Devarim, è la parashà che dà inizio all’ultimo libro della Torà che, secondo la tradizione dei Settanta, è altrimenti detto Deuteronomio.
Il libro contiene una serie di ammonimenti che Mosè fa al popolo prima di morire e prima che il popolo faccia ingresso nella Terra di Israele.
“Echà essà levaddì torchakhem u massaakhem ve rivekhem – Come posso sopportare da solo la vostra petulanza, il vostro peso, le vostre contese“. Questo è ciò che Mosè riferisce al popolo di aver già a suo tempo lamentato a D-o, riguardo al comportamento del popolo stesso.
“Echà hajetà le zonà kirià neemanà, meleatì mishpat zedek jalin bah veattà merazzechim – Come può essere divenuta prostituta, la città degna di fiducia, dove in essa abitava la giustizia ed ora è piena di omicidi?” Questo è ciò che il Profeta Isaia, circa cento anni prima della grande tragedia della distruzione del Tempio diceva al popolo che si stava allontanando dall’osservanza della Torà e che prima o poi, sarebbe andato in malora.
” Echà jashevà badad ha ir rabati am, hajetà ke almanà rabati ba goim – Come è possibile che sia abbandonata come una vedova la città, che una volta era colma di popoli”. Questo è ciò che il Profeta Geremia si chiede nell’assistere personalmente alla tragedia dell’invasione dei babilonesi, alla conseguente distruzione del Tempio ed alla deportazione del popolo.
Tutti e tre i grandi Profeti del popolo ebraico, Mosè, Isaia e Germania, usano l’espressione “echà” per descrivere le conseguenze del cattivo comportamento del popolo, che lo porta alla sua rovina.
Echà è infatti il nome del libro delle lamentazioni, attribuito al Profeta Geremia, che viene letto sia la sera che la mattina di tishà be Av. In esso sono narrati i crudi eventi che precedono e seguono l’invasione di Gerusalemme.
Dal tramonto di Lunedì sera, fino all’uscita delle stelle di Martedì, noi Ebrei digiuneremo e piangeremo per le tragica sorte occorsa al nostro popolo ad opera dei babilonesi prima e dei romani dopo.
Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che sono ormai trascorsi tremila anni circa dalla prima e duemila dalla seconda distruzione; oggi esiste Gerusalemme capitale dello Stato di Israele, unica ed indivisibile, e ancora piangiamo e digiuniamo per la sua rovina?
Nel corso di oltre tre millenni di storia, il nostro popolo è sopravvissuto a numerosi tentativi di annientamento, scampando a persecuzioni indicibili, da quelle degli egiziani alla Shoah, dai Babilonesi ai Pogrom nei paesi dell’Europa orientale, dall’Inquisizione ai Ghetti etc.
Nonostante tutto ciò, non si è mai interrotta la preghiera a Dio, di riunirci dai quattro angoli della terra, ricondurci in Israele e ricostruire il Tempio.
La condizione di noi ebrei, sia della Diaspora che di Israele, può essere considerata sempre di precarietà, appesa ad un filo, tenuto però da noi stessi. È da noi infatti, che dipende la nostra condizione di vita, nello stesso modo di come avvenne al tempo della distruzione dei due Templi.
Si racconta infatti, che il primo Tempio fu distrutto a causa della trasgressione delle mizvot, mentre il secondo a causa della lashon ha rà – la maldicenza e l’odio gratuito.
Questi sono atteggiamenti che possono manifestarsi in ogni momento e nessuno può garantire che possano non ripetersi simili condizioni.
Il digiuno e il lutto che facciamo nel periodo, chiamato “ben ha mezzarim” che va dal 17 di Tamuz al 9 di Av e che si intensifica gradualmente, fino a culminare con la settimana in cui cade il 9 di Av, ha la finalità di farci riflettere e, in un certo senso provare sulle nostre persone, ciò che hanno potuto provare i nostri padri, in quei momenti così bui della nostra storia.
Il termine “taanit”, tradotto per comodità “digiuno” significa in realtà “umiliazione”. La condizione psico-fisica in cui noi ci troviamo quando non mangiamo, non beviamo, non possiamo lavarci, profumarci, indossare abiti o calzari dignitosi e nemmeno poter godere dell’intimità coniugale, ci porta ad auto considerarci come in un certo senso “prigionieri” di una condizione particolare.
La stessa condizione vissuta da coloro a cui viene tolta la dignità di essere umano. Per far sì che questo non si ripeta noi dobbiamo riflettere su ciò che è stato, e considerarci tutti sottoposti allo stesso rischio; dobbiamo soprattutto tener presente l’unità di popolo e la nostra identità per non contribuire al male che già tanto abbiamo subito da parte dei nostri nemici.
Viceversa, abbiamo il dovere di aiutare il prossimo e ancor più nostro fratello, cercando di farlo vivere nel benessere proprio come noi viviamo. Dobbiamo essere l’esempio positivo da seguire per gli altri popoli, per non cadere nel tranello di far fare a chi ci odia …di tutta un’erba un fascio. Soltanto in questo modo siamo sicuri di aver fatto il nostro dovere e garantire il futuro del popolo che prende il nome dal nostro antenato Jaakov, degno di essere chiamato Israel.
Concludo con una frase dei Profeti di Israele che dice:
“Chi fa lutto per Gerusalemme è meritevole di vederne la sua ricostruzione”.
Shabbat shalom