«…Parla ai figli di Israele e prendano per me un’offerta…».
Così inizia la parashà che leggeremo sabato prossimo e che prende il nome di Terumà che significa appunto “offerta”.A questo proposito i Maestri si chiedono come mai la Torà adopera il verbo “prendano” e non “diano” visto che si tratta della richiesta di un’offerta da parte divina per costruire il MISHKAN – Tabernacolo mobile del deserto.
Molte sono le risposte a questo quesito:
Il “minchà belulà” testo di esegesi biblica, spiega dicendo che se colui a cui è predisposta l’offerta è un personaggio importante, colui che la offre è considerato colui che la riceve e per questo è detto “ prendano per me un’offerta” e non “diano a me una offerta”.
Il Malbim, sostiene invece che se la Torà avesse detto: “ diano a me una offerta”, il popolo avrebbe potuto pensare che l’opera della costruzione del Mishkan sarebbe dovuto essere fatta con un’offerta obbligatoria, costringendo il popolo ad elargirla.
Dice invece «prendano per me un’offerta» in modo tale che essa fosse un’offerta facoltativa, ma, soprattutto, fatta spontaneamente, nella misura in cui ognuno reputi quella giusta per le proprie possibilità.
Per questo motivo il popolo si sentì in dovere di nominare dei preposti a questa mansione – parnasim o gabbaim- in modo tale che avessero provveduto alla riscossione di tale offerta.
C’è ancora un’ulteriore spiegazione a questo ed è quella che sostiene che chiunque faccia zedakà, questa non esce dalla sua tasca, ma anzi contribuisce a far sì che nella sua tasca possa entrare più di ciò che è uscito.
Questo concetto è ribadito più volte dai nostri Maestri, i quali, parlando della zedakà, esprimono un grande concetto che nulla ha a che fare con l’elemosina o addirittura con la carità.
Sia l’elemosina che la carità pongono su due piani chi la dà e chi la riceve, poiché esiste palesemente un modo esteriore di fare l’elemosina davanti a tutti e, soprattutto, riceverla davanti a tutti.
La zedakà – atto di giustizia, deve esser fatta senza che chi la riceve sappia chi la fa e, in particolare, essa non si limita ad essere una elargizione materiale ma può essere fatta anche attraverso un gesto morale.
Lo scopo dell’offerta in questione non era soltanto quello di costruire un Santuario o Tabernacolo mobile, MISHKAN , nella sua materialità, ma era quello di riuscire nell’intento di tenere il popolo unito.
Il Mishkan prima, il Bet Ha Mikdash poi, sono stati i punti di riferimento di tutto il popolo ebraico nel corso di molti secoli; quel Luogo che ha fatto sì che il popolo non si spaccasse ma ritrovasse attraverso di esso una convergenza ed una condizione di unicità che lo faceva essere diverso da tutti gli altri popoli della terra.
Il nostro Bet ha Mikdash, quello della nostra era che ci vede privi di un così grande bene, può essere identificato nella lingua ebraica che accomuna tutto il popolo, sparso in ogni angolo della terra, almeno nei momenti della recitazione della tefillà.
Pochi sono i simboli della nostra tradizione, ma sicuramente il Bet ha Keneset – la Sinagoga e la preghiera che in essa viene recitata, hanno la forza di sostituire il Bet ha Mikdash, se non fisicamente, almeno dal punto di vista della identità del popolo di Israele.
Shabbat Shalom