L’ebraismo veniva dal padre, ebreo laico e fervido sostenitore dell’industria e del socialismo, che leggeva la Bibbia tutte le sere, il cristianesimo dalla madre, di confessione valdese.
“Adriano Olivetti, un italiano del Novecento” di Paolo Bricco (Rizzoli) ricostruisce la figura di uno dei protagonisti dell’Italia del secolo scorso. Un libro di grande valore, frutto di un impegno decennale, documentato, denso e profondo. E complesso, non soltanto perché, come suggerisce il titolo, giustamente proietta la figura di Olivetti sullo sfondo della storia italiana, dagli ultimi decenni dell’Ottocento – partendo da Camillo, padre di Adriano – per arrivare all’ultimo giorno di vita del protagonista, il 27 febbraio 1960, ma per la vastità e complessità di questa figura. A poche persone come Adriano Olivetti si addice l’aforisma di Walt Whitman «Sono vasto, contengo moltitudini». Bricco riesce a rappresentarci queste moltitudini, ce ne fa cogliere il fascino e il ruolo storico, pur senza la minima debolezza agiografica.
«Adriano e il cristianesimo che lui sceglie. Adriano e l’ebraismo nella cui assenza lui è immerso. Adriano e la spiritualità che si genera dal rifiuto – nel pensiero e nell’esperienza – della violenza della modernità, così forte da sfigurare il volto e da ledere la dignità dell’uomo. La vita di Adriano ha appunto tre fuochi: la famiglia e l’educazione, il passaggio dall’agnosticismo al cristianesimo e una naturale pulsione sincretista e combinatoria in grado di connettere elementi diversi, di unificare spinte interiori al limite del misticismo con progettualità insieme messianiche e ultrarazionaliste che, appunto, si incubano, si generano e allo stesso tempo si oppongono alla modernità del suo tempo». Queste le coordinate spirituali di Adriano Olivetti descritte da Bricco (p. 275). L’ebraismo veniva dal padre, ebreo laico e fervido sostenitore dell’industria e del socialismo, che leggeva la Bibbia tutte le sere, il cristianesimo dalla madre, di confessione valdese. Lungo questa coordinate si è sviluppata la vita di Adriano, industriale di successo, riformatore sociale, politico fallito.
La Olivetti è stata un’industria metalmeccanica, con una cultura industriale radicata nel fordismo e nel taylorismo nella quale Adriano ha immesso una visione umanistica, in parte ispirata dal pensiero di Jacques Maritain e, in fondo, fedele al pensiero del padre socialista. La fabbrica e la tecnologia dovevano essere al servizio della persona.
«La fabbrica di Ivrea pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non vi sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta». In queste parole, pronunciate da Adriano nel suo discorso all’inaugurazione del nuovo stabilimento Olivetti a Pozzuoli nel 1955 si trova il significato profondo delle due componenti dell’identità Olivetti, l’attenzione al sociale e all’estetica. La bellezza dei prodotti come delle fabbriche, dei negozi, delle case per i lavoratori non era aggiuntiva né strumentale, di certo è stata uno dei fattori del successo commerciale dell’impresa ma era radicata nella visione che Adriano aveva della fabbrica e della società. Estetica e tecnologia erano viste al servizio dell’impresa e della comunità.
Il concetto di comunità guida l’azione di Adriano durante e dopo il fascismo. E spiega la sua adesione al fascismo, che non è stata soltanto strumentale, difensiva. «Adriano ha un atteggiamento di adesione neutrale o di consenso passivo alla dimensione politica del fascismo. È un imprenditore. Fa gli interessi della sua azienda. Gioca su più tavoli con la pubblica amministrazione. Opera in un’economia in cui il protezionismo è la vera ragione prima di ogni estremizzazione autarchica e in cui la concorrenza è ridotta al minimo dall’influenza della politica e dai corpi dello Stato (…) Adriano inserisce la fabbrica all’interno dell’organicismo e del corporativismo che le élite intellettuali e politiche del regime elaborano (…) «Tutto questo non è casuale. Non è episodico. Il pensiero di Adriano è organico al corporativismo. Adriano ha una funzione precisa: inserire la fabbrica all’interno della visione fascista dell’industria, che a sua volta assorbe e rimodula le istanze del fordismo e del taylorismo, dell’organizzazione scientifica del lavoro e della fabbrica quale perno della modernità» (pag. 123).
Crollato il fascismo Adriano cerca di inserire il suo concetto di fabbrica e di comunità nel nuovo contesto democratico e di libero mercato, elaborando un pensiero in cui si fondono religione e politica, società ed economia. Un pensiero esplicitato nel discorso di Pozzuoli, in cui a un certo punto afferma che il suo tentativo è quello di «creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna».
Un pensiero che avrà uno straordinario successo industriale e commerciale, produrrà un radicale miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori della Olivetti ma non riuscirà a tradursi in efficace azione politica come era nella visione di Adriano.
Anche la bellezza degli edifici la cui progettazione l’imprenditore ha affidato ad architetti come Gardella, Figini, Pollini, Cosenza è da mettere in relazione a una concezione sociale che Adriano anticipa negli anni Trenta e riformula successivamente.
Il libro di Bricco riesce a mettere in luce filoni anche poco conosciuti della singolare vicenda storica e di vita di Adriano, come per esempio la comunanza con Bobi Bazlen, l’ispiratore della casa editrice Adelphi. L’autore ci riporta un elenco di nomi di autori e titoli di opere molto interessante che mostra connessioni e intrecci significativi.
Infine, uno dei temi più ricorrenti quando si parla di Adriano Olivetti e della sua azienda è il mancato decollo dell’elettronica italiana. Un fenomeno che ha fatto coagulare intorno a sé nostalgie, rimpianti e anche dietrologismi. Il libro di Bricco termina con la morte del protagonista, ma nel capitolo “Adriano dopo Adriano” e anche nelle pagine precedenti dove si danno indicazioni sulla gestione della società da parte della famiglia Olivetti ci fornisce la chiave per interpretare la vicenda.
È vero, Adriano già negli anni Cinquanta aveva dato carta bianca al fratello Dino e al figlio Roberto per il primo sviluppo della grande elettronica, e a un certo momento la Olivetti ha potuto vantare due autentici primati mondiali: il primo computer desktop al mondo, chiamato P101, e la prima macchina per scrivere elettronica (la ET101). Ma, a parte la morte accidentale di Mario Tchou che aveva intuito la necessità di sostituire nei calcolatori la meccanica con i transistor, la Olivetti si era indebolita finanziariamente per errori strategici dei suoi azionisti e non aveva mantenuto una presenza negli Usa sufficiente a partecipare al decollo dell’elettronica. L’intuizione non era diventata «un approccio sistemico», nota Bricco, per una duplice ragione: «La specializzazione produttiva definita e scelta dalle élite politiche, economiche e culturali del tempo non contempla l’elettronica che è troppo agli albori per essere colta nella sua forza dirompente ma invece privilegia l’automobile, la chimica e la meccanica. Nel 1964, quando a quattro anni dalla morte di Adriano la Olivetti verserà in condizioni finanziarie di dissesto, durante i negoziati del gruppo di intervento coordinato da Mediobanca, un uomo duro e risoluto come il Vittorio Valletta amministratore delegato della Fiat definirà l’elettronica “un neo da estirpare”».
L’incomprensione, se non l’ostilità, verso l’elettronica del resto era forte anche all’interno dell’Olivetti dove, osserva Bricco, dirigenti e operai erano attaccati all’anima “meccanica” dell’azienda. Insomma, non c’è nessun mistero nel fatto che l’Italia non è la California.
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