«Lamento di Portnoy» tra felicità e senso di colpa
Se dovessi conferire a un solo libro un merito particolare sulla mia vita, la scoperta di una lingua, una nuova possibilità di racconto, di un Io vergognoso e riprovevole che diventa il bene più prezioso dell’autore, del miglior materiale possibile da romanzo, ebbene, non potrei che parlare di Alex Portnoy. Spesso, quando si parla di un libro uscito anni fa si dice: «sembra scritto oggi», come se il presente letterario fosse migliore, più vendibile certamente di ogni tempo passato. Questo non si può dire del romanzo Il lamento di Portnoy , Portnoy’s Complaint , del 1969, perché ci sarebbe bisogno di nuovo della forza di Philip Roth, del suo burrascoso matrimonio con Margaret Martinson, che nella sua autobiografia I fatti , chiama Josie, dell’incontro con gli amici di Claire Bloom, May nell’autobiografia, la sua successiva compagna a New York, ai quali racconterà della propria famiglia ebraica sovrapponendo verità e caricatura e sperimentando una voce nuova che tenesse in equilibrio tutto. Lamento di Portnoy rappresenta un instante unico nella vita dell’autore e nella letteratura americana. Felicità e senso di colpa, sesso, donne, pornografia, masturbazione, un vorticoso monologo scritto con il solo intento di scoprire quanta umiliazione riesce a sopportare. Stampato clandestinamente in Australia perché definito osceno, e in uno scambio epistolare nel 1970 tra Roth e Valentino Bompiani, l’editore che portò il testo in Italia, Philip Roth scrive: «I still cannot give you permission to alter the text as your lawyers suggest» (Non posso ancora darvi il permesso di modificare il testo come i vostri avvocati suggeriscono ndr ), ma alla fine il romanzo esce nella versione integrale, e le millimetriche descrizioni del subbuglio ormonale del giovane Alex alla fine arrivano ovunque nel mondo.
Il racconto è articolato in sette capitoli e a tenere assieme il tutto non è la trama, ma la resina che l’autore deposita nelle frasi. È la lunga confessione di Alex Portnoy al suo psichiatra, il dottor Spielvogel, personaggio che compare anche nel suo romanzo La mia vita di uomo . Ma chi è veramente steso sul lettino, Alex Portnoy, Philiph Roth, l’America? Assistiamo a questa versione priva di contraddittorio, potenza della letteratura, di un narratore inattendibile che ingigantisce ogni cosa e che cammina sulle sabbie mobili. Alex attacca innanzitutto se stesso, poi gli ebrei, poi le donne e poi ricomincia. La parola che più ricorre è shikses , le ragazze non ebree che per Alex rappresentano la tentazione più grande, e poi i goy , invece tutti i non ebrei con le loro strane abitudini alimentari non kosher , che rappresentano gli altri, la vita possibile, più facile di quella ebraica che gli è toccata in sorte. C’è una famiglia asfissiante, un padre che lavora nel ramo delle assicurazioni e che rincorre i morosi perché paghino le quote, ma che anche ossessionato dalla stitichezza, da lunghissime sedute durante le quali non ottiene il risultato desiderato e il destino del suo intestino diventa la rappresentazione della sua vita: un uomo castrato dalla famiglia, che implora Alex di imparare a suonare il pianoforte nel tentativo di dare una possibilità che lui stesso non ha avuto da bambino, ma i sogni erotici di Alex sono troppo impegnativi per permettersi un diversivo su questa terra. Il sesso è la materia predominante perché è usata da Alex – Philip per imbrattare il mondo e sporcare quello che non può avere. E quindi i due uomini della famiglia Portnoy si contendono il bagno del loro appartamento, tutti e due per svuotarsi dai demoni che si portano dentro.
Il secondo capitolo inizia con: «Poi arrivò l’adolescenza. Trascorrevo metà della mia vita da sveglio chiuso a chiave in bagno». Una dichiarazione di guerra che trova una messa a fuoco migliore nell’incipit del terzo capitolo Malinconie ebraiche , quando Alex comincia a sentirsi accerchiato da qualcosa che continua a sfuggirgli: «A un certo punto, attorno al mio nono anno di età, uno dei testicoli decise evidentemente di averne abbastanza di vivere giù nello scroto e cominciò a farsi strada verso settentrione… A scuola cantavamo con la maestra Io sono il Capitano del mio destino, io sono il Pa drone della mia anima , e contemporaneamente, all’interno del mio corpo, uno dei miei pudendi scatenava un’insurrezione anarchica che io ero incapace di soffocare!… Mi stavo trasformando in una ragazza? Incredibile ma vero, nel New Jersey c’è un ragazzo di nove anni che è un ragazzo a tutti gli effetti, tranne che può avere bambini». Il registro scivola dal disperato al grottesco perché la scrittura resti sempre audace, sempre capace di superare la frase precedente. Nel capitolo Figomania Roth si svela: «Vede, secondo l’opinione della Scimmia (la sua fidanzata), la mia missione doveva consistere nel trarla fuori da quei medesimi abissi di frivolezza e vanità, perversione foia e lussuria, in cui io stesso avevo tentato invano di sprofondare per tutta la vita».
Roth è un argomento complesso che vede la sua forza creativa nei contrasti tra l’ebraismo della sua famiglia che vive a Newark, nella storia di suo padre che dopo il fallimento di una attività commerciale trova lavoro nelle Metropolitan assicurazioni, e quel sentirsi contemporaneamente dentro e fuori dalla società americana, troppo ebreo per gli americani o troppo poco ebreo per gli ebrei, fino alle accuse di antisemitismo che gli sono state rivolte dalla comunità ebraica. Ma Philiph Roth è un disseminatore di indizi. Le informazioni più suggestive sulla sua vita le ho trovate ne I fatti (Einaudi, 2013, Traduzione di Vincenzo Mantovani). Racconta l’inizio della sua vita da lettore prendendo in prestito i libri di suo fratello, poi gli anni dell’università e l’incontro con Maggy la sua ragazza fuori di testa che minacciava suicidi e inventava gravidanze, e che sposerà, perché Roth era abbagliato dalla sua grandezza drammatica, e come lui stesso dichiara: «Senza dubbio fu lei il mio peggiore nemico in assoluto, ma, ahimè, fu lei anche la migliore maestra di scrittura creativa che io potessi avere, specialista per eccellenza nell’estetica ultra-narrativa». Margaret sarà il modello che utilizzerà per scrivere Maureen ne La mia vita di uomo (Einaudi, traduzione Norman Gobetti), nel continuo gioco di richiami tra vita e narrativa. Come introduzione ne Il Lamento di Portnoy , Roth stesso ci consegna la chiave di lettura: «Atti di esibizionismo, voyerismo, feticismo, autoerotismo sono assai frequenti come conseguenza della moralità del paziente, tuttavia, né le fantasie, né le azioni si traducono in autentica gratificazione, ma piuttosto in un soverchiante senso di colpa». Qui è Roth che ci parla nel limbo metanarrativo che precede il racconto. Si mette a nudo prima di parlare di sesso, nudo con i vestiti addosso, autentico, come è sempre stato, e continua a essere così anche da quando è morto perché la verità non deperisce.
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