La nostra parashà inizia con le parole “Vajelekh Moshè – e andò Moshè“. I commentatori spiegano dicendo che questo passaggio è assai oscuro, per due ragioni: 1) il testo dice: “e andò Moshè” senza specificare altro; dove andò Moshè?
Ibn ‘Ezrà (maestro spagnolo – Tudela 1089 – 1167) spiega che andò di tribù in tribù ad accommiatarsi con loro dicendogli che lui sarebbe morto e che al suo posto Jehoshua li avrebbe condotti alla conquista del paese.
2) Chi ha rivelato a Moshè il giorno della sua morte, cosa che a nessun uomo è dato di conoscere? (Talmud – shabbat 30a)
Nello Zohar infatti, si dice che: quaranta giorni prima della dipartita da questo mondo, le anime degli Zaddikim, si recano nel ‘olam ha ba, per conoscere la loro collocazione.
A nessuno però è dato conoscere il momento esatto in cui questo avviene.
Moshè quindi non conosceva il “suo giorno”, ma secondo ciò che D-o gli aveva detto, era conscio che quel giorno si sarebbe avvicinato a breve. In previsione del giorno di Kippur, dobbiamo aver presente la nostra pochezza di uomini e comprendere che, come insegnano i Maestri della mishnà: “questa vita è una sala d’aspetto; preparati ad entrare nella sala del banchetto” (Pirké avot 4;16).
La partenza per una sana e onestà teshuvà, è proprio quella di renderci conto di quanto la vita sia breve e dedicarsi al meglio ad aiutare il prossimo, ponendolo nella stessa nostra condizione di vita.
Moshè aveva ricevuto molti affronti, sia dai singoli che dal popolo intero e, nonostante tutto, prima di morire si reca da ognuno di essi, per salutarlo ed esprimere sentimenti di pace. La teshuvà infatti, prevede che, prima ancora di confrontarsi con il Signore D-o e chiedere a Lui perdono, ci si riappacifichi con il proprio prossimo, in modo che, nel momento in cui siamo tenuti a dar resoconto delle nostre azioni, possiamo affermare di essere in pace con nostro fratello.
Shabbat Shalom