“Queste parole che oggi ti ordino saranno sul tuo cuore, le inculcherai ai tuoi figli e ne parlerai con loro, quando stai a casa e quando cammini per la via, e quando ti corichi e quando ti alzi ” (Devarim 6:6-7).
Sono le parole notissime del primo brano dello shemà’ , dalle quali si deduce tra l’altro l’obbligo quotidiano di recitazione dello stesso brano. La tradizione rabbinica privilegia la spiegazione della scuola di Hillel che evita un’interpretazione troppo letterale del testo e intende l’espressione “quando ti corichi e quando ti alzi” nel senso di un’indicazione di orario: “nel momento in cui al gente si corica (cioè la sera) e nel momento in cui si alza (cioè al mattino)” (Berakhot 10b nella mishnà). Quindi lo shemà’ va letto due volte al giorno in una fascia di orario ben precisa e una volta adempiuto a quest’obbligo non ci sarebbe la necessità di leggerlo nel momento in cui ci si corica. Tuttavia il Talmud (Berakhot 4b-5a) ripropone l’obbligo in questa forma:
Rabbi Yehoshua ben Levi disse: anche se una persona ha letto lo shemà’ in Sinagoga la sera, ha l’obbligo ( mitzwa ) di recitarlo a letto.
Rabbi Yose spiegava qual’ è il verso di riferimento: ‘Tremate e non peccate, dite (parlate) nel vostro cuore sul vostro giaciglio e rimanete in silenzio’ (Salmi 4:5).
Rabbi Nechemia disse: se è un rabbino ( talmid chakham ) non ne ha bisogno (Rashi spiega: perché è una persona che è abituata a ripetere continuamente quello che ha studiato).
Abbaye disse: anche un rabbino deve recitare un verso in cui c’è una richiesta di misericordia, come ad esempio ‘in mano tua affiderò il mio spirito, mi hai riscattato Dio di verità'(Salmi 31:6)
Da questa serie di affermazioni si deduce che la lettura dello shemà’ a letto adempie al ruolo di accompagnare chi si addormenta con parole di Torà e che oltre a questo esprime la necessità di chiudere la giornata di veglia con una breve invocazione di misericordia. Da qui lo sviluppo di un breve formulario da recitare, la cui istituzione è codificata nello Shulchan ‘ Arukh Orach Chayyim 239. I brani che lo compongono (presenti nei differenti riti con varianti di ordine e testi) sono solitamente:
• Una benedizione al Signore che “fa cadere i lacci del sonno sui miei occhi, e il sonno sulle mie palpebre ( hamappil chevle shenà …)”; la benedizione dice il contrario di quella che si recita la mattina al risveglio (“che rimuove i lacci del sonno dai miei occhi); la benedizione compare nei formulari completa di shem umalkhut, il nome divino e la menzione della sua regalità ( melekh ha’olam ), ma decisori successivi preferiscono omettere queste menzioni (perché solo la benedizione del mattina sarebbe quella autentica)
• Una serie di invocazioni perché il sonno sia tranquillo e senza incubi, e di versi rassicuranti.
• Il primo brano dello shemà’ ; alcuni suggeriscono la lettura di tutti e tre i brani, in particolare se la tefillà di ‘Arvith è stata fatta in Sinagoga in un orario anticipato rispetto al sorgere delle stelle.
• Il Salmo 91 ( yoshev beseter ‘elion ) con il verso che lo precede ( wyhy no’am ). E’ lo shir shel pega’im ( o shel nega’im), il salmo protettivo per eccellenza, che protegge da ogni male e in particolare al verso 5 dice di “non temere della paura notturna” (l’espressione pavor noctis , usata anche in medicina, deriva probabilmente da qui).
• La preghiera dell’ Hashkivenu (“facci coricare in pace…”) che si recita già ad ‘Arvith, e si ripete qui senza la benedizione finale.
• La frase proposta da Abbaye “in mano tua affiderò il mio spirito” inserita in una serie di benedizioni e citazioni. Nel testo che si pubblica qui (e che segue l’opinione dello Shulchan ‘Arukh ) riprende l’ultima parte della benedizione che si recita ad ‘Arvith prima del kaddish che precede la ‘amidà.
• Il salmo 128 ( ashre kol yere ); altri preferiscono il salmo 121 ( esà enai el heharim ).
• La benedizione sacerdotale.
Lo scopo di tutte le mitzwot è quello di santificare ogni momento della vita. La lettura dello shemà’ a letto, accompagnata da benedizioni e versi rassicuranti si inserisce con la sua particolarità in questo programma, per dare un senso finale di kedushà (sacralità) e serenità agli ultimi momenti di veglia quotidiana.