Dalla nuova rivista ebraica Turim
Ilana Bahbout
Cosa vuol dire pensare ebraicamente? “In quanto ebrei” questa domanda sorge e ci insegue lungo l’arco della nostra vita, in maniera consapevole o inconsapevole, come sottofondo del nostro agire e pensare quotidiano o manifestandosi improvvisamente, anche solo come monologo interno, in circostanze inaspettate. È una domanda apparentemente semplice, comune, ma così complessa, a volte addirittura odiosa e imbarazzante, al punto di metterci facilmente in crisi perché ci catapulta in una miriade di altre domande e ci impone di fare i conti con un’identità tutt’altro che definita e monolitica.
Arriva sempre un momento in cui “il mondo” ci chiede di dire qualcosa, nostro malgrado, “in quanto ebrei”: a scuola, a lavoro, quando viaggiamo, leggiamo i giornali o un libro, di fronte a una domanda di un amico… E mai come oggi ci si può sottrarre a questo appello, in un tempo e in una società in cui gli ebrei sono chiamati a dire la loro, senza il ricatto di un’Inquisizione.
E quindi cosa vuol dire pensare ebraicamente? Cosa vuol dire porsi come ebrei di fronte ai problemi che il mondo ci offre ogni giorno? Forse significa pensare cosa sia giusto o sbagliato, permesso o proibito, incluso o escluso rispetto a quell’insieme di norme, usi e cultura che chiamiamo “tradizione ebraica”? Mhm… non credo, no; ma rispondere non è facile. E infatti, fermiamoci un attimo.
Ancora prima della risposta, facciamo un passo indietro e rimaniamo sulla domanda. Cosa significa “pensare” “ebraicamente”? E che senso si danno a vicenda i due termini?
Pensare è prima di tutto un modo di porsi, un rapporto rivolto alle cose e agli eventi che incontriamo, è aprire uno spazio a una domanda che riguarda qualcosa. Rimaniamo qui allora. Pensare non è incasellare, etichettare e guardare all’altro come qualcosa cui dare una definizione, da comprendere immediatamente dentro le proprie categorie, ma è prima di tutto un relazionarci; pensare somiglia molto di più a quell’atto che si esprime in quella formula talmudica così familiare, vitale e quasi divertente del de salka datach ovvero “se ti salta in mente”, espressione che indica concretamente l’incontro originario con una cosa e un problema che si pongono sempre come esterni e catturano la nostra attenzione.
Pensare diventa allora relazionarci e fare spazio, stare con il problema e attendere le sfumature, le luci e le ombre che questa nuova conoscenza può assumere, per porci solo successivamente la domanda di quale posto assumano queste relazioni con la varietà dei discorsi rabbinici e con il codice normativo tradizionale.
Così è nella Mishnà, dove i rabbini si chiedono via via come i singoli casi vadano pensati rispetto alla legge. Un esempio significativo è quello dell’androghinos di cui si discute il fatto se abbia l’obbligo, come l’uomo, di recare le primizie al tempio di Gerusalemme, avendo una sessualità non definibile (se sia maschio o femmina o addirittura un terzo genere): alla fine i rabbini decidono che questi le debba portare senza leggere la “dichiarazione delle primizie”. Questo esempio, per certi versi anche attuale, mostra quanto siano presenti tutti gli elementi: la legge data e i casi reali ai quali i rabbanim non si sottraggono e che, pensandoli, accolgono in uno spazio.
E di fatto, nella nostra quotidianità, come si può tradurre questo modo di porsi? Forse prima di tutto nel sospendere, anche solo per un attimo, il nostro giudizio di fronte ai singoli quesiti, nell’accantonare le formule codificate che derivano da esperienze già date, nell’andare oltre gli stereotipi immaginari e scavalcare quella logica degli insiemi chiusi da cui si è esclusi o inclusi e con cui il tutto e il particolare vengono inglobati in una conoscenza onnicomprensiva, dove tutto torna o lascia fuori. Secondo questa modalità ha pensato chi ha fatto dell’antisemitismo una declinazione del proprio pensiero, agendo secondo pregiudizi e stereotipi e dando voce alle immagini di un ebreo fantasticato e inesistente, falsificando la storia perché incapace di porsi in ascolto.
Così, seguire la logica delle coordinate del dentro o fuori e dalle definizioni prive di uno spazio relazionale originario, significa far prevalere, a mio avviso, la logica di chi ci ha voluto opprimere, quella di un “ghetto” da cui siamo sopravvissuti grazie alla nostra ricchezza e di cui giustamente ricordiamo e portiamo le ferite, ma dalla cui interiorizzazione dobbiamo fuggire, se non vogliamo che diventi un modello operativo che porti alla devitalizzazione.
Come ebrei dovremmo far sì invece, per usare un gergo di Lévinas, che l’altro rimanga altro, almeno per quel tanto che ci possa indurre a pensare, ovvero a creare uno spazio di attesa, di curiosità, di domanda, prima ancora del dialogo e in cui riconoscere e percepire l’altro come semplice esistente cui volgiamo il nostro ascolto. Un ascolto insomma fatto di attese e per questo, per dirla biblicamente, senza immagini. Comparirà allora una realtà diversa con cui fare i conti di volta in volta.
Proprio così, una realtà: una realtà in carne e ossa, che parla, sussurra, urla, ride, piange, gioisce, soffre, è silente, ci guarda… e che per questo, in virtù di questa vitalità, si scopre nella sua molteplicità e incredibile rivelazione!
Approcciare senza immagini al pensiero e alla conoscenza, facendo così risuonare anche uno dei dieci comandamenti, diventa allora una grande ricchezza, tutt’altro che inutile.
E se da semplici profani curiosi andiamo a vedere bene, la Torà e il Midrash ci narrano questa ricchezza attraverso le vicissitudini del rapporto tra D-o e il popolo ebraico: un rapporto che si costruisce su domande, promesse, silenzi e incertezze, e dove difficilmente è possibile riconoscere un percorso predefinito e ideale.
In queste narrazioni, a manifestarsi è prima di tutto il prezzo e lo sforzo che chiede la relazione: il volgerci all’altro senza direzioni predefinite, senza una legge che già si conosce. Queste storie raccontano sempre dei cambiamenti, delle dinamiche inaspettate in cui difficilmente il punto di arrivo è analogo al punto di partenza e dove anche le idee e i desideri pensati, immaginati ed espressi da D-o, se così si può dire, dovranno spesso fare i conti con i limiti e le qualità di quell’uomo che in quel momento e in quel luogo si trova a incontrare. Così D-o discute con Abramo circa le sorti di Sodoma e, con Mosè, sembra cambiare idea più volte sull’opportunità di mandare una piaga; pone il Tabernacolo come risposta al vitello d’oro, ascoltando un bisogno del popolo che chiedeva una maggiore presenza; concede, sotto richiesta, l’elezione di un re d’Israele ai tempi di Samuele e così via.
Storia, legge e identità ebraiche si trovano così a costruirsi in questo rapporto fatto di aspettative e richieste, le quali tentano un punto di incontro in uno spazio intermedio.
Spero allora che in questa rivista come già altrove, approdi questo spirito e che, tra incontri e scontri, si possa aprire quello che ho chiamato, pensando ebraica-mente, un ascolto senza immagini.
Turim è il bimestrale della Touro University Rome
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