L’ arte a cui ci riferiamo qui è quella che ha trovato la sua espressione nella cultura occidentale, mentre la halakhà, cioè la normativa ebraica, comprende le regole che hanno trovato la loro espressione nei testi classici della giurisprudenza ebraica. Bisogna peraltro tener conto che la norma spesso ha finito per accettare comportamenti che pur non essendo considerati conformi alla regola, venivano ammessi in quanto di fatto erano entrati nel costume e nell’uso comune.
Nell’arte possiamo individuare due categorie che riguardano la halakhà:
a) La costruzione del Santuario (il Tabernacolo nel deserto e il Tempio di Salomone);
b) L’abbellimento degli oggetti che hanno a che fare con il culto.
L’architettura si trasforma in una mitzvà – un precetto positivo – quando si parla della costruzione del Tempio e l’artigianato acquista un significato religioso, quando viene applicato alla tessitura e al ricamo degli oggetti usati nel Santuario.
La fonte fondamentale in cui la Halakhà definisce l’attività artistica è la seguente:
“E’ stato insegnato: “questo è il mio Dio ed io lo abbellirò” (Esodo, 15: 2) – renditi bello di fronte a Lui quando esegui i precetti, fai una bella Capanna, fai un bello shofar (corno di ariete), un bel Talleth (vestito a frange per le preghiere), un Sefer Torà bello e scrivilo con del bell’inchiostro, con una bella penna, fallo scrivere da uno scriba esperto e rivestilo con della bella seta” (shabbath 133b).
L’hiddur mitzvà (eseguire un precetto in un modo estetico) può essere considerato una legge della Torà oppure una legge di origine rabbinica: tuttavia, in ogni caso, dal punto di vista della cultura occidentale, la applicazione della norma limita le azioni che all’uomo sono consentite nel campo dell’arte. In particolare in Italia, Paese in cui per tradizione e per cultura l’arte e il bello hanno sempre avuto un notevole peso, gli oggetti liturgici e le Sinagoghe spesso rispondono a canoni estetici particolarmente elevati.
Nell’arte ebraica il ruolo della dona assume una notevole rilevanza: come appartenente a una categoria sulla quale non ricadono molti dei precetti obbligatori per l’uomo, ha una quantità maggiore di tempo da poter dedicare alle espressioni artistiche.
Le limitazioni che la norma prescrive rispetto alle forme artistiche riguardano due ambiti fondamentali: quello dell’idolatria e quello dell’erotismo.
Per quanto riguarda la prima, bisogna tenere conto che si tratta di uno dei principi cardinali dell’ebraismo incluso nei Dieci Comandamenti: quei Maestri che hanno stabilito che il Cristianesimo non rientra nella categoria della Avodà Zarà (culto estraneo, idolatria), limitano questa definizione esclusivamente ai Noachidi, coloro cioè che applicano le sette leggi di Noè. Una delle sette Leggi alla base dei precetti Noachidi proibisce l’ idolatria, concetto da intendere in maniera meno restrittiva rispetto all’ebraismo, per il quale vale la proibizione di non farsi alcuna immagine.
Le immagini di Dio – in qualsiasi forma esse siano – sono proibite: tuttavia i Maestri discutono se la proibizione di fare immagini dell’uomo vada applicata anche nel caso in cui l’immagine non sia completa, ma monca, per esempio mancanza di un occhio o altro. Così pure discutono se la proibizione riguardi le immagini in rilievo o tutte le immagini, comprese le semplici raffigurazioni e le immagini ottenute per intarsio. In pratica viene permessa l’arte della fotografia e del disegno, anche se non mancano quanti, per motivi mistici, tendano a proibirle.
Il secondo gruppo di divieti riguarda il campo erotico. I riti della fertilità così in uso nel mondo cananeo e nel mondo classico greco – romano, hanno certamente avuto la loro influenza nell’atteggiamento sia della Bibbia che dei testi canonici successivi, che stabiliscono limiti precisi ad un uso dell’arte, quando questa può sollecitare istinti erotici.
A queste due categorie di divieti se ne possono aggiungere altre “minori” legati alla distruzione del Santuario di Gerusalemme: l’obbligo di lasciare qualcosa di incompiuto nella costruzione di una casa, l’uso non appropriato della musica accompagnata dal canto, che già riecheggia nelle parole del salmo 137: ” Come potremo cantare i canti del Signore su una terra straniera”.
Un altro importante concetto della Halakhà è quello di Devarim betelim oppure Bittul Torà, cioè perdere il proprio tempo dedicandosi a cose inutili. La halakhà distingue tra due tipi di azioni: una chiamata reshùth, permessa, che comprende le azioni normali che l’uomo fa per guadagnarsi il pane: è quindi permesso occuparsi di arte, ma solo nella misura in cui questa può essere necessaria per provvedere alle necessità materiali della sopravvivenza. L’uomo deve dedicare la maggior parte del proprio tempo, il giorno e la notte, allo studio della Torà. In effetti se scorriamo la storia del popolo d’Israele fino alla rivoluzione francese – che ha costituito un momento di progressivo allontanamento dallo studio e spesso dall’applicazione della Torà – non v’è dubbio che queste limitazioni (la proibizione di fare idolatria, la proibizione di fare immagini che possono sollecitare atteggiamenti erotici, il lutto per la distruzione del Tempio) hanno avuto un’influenza determinante nel segnare l’arte ebraica, anche se naturalmente non mancano le eccezioni.
Più in generale, dal punto di vista del pensiero ebraico e dell’atteggiamento che l’artista assume di fronte alla sua opera, si può ancora aggiungere che i Maestri hanno guardato con riserva la stessa arte, in quanto l’artista con la sua creatività tende a sentirsi e quasi a sostituirsi a Dio.
Un concetto fondamentale per capire e per giudicare poi l’arte ebraica è quello che i Maestri chiamano “leshèm shamàim”, per uno scopo celeste: ogni azione e quindi anche quella artistica deve avere uno scopo superiore, divino, non deve avere uno scopo egoistico, personale. In questo rientra evidentemente il concetto già citato dell’abbellimento estetico della mitzvà.
Occuparsi della Torà e del suo studio è per l’uomo della halakhà un’attività superiore a quella dell’artista. L’uomo deve dedicare il suo amore e la sua passione, innanzi tutto, alla Torà, un amore che può raggiungere quasi vette erotiche, così come troviamo nel Cantico dei Cantici, che secondo la tradizione è una rappresentazione della storia di amore tra il popolo d’Israele e Dio.
A partire da quanto su esposto, si potrebbe forse concludere che la Halakhà abbia sempre e comunque un atteggiamento negativo verso l’arte. In realtà non è così: la Halakhà non vuole negare un ruolo all’attività artistica, ma vuole stabilire delle priorità. Così come le norme che vietano il consumo di certi alimenti non significano che la Torà sia favorevole all’ascetismo, così pure la Torà non intende in nessun caso negare il valore ai piaceri del mondo (e tra questi anche all’arte): essa intende invece stabilire delle priorità e quello dello studio della Torà e della sua corretta applicazione sono, in assoluto, prioritari rispetto alle altre attività:
“Chi cammina per strada e sta studiando e interrompe il suo studio e dice: Quanto è bello quest’albero, quanto è bello questo solco, il testo lo considera come se avesse danneggiato irrimediabilmente la propria persona”.
La vita e la sopravvivenza del popolo ebraico è sempre stata basata sulla Torà e anche quando ha trovato le sue espressioni nel mondo dell’arte, quest’ultima trovava la sua giustificazione solo nella misura in cui poteva alimentare questa vita e concorrere a un’applicazione più dignitosa della sua tradizione e della sua missione.