Gli ebrei sono presenti in Italia da più di ventuno secoli. Arrivarono a Roma al tempo dei Maccabei per trattare una alleanza politica, che dopo un po’ avrebbe strangolato la loro indipendenza, ma da Roma non si spostarono più, resistendo ad ogni tipo di costrizione, umiliazione, persecuzione. È un primato unico nella storia ebraica e nella storia universale, e che comunque lo si consideri – dal punto di vista laico o quello religioso – solleva delle domande. La società di maggioranza reagisce alla presenza di un corpo sociale “diverso” in vario modo, e spesso nel peggiore dei modi possibili, quello del rifiuto: che poi diventa desiderio di eliminazione, ora fisica (dall’emarginazione all’espulsione al massacro) ora spirituale ( diffamazione , pressione conversionistica, imposizione di modelli). Gli ebrei italiani hanno conosciuto tutto questo, eppure sono riusciti a sopravvivere e dimostrare con la loro tenace resistenza i vantaggi di una società in cui la diversità è ricchezza. In questi decenni il mondo sta cambiando molto velocemente e le società occidentali si mescolano con flussi migratori fino a poco fa impensabili. Questi grandi movimenti sono accompagnati da pulsioni estremiste, sia da parte delle società tradizionali che non sono abituate alla presenza del diverso, sia da parte del mondo che si muove, in cui l’angoscia per la perdita dell’identità in un mondo ignoto e spesso ostile rischia di esprimersi in forme religiose arroganti e intolleranti. Gli ebrei si possono permettere di guardare questi fenomeni con una certa saggezza maturata in due millenni di confronti, anche se sono certamente consapevoli del rischio di essere coinvolti – spesso per primi – nelle possibili degenerazioni di conflitti.
Ne deriva un impegno di partecipazione alla costruzione e alla difesa di una società democratica e multiculturale, senza però perdere di vista i forti segnali che derivano dalla propria tradizione. Il dialogo tra religioni è certamente uno strumento per migliorare il clima e abbassare il livello delle tensioni sociali, ma spesso non è chiaro cosa si deve intendete per dialogo: certamente non si dialoga quando si presume di presentare verità assolute e superiori a soggetti diversi, che devono solo ascoltarle. Il dialogo non deve affrontare i principi della fede, che sono inconciliabili, ma deve essere uno scambio di esperienze, una definizione di obiettivi comuni, e una franca discussione sugli eventuali contenziosi aperti. Gli avvenimenti di questi ultimi giorni dimostrano poi almeno due cose (che con il buon senso erano chiare anche prima); che le religioni non sono blocchi monolitici in cui tutti pensano allo stesso modo, ma raccolgono “buoni e cattivi” in ogni campo; e che essere “religioso” non dà certo la patente di uomo superiore, buon cittadino, benefattore dell’umanità. Ne deriva che il concetto di dialogo deve superare la barriera del concetto di religione, per confrontarsi con le diversità e le difficoltà presenti prima di tutto nel proprio gruppo, e poi negli altri, in qualsiasi cosa credano o non credano.
L’impressione in questi giorni di grande crisi e angoscia (dopo le Torri dell’11 settembre) è che ci sia un ritorno alla religione e alla fede. In realtà la purezza di ogni tradizione spirituale viene messa a dura prova in questi giorni, perché non è la paura e l’incertezza che dovrebbe guidare la corsa (o la fuga) veloce nella fede o nell’irrazionale, ma una lenta maturazione verso la scoperta di valori più alti e profondi nell’esistenza. Per gli ebrei l’11 settembre è già cominciato molti anni, o decenni, o secoli fa, perché l’incertezza è quasi parte di una condizione esistenziale ebraica. Portiamo nella società il contributo di un’esperienza di vita profondamente radicata nella realtà, e di un’esperienza di fede che rivoluziona il senso del quotidiano. Non siamo disposti a rinunciare a queste esperienze, perché siamo consapevoli o almeno fiduciosi della loro utilità per tutti.
Metro – 26 Novembre 2001