Un famoso proverbio ebraico romano insegna: “Tezzavvè, Purim se ne viè Ki tissà, Purim se ne va”- la festa di Purim infatti, si trova a cavallo di queste due parashot.
Nella parashà che leggeremo questo shabbat per la prima volta si verifica una cosa che dall’inizio del libro di Shemot fino alla fine del libro di Devarim, non accadrà mai più: non viene mai menzionato il nome di Moshè.
Eppure è lui che ha scritto tutta la Torà ed è a lui che è diretto l’imperativo divino, all’inizio proprio della parashà: “Veattà tezzavvè – E tu comanda…”; per tutto il resto mai, nemmeno una sola volta troviamo nominato il nome Moshè.
Comprendere questo per gli esegeti non è stato facile; tutt’ora non si ha una motivazione precisa del motivo per cui viene meno il nome di Moshè e solo ed esclusivamente in questa parashà.
Abbiamo due possibilità di interpretazione del caso:
la prima è che nella parashà di Ki Tissà, che leggeremo la prossima settimana, in cui si racconta dell’episodio del vitello d’oro, Mosè per difendere il popolo mette in discussione la sua vita e dice: “salva il popolo e cancellami dal tuo Libro che hai scritto”.
(Il “libro tuo” sarebbe la Torà e, in ebraico suona con le parole “sifrekhà”; i Maestri hanno interpretato dicendo che sifrekhà vorrebbe dire invece “sefer khaf” in ebraico “il libro 20°” e la ventesima parashà non è altri che quella di tezzavvè, che leggeremo questo shabbat.).
D-o ascolta le preghiere dei giusti e non le manda sprecate, per cui Moshè sarebbe stato ascoltato nella sua preghiera, anche se soltanto parzialmente ed nel modo più positivo possibile.
La seconda possibilità, molto più accessibile e probabile è che in questa parashà, si parla esclusivamente del vestiario dei sacerdoti – i cohanim; Aaron suo fratello era il Cohen gadol – il sommo sacerdote ed era anche più vecchio di Mosè.
Egli allora, per non mettere in ombra suo fratello, comandando a lui alcune importanti mizvot, si mette da una parte e lascia che sia D-o direttamente a comandargliele. Questo in ebraico, anche se a fin di bene, si chiama “astarat panim – nascondere il proprio volto”; Moshè nasconde la propria persona per dar spazio a suo fratello.
Questo shabbat è chiamato “shabbat zakhor” in cui ricordiamo le malefatte di Amalek e di tutti coloro che male hanno fatto al nostro popolo danneggiandoci e colpendo i più deboli: tutti seguaci di Amalek, che fu il primo ad usare questa tattica.
E’ lo shabbat che precede la festa di Purim, in cui si celebra lo sforzo che la regina Ester fece per scongiurare il pericolo di Aman – seguace di Amalek – che voleva uccidere gli ebrei del regno di Assuero, compresi donne, vecchi e bambini.
Anche nella storia di Purim c’è il gioco di nascondere la propria faccia – la propria identità: Adassà che non dice di essere ebrea e nascondendo la propria realtà si fa chiamare Ester che vuol dire nascosto; D-o stesso nasconde la propria faccia al suo popolo, provocandogli un grosso spavento, fintanto che tutti non si ravvedono e si rivolgono a Lui, implorandogli il perdono.
A volte, anche chi è particolarmente famoso ha bisogno di restare dietro le quinte, per far spazio agli altri e rendersi conto di come e la cavino ad affrontare situazioni difficili.
Aaron doveva diventare la massima carica spirituale del popolo, così suo figlio, che lo avrebbe di lì a poco sostituito. Non poteva sempre essere guidato in ogni passo da Moshè!
Così Adassà – Ester, che doveva essere regina ed essere quindi la rappresentanza e l’orgoglio del suo popolo – una minoranza – doveva dimostrare di essere all’altezza di gestire una situazione pericolosa.
D-o si fa da parte, resta dietro le quinte, per far spazio a costoro, per assistere passivamente a ciò che accade; ma come un buon genitore è però sempre pronto ad intervenire per salvare il popolo ebraico da intromissioni esterne.
Shabbat shalom e chag Purim sameach – Buon Purim