le cose che ti son permesse» (p. 136); «Chi vuole attaccarsi a Dio, imiti le di lui buone opere: sia come egli è, clemente, benefico ecc.» (p. 140).
[36] Cfr. supra la nota 18.
[37] Cfr. W. Wessely, Catechismo biblico, ossia guida per l’insegnamento primario religioso della gioventù israelitica, Tip. Paternolli, Gorizia 1856.
[38] J. Petuchowski, Manuals and Cathechisms cit.