Rav Roberto Della Rocca
Capitava spesso nei pomeriggi di primavera e di estate, di vedere il Morè Moshè zz.l , che dalla sua casa a Testaccio si recava a pregare al Bet Ha Keneset maggiore, passeggiando lentamente, radendo il muretto dell’argine del fiume di Lungotevere Aventino, col suo sigaro in bocca e studiando il suo amato libro Netiv Binà di rav Jacobson (un commento alla Tefillà). Talvolta accanto a questo importante testo che lo ha accompagnato per il resto dei suoi giorni c’era anche il quotidiano L’Unità. Questa è l’immagine, che conservo del Morè Moshe zz.l, che condensa la dimensione di un Maestro romantico ed idealista, tra amore per la Torah ed Eretz Israel, e la ricerca di una società giusta caratterizzata da un’uguaglianza sociale che Moshè Sed interpretava anche nelle sue lotte politiche all’interno di quei partiti antifascisti di sinistra del dopoguerra.
Per me, oltre ad essere il mio Morè di Torah, non solo dentro le mura della scuola media, era una specie di zio, legato da una forte amicizia con mio Padre z.l che in tante circostanze costituiva per lui un punto di riferimento, un supporto in molte situazioni, soprattutto in quelle in cui non aveva grande dimestichezza.
Era cresciuto all’Orfanotrofio Pitigliani e al Collegio Rabbinico dove aveva trovato quel calore che non aveva potuto ricevere in famiglia. Raccontava spesso che nel giorno del suo diciottesimo compleanno, quando dovette uscire dall’Orfanotrofio per raggiunti limiti di età, non sapendo dove andare trascorse la prima notte sugli scalini proprio fuori dal Pitigliani: il portiere al mattino si accorse di lui e di nuovo l’istituzione gli offrì assistenza.
I ricordi di lui sono tanti, memorabili l’enfasi e il pathos che metteva pronunciando alcune parole e frasi della Torà e della Tradizione rabbinica, come se si immedesimasse nello stato d’animo di Moshe Rabbenu che le pronunciava e del popolo che le ascoltava.
Ha passato la sua vita sognando di stabilirsi in Eretz Israel per la quale nutriva una forma di amore romantico, intenso e armonico con la sua visione etica e sociale della Torà. Uno Shabbat mattina dell’estate del 1976, dopo la Tefillà passeggiando su Derekh Bet Lechem a Yerushalaim, mi raccontava con grande emozione i giorni della Guerra d’Indipendenza del 1948 nella quale si era arruolato come volontario ed era stato anche ferito, e del suo grande desiderio di stabilirsi lì dedicando il suo tempo allo studio della Torah.
Di lui conservo, tuttavia, anche ricordi meno gioiosi e di momenti cupi. Una volta durante un Moèd, mia madre zz.l sapeva che il Morè Moshè si era ammalato e così disse a me e al mio amico Settimio Pavoncello di andare nella sua casa in via Marmorata a portargli cibo e conforto. Fu in quella occasione, nel vedere il nostro Morè così solo e sconsolato, avvolto in una consumata coperta, che io e Semi uscendo da quella casa ci confessammo reciprocamente di aver capito quanto fosse fondamentale farsi una famiglia.
Sembrava un paradosso vedere un Maestro così tanto amato dai suoi numerosi e diversi discepoli, che al Bet Hakeneset si sedevano intorno a lui investendolo di tante domande a cui non lesinava mai risposte, sempre puntuali e mai banali, saperlo altrettanto solo e talvolta anche ignorato e messo all’angolo dai vertici comunitari di allora.
Ma anche se tutto questo lo amareggiava non poco il nostro Morè non si è mai arreso e con la sua consueta umiltà non ha mai smesso di studiare e di insegnare, tanto che appena andò in pensione dalla CER accettò di buon grado la proposta di Rav Shalom Bahbout, allora direttore del Dac, di recarsi settimanalmente a Bologna a tenere lezioni per gli ebrei di quella Comunità. Già malato e provato da quelle trasferte, che 40 anni fa non erano agevoli come oggi, si sentiva tuttavia realizzato nel continuare a svolgere la sua missione. Lo vidi l’ultima volta all’ospedale dove gli dissi che stavo per partire per il servizio militare e mi dette la sua benedizione. Nella storia della nostra Comunità il Morè Moshè zz.l è uno di quei Maestri che più rimpiangiamo perchè hanno saputo incarnare un sapere, che non smettiamo di ricordare non tanto per ciò e per quanto ci hanno insegnato, ma per come ce l’hanno insegnato. Per avere trasmesso quell’amore per lo studio che è stato e che resta per noi uno stile e un modello. Per aver fatto nascere in noi curiosità, conoscenza ed esperienza viva.
Caro Morè “bel ciccione innamorato…” (erano le parole che indirizzava, assieme al pizzicotto, ai suoi allievi più affezionati), che la tua anima possa essere sempre legata al fascio della Vita Eterna…