Rivista Oròt – Numero 4 – Marzo 1992
Mirjam Viterbi Ben Horin
Un giorno la terra emerse dalle acque per l’opera creatrice di Dio, e come ogni bambino esce dalle acque amniotiche per vedere la luce, così l’emersione, che segue ad un’immersione nel mikvè, ripete simbolicamente ogni volta un processo di rinascita.
La parola mikvè si incontra per la prima volta in Genesi 1°, 10:”Dio chiamò terra l’asciutto e chiamò mari la raccolta delle acque” (mikvè màyim).In altri due punti, nella Bibbia, si parla ancora di mikvè – come mikvè màyim, cioè raccolta di acqua – e precisamente in Esodo 7°, 19 e Levitico 11°, 36. In tutto, tre volte (1). Nell’uso corrente, fin dai tempi più antichi, mikvè sta ad indicare una piscina per l’immersione rituale: immersione che deve essere completa (cioè fino a che neppure un capello rimanga fuori dall’acqua) e in stato di totale nudità.
Il mikvè deve corrispondere a criteri ben precisi: è necessario, anzitutto, che sia costruito nel terreno o che, per lo meno, vi sia connesso. Deve contenere la quantità indispensabile per una immersione totale. L’acqua deve essere piovana e non può essere veicolata in nessun modo attraverso tubature o contenitori (cioè, non portata artificialmente). Inoltre l’acqua del mikvè non deve scorrere, ad eccezione che non si tratti di una sorgente naturale.
L’immersione rituale può avvenire altresì nell’acqua del mare, in quella di un fiume e, in casi molto particolari, anche in neve o ghiaccio liquefatti.
Capiremo in seguito il perché di tutte queste regole ed il valore simbolico molto profondo che ne è alla base. Ma, prima, consideriamo alcuni fra i passaggi biblici più significativi al riguardo.
Così, ad es., ha inizio proprio con un lavacro la consacrazione di Aronne e dei suoi figli come kohanìm, cioè come sacerdoti designati al servizio del Tabernacolo ove, nel deserto, erano custodite le tavole della Legge (Esodo 29°, 4; 40°, 12, Levitico 8°, 6).
E successivamente quando, nel giorno di Kippur, ed unicamente in quel giorno, il Sommo Sacerdote entrava nel Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme, e vi entrava due volte, ogni volta egli doveva, prima, immergersi nell’acqua (Levitico 16°).
Ma già in precedenza, in Esodo 19°, 10, l’intero popolo d’Israele era stato purificato, ai piedi del Sinai, prima di ricevere il decalogo.
In questi passaggi la Torà scritta ci parla di abluzioni; ma, dalla Torà orale, noi sappiamo essersi trattato di una immersione completa. E, già da queste tre testimonianze, poche ma fondamentali per la storia e la vita religiosa ebraica, ci è chiaro che non si tratta di semplici atti purificatori, ma di momenti di radicale e profondissima trasformazione. Per il popolo ai piedi del Sinai era l’incontro con la Torà, l’ingresso nel patto fra Dio e Israele; per il Sommo Sacerdote, il Kohèn Gadol, era ogni volta l’incontro con il Nome: quel Nome che egli solo, e solo in quel giorno, poteva pronunciare. Era il momento del grande mistero in cui tutto muore e rinasce.
Attualmente, l’immersione nel mikvè è prescritta, come nell’antichità, per i proseliti, cioè per coloro che si convertono all’ebraismo: senza questo, la conversione non è valida.
Dice il Talmud: “Non appena il converso si immerge ed emerge, egli è sotto ogni aspetto un ebreo”. Ma non è forse, questa immersione nel mikvè, proprio come il ritrovarsi ai piedi del Sinai, allora, per ricevere la Torà ed entrare nel patto?
Altri casi in cui si pratica l’uso del mikvè, a tutt’oggi, sono: per molti osservanti dopo il periodo mestruale per la donna, prima del Yom Kippùr e anche prima dell’ingresso del Sabato. In tutti questi casi, io credo non si debba parlare mai solo di purificazione, ma sempre e proprio di un cambiamento di stato, di una trasformazione: dopo un ciclo mestruale concluso, ne ha inizio un altro, che è ancora apertura verso la vita, nel Yom Kippur e nello Shabbàt, in accordo con le più antiche tradizioni, vi è una profonda esperienza di rinnovamento dell’anima.
Con questi esempi, credo di aver potuto dare almeno una idea del posto che l’immersione rituale ha ed ha sempre avuto nella vita religiosa ebraica.
In Israele, attraverso gli scavi archeologici, l’importanza del mikvè emerge a volte in modo molto forte, soprattutto qualora si pensi alle difficoltà, ed all’estrema penuria d’acqua, malgrado le quali esse sono state costruite, spesso in zona desertica: così a Massada, a Herodium, nella comunità essenica di Kumràn (ove, d’altronde, si faceva uso anche della immersione nel Giordano).
Ma, a questo punto, dobbiamo chiederci: perché l’acqua ha un potere simbolico così intenso? Perché vi è connessa tanta sacralità? Vi sono, al riguardo, alcune interpretazioni tradizionali.
Innanzitutto, il mikvè rappresenterebbe il grembo materno. Come un giorno la terra emerse dalle acque per l’opera creatrice di Dio, e come ogni bambino esce dalle acque amniotiche per vedere la luce, così l’emersione, che segue ad un immersione nel mikvè, ripete simbolicamente ogni volta un processo di rinascita.
Ma vi è qui un fatto di particolare interesse: occasionalmente, nel Talmud, per la parola grembo si usa il termine kéver che in realtà significa tomba (Shabbat 129a, Niddà 21a). Grembo e tomba sarebbero, in un certo senso, la medesima cosa?. Questa stranezza è però solo apparente. Tomba e luogo di rinascita non sono in contraddizione. Per rinascere, è necessario, prima, morire.
E, poi, pensiamo anche ad un altro aspetto di grande importanza simbolica: nella immersione totale l’uomo non può respirare; e nel respiro vi è la vita. Ci si pone quindi, nel mikvè, in una voluta, transitoria condizione di morte o, più esattamente, di sospensione della vita.
Un’altra interpretazione, di origine talmudica, è la seguente: tutta l’acqua del mondo trae le sue origini dai quattro fiumi che attraversano ed escono dal giardino dell’Eden. Questi fiumi sono l’unico collegamento rimasto fra questo nostro mondo e quel mondo in cui nacque la prima coppia umana. I fiumi dell’Eden sono parte della creazione originaria; e quindi, immergendosi nelle acque di un mikvè, è proprio con la creazione originaria che ci si pone nuovamente in rapporto (2).
Ma io mi chiedo ancora: l’intensità del potere simbolico dell’acqua – e tutta la sacralità che vi è connessa – trovano in ciò la loro unica, vera spiegazione? O non vi è forse qualcosa di implicito ma non di esplicitamente detto? Qualcosa che vada al di là? Al di là anche dei fiumi dell’Eden e di ciò che essi rappresentano?
Vorrei, qui, azzardare una mia ipotesi di fronte a questo interrogativo. Leggiamo in Genesi 1°, 2: “La terra era sterminata e vuota e lo spirito di Dio si librava sulla superficie delle acque”. In questo versetto noi incontriamo per la prima volta la parola acqua e per la prima volta incontriamo anche la parola Spirito: lo Spirito di Dio. Le troviamo insieme. Ma, successivamente, si legge ancora: “Sia una distesa in mezzo alle acque, che separi le une dalle altre. Dio fece la distesa e separò le acque che sono al di sotto della distesa da quelle che sono al di sopra di esse; così fu sera e fu mattino, un secondo giorno” (Gen. 1°, 6-8). Nel terzo giorno, poi, dalle acque di sotto vennero create la terra ed i mari. Leggendo attentamente questo passaggio, ci colpisce un fatto: dove sono andate a finire le acque al di sopra della distesa? Non ne sappiamo più nulla. Non se ne parla più. Poiché il cielo, il nostro cielo – in ebraico shamàyim (3) – è la distesa che è fra le acque. Al di sopra di questa distesa vi è, per noi, il mistero.
Le acque di sotto – cioè quella parte delle acque originarie che conosciamo – sono, stando al racconto biblico, un riflesso ed una complementarità delle acque al di sopra.
Ma lo Spirito di Dio aleggiò – all’inizio dei tempi – su tutte le acque: e per questo vi fu la creazione. Perché le acque al di sopra e quelle al di sotto, allora, furono insieme. E forse, con il rituale della immersione nell’acqua – se profondamente ed interamente vissuto – noi provochiamo una risposta, stabiliamo un contatto, creiamo una compartecipazione nelle sfere superiori, quasi un chiamarsi ed un rispondersi fra questo mondo in cui noi viviamo e che è fatto di terra ma anche di cielo ed un altro mondo che è solo Regno di Dio: le acque di sopra e quelle di sotto si uniscono allora di nuovo e questo è ciò che conduce ad una nuova creazione, che è la nostra rinascita.
Si è parlato, finora, del simbolismo dell’acqua in rapporto ai rituali di immersione. Ma questo stesso simbolismo non appartiene solamente al rito: esso è una profonda realtà nel divenire della psiche umana.
L’acqua è forse il più frequente, il più universale fra tutti i simboli dell’inconscio collettivo, e può apparire in una gamma infinita di situazioni oniriche. E’impossibile, qui, trattare questo tema dal punto di vista dell’inconscio, in modo compiuto.
Posso solo dire che tutto ciò che appare come prodotto della psiche ha un parallelismo inesorabile, sul piano simbolico, nel racconto biblico. Bisogna solo saper leggere fra i segni.
Le immagini oniriche sono la conferma vivente della realtà simbolica della Bibbia; ma, a loro volta, queste stesse immagini possono essere interpretate nella maggioranza dei casi anche, e forse solo, per noi, alla luce della simbologia biblica.
Così, ad es., l’esperienza di Giona, la sua trasformazione, le parole che egli rivolge a Dio dal ventre della balena, sono il paradigma di un processo umano destinato a ripetersi.
“Mi gettasti nella voragine, nel cuore dei mari, fiumane mi circondarono, tutti i Tuoi flutti e le Tue onde passarono su di me… Le acque mi circondarono fino a morirne, l’abisso mi accerchiò” (Giona 2°, 6).
Ma poi, per Giona, vi è tuttavia la salvezza perché “quando la sua vita stava per spirare si ricordò del Signore, la sua preghiera giunse sino a Lui”. Questo ricordarsi del Signore può assumere tante forme, nel destino dell’uomo: a volte significa semplicemente fare ciò che Dio chiede da noi. E questo è, molto spesso, il senso più profondo di una analisi.
Come nel caso di Giona, nei sogni l’acqua è a volte proprio un elemento di furia cosmica terrificante, distruttrice. La psiche può resistere e superare la prova, ma può anche essere sopraffatta e sommersa (4), sia pure transitoriamente.
L’acqua, nelle immagini oniriche, può essere quella del caos, o quella del diluvio. Nel primo caso è necessario non dimenticare che non vi può essere vera creazione se non si è attraversata l’esperienza del caos: questo è il rischio, il grande rischio, che va affrontato, ed a qualsiasi prezzo. Nel secondo, bisogna avere costantemente presente che, nel diluvio, vi può essere una parte della psiche che è come Noè, il giusto, che deve sopravvivere e dare l’avvio ad un nuovo inizio.
Le tematiche del caos e del diluvio sono perciò, com’è chiaro, profondamente connesse – anche se su livelli assai diversi – a quella della immersione.
Ma l’acqua può presentarsi in numerosissime altre immagini. Così, vi è la sorgente d’acqua viva, la fontana risanatrice, lo scaturire di uno zampillo con proprietà speciali. Oppure il viaggio sul mare, che esprime l’impresa densa di incognite di colui che prende contatto con il proprio inconscio: un viaggio che non si sa, il più delle volte, ove porti. Ma talora è il vento stesso a imporre la direzione: e se teniamo presente che, nel linguaggio biblico, vento e spirito sono una unica parola, il significato di questa immagine ci è chiaro, senza ulteriori spiegazioni.
Nell’impossibilità di fare anche un solo accenno a tutti gli aspetti simbolici dell’acqua, prima di ritornare a quello della immersione, vorrei ancora considerare qui il tema dell’attraversamento di un fiume: tema a cui spetta, indubbiamente, un posto molto particolare. In genere esso rappresenta un importantissimo momento di passaggio di fase: di transizione, cioè, da una precedente situazione ad una situazione nuova, rappresentata dall’altra riva.
Nella Bibbia abbiamo una tipica corrispondenza nel passaggio del Mar Rosso e, successivamente, in quello del Giordano: entrambi sono fra i momenti più decisivi nella storia del popolo d’Israele.
Mi soffermerò a rilevare un particolare che, se non considerato correttamente, può dare adito ad una interpretazione confusa sul piano simbolico. E cioè: il passaggio del Mar Rosso, come poi anche quello del Giordano, avviene all’asciutto. Anzi, il testo insiste proprio su questo punto, sottolineandolo. Qui è Dio stesso che interviene in modo attivo al fianco del popolo d’Israele, facendo ritirare le acque per aiutarne il passaggio di fase. Leggiamo in Esodo 14°, 22: ” E i figli di Israele entrano in mezzo al mare reso asciutto” (5).
A questo punto vorrei riprendere, ancora una volta, il tema del bagno rituale, per aggiungere alcune riflessioni.
Mi è stato dato di vedere numerosi sogni di immersione totale nell’acqua e, a quanto ho potuto notare, essi corrispondono sempre ad un momento di possibile, radicale trasformazione dell’individuo.
Non mi riferisco, ovviamente, ad immagini di lavacri in una vasca da bagno, o simili: sogni che possono anche essere importanti, ma solo a livello di purificazione, di pulizia da qualche cosa – ma certamente non di più.
Parlo, invece, di sogni di immersione nel mare, in una sorgente, nell’acqua viva. Si tratta qui di un segno che è contemporaneamente un evento, una realtà dello spirito in cammino.
Il sogno sa bene quali immagini scegliere: siamo soltanto noi che dobbiamo capirne il linguaggio; e questo linguaggio a volte è di una precisione sconcertante e dice cose che il sognatore, nella sua parte conscia, ignora completamente.
Ho visto, ad esempio, vari sogni in cui vi era una triplice immersione: non una o due, ma tre volte. Ci si deve chiedere, allora: perché proprio tre? Nella mikvè l’immersione è triplice poiché, come già dissi in precedenza, questa parola ricorre tre volte nella Bibbia come raccolta d’acqua.
Un’altra interpretazione del perché della triplice immersione è, poi, la seguente: il tre rappresenta il momento in cui passato, futuro e presente si concentrano nella attualità della esperienza. L’una e l’altra interpretazione, d’altronde, non si escludono.
Ora, ritornando indietro, dobbiamo ammettere che, in questi casi, le immagini dell’inconscio e della tradizione sono strettamente correlati. Vi è, cioè, un assoluto parallelismo fra i simboli che incontriamo esternamente, nel rito, e quelli che si sviluppano nella profondità della psiche, come tappe di un cammino individuale.
Qui si aprono allora due considerazioni: la prima di carattere più generale, la seconda più particolare.
Innanzitutto, quando il significato profondo viene perduto, quando il rito viene vissuto in modo meccanico, o ci si allontana da esso, ecco che l’anima sceglie ugualmente, a volte, una sua via per farlo rivivere. Questo, tuttavia, può essere valido per qualsiasi forma di rito.
Nel caso più specifico dell’immersione, io credo che dobbiamo invece tener presente un altro fatto. Il mikvè scandisce il succedersi di determinati momenti della vita.
Ma l’immersione nelle acque della rinascita, come fattore psichico, non è legato a date. Il cammino individuale non conosce giorni precisi, nè circostanze precise; ogni momento può essere quel momento: cioè l’attimo in cui noi siamo chiamati a tuffarci nelle acque dello spirito, pronti a morire ed a rinascere.
Ogni momento è il punto di confine fra un passato che non è già più ed un futuro che non è ancora: è quel momento presente in cui si concentrano tutte le potenzialità della nostra vita. E quel momento non fa più parte del tempo, ma si unisce a Colui che è al di là del tempo, al di sopra della distesa formatasi fra le acque nel giorno della Creazione.
(Estratto di un capitolo da: “Il Sogno di Giacobbe” Ed. Borla)
NOTE: (1) E’ interessante notare che, nei tre passaggi menzionati, questa terminologia compare in contesti sempre diversi e che, considerati tutti insieme, rappresentano il significato globale della immersione in una mikvè.
(2) Ciò spiegherebbe anche il perché è così essenziale che un mikvè sia costituito solamente da acque naturali.
(3) La parola shamàyim, ohna (cielo) può essere letta come l’azione di Dio – rappresentato dalla lettera shìn (a) – sulle acque (màyim, ohn); oppure, secondo altri esegeti, come unione di fuoco ed acqua. Le due interpretazioni, del resto, non sono affatto contraddittorie.
(4) Come avviene nella psicosi.
(5) Analogamente, in Giosuè 3°, 17: “I sacerdoti che portavano l’Arca del Patto del Signore saldamente stettero all’asciutto in mezzo al Giordano, mentre tutto il popolo attraversava all’asciutto”.
Mirjam Viterbi Ben Horin, residente a Gerusalemme, è laureata in Medicina e specializzata in Neurologia e Psichiatria all’Università di Roma. Psicoanalista junghiana si è dedicata in modo particolare allo studio dell’inconscio collettivo ebraico.