Claudio Procaccia
Breve storia della famiglia Piazza o Sed
Morè (maestro) Moshè (Mario all’anagrafe comunitaria) Piazza o Sed nacque il 13 luglio del 1917 da Samuele e Aurora Zarfati, in una famiglia relativamente numerosa per l’epoca (nella Dichiarazione di appartenenza alla razza ebraica del 1939 sono registrati cinque figli della coppia), tipica delle classi meno abbienti della Roma ebraica dell’epoca che ancora risentivano fortemente del retaggio del ghetto. Come risulta dal censimento ottocentesco presente nell’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma ASCER). il padre, nato nel 1865, proveniva da una famiglia di venditori ambulanti di abiti vecchi e lasciò presto la famiglia. Infatti morì nel 1924 a soli 59 anni. Il nonno di Morè Moshè, Abramo (nato nel 1840), al 1886, aveva avuto dalla moglie Allegra Di Veroli (di professione cucitrice) dieci figli. I Piazza o Sed erano frequentatori della Scola Castigliana (una delle cinque sinagoghe del ghetto). Abramo era figlio di Samuele (nato presumibilmente alla fine del Settecento e morto in data ignota) e di Rosa (cucitrice, nata nel 1802 e morta nel 1876).
Infine, come annotazione, va rilevato che il cognome Piazza o Sed è un fenomeno singolare che riguarda la storia di molte famiglie ebraiche di Roma che si chiamino oggi Piazza oppure Sed. Altre hanno si chiamano ancora Piazza o Sed e anche Sed o Piazza”.
L’uomo e il maestro nelle memorie di chi lo ha conosciuto
Rav Abramo (Alberto) Funaro lo ricorda come “il Morè” per eccellenza, con una grande capacità di coinvolgere i ragazzi ed impartire loro le basi dell’ebraismo. “Un uomo buono nonostante una vita difficilissima caratterizzata dalla profonda povertà. Cresciuto in un orfanatrofio poté, in seguito, iscriversi al Collegio Rabbinico che gli diede una formazione ebraica molto importante e lui, nel tempo, si dimostrò un vero studioso.
Sul piano personale il rabbino Angelo Sonnino, manigh [conduttore] del beth hakneseth [sinagoga] spagnolo, ebbe un ruolo fondamentale nella vita di Morè Moshè. Per lui fu maestro e fratello.
Andò a combattere per la difesa del neonato Stato d’Israele e fu perfino ferito [dall’anagrafe comunitaria risulta partito nell’agosto del 1948]. Tornato a Roma riprese la sua funzione di rabbino e fu manigh dell’Oratorio di Castro.
In ogni luogo da lui frequentato ha lasciato un’impronta; riusciva a coinvolgere tutti i membri della comunità con cui veniva in contatto e che rappresentavano la sua famiglia. Infatti, non ebbe modo di sposarsi e non ebbe figli. Purtroppo, è morto non ricordato come avrebbe meritato”.
Marco Sciunnach, già rappresentante di calzature da bambino, nel 2014, in occasione del centenario dell’inaugurazione dell’Oratorio di Castro, mi parlò di Morè Moshè del quale, sino a quel momento, non avevo mai sentito nominare. “Fu il mio maestro alle scuole elementari e al mio bar mitzvah [il passaggio all’età adulta dal punto di vista ebraico], tra la metà degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo. Una figura di riferimento fondamentale per me che provenivo da una famiglia non molto osservante dei precetti ebraici. Con una straordinaria dolcezza mi fece comprendere le basi dell’ebraismo e se io oggi rispetto alcune delle regole fondamentali ebraiche è grazie a lui. Era un uomo di una sensibilità unica. Non l’ho mai visto inquieto.
Cesare Terracina (docente di Storia dell’Arte presso la scuola ebraica di Roma “Renzo Levi” e divulgatore della storia ebraica). “Morè Moshè mi ha insegnato la caratterista più importante di un vero studioso: l’umiltà. Sapeva spiegare la Torà [il Pentateuco] con semplicità ma con una forte partecipazione umana. Molti ebrei di Roma lo consideravano una sorta di padre. Un uomo schivo che non amava partecipare alle grandi cerimonie pubbliche.
Per alcuni versi sono stato una sorta di suo “piccolo segretario”. In quel ruolo informale ho scoperto un uomo pio che svolgeva il suo compito di rabbino con grande consapevolezza. A lui devo la scoperta del grande filoso ebreo Abraham Joshua Heschel. Nonostante la sua enorme cultura, era il rabbino di ghet [dell’area dell’ex ghetto, dove fino agli anni Settanta/Ottanta del Novecento vivevano molti degli appartenenti alla classe popolare ebraica]. Mi ha fatto capire l’importanza della compartecipazione, il coinvolgimento diretto con i ragazzi della scuola. È l’insegnamento che cerco di mettere in pratica ogni giorno”.